Il tempo di una canzone – Richard Powers

SINTESI DEL LIBRO:
In una grande sala vuota, mio
fratello sta cantando. La sua voce
non si è ancora smorzata, non del
tutto. Nelle stanze in cui ha fatto
risuonare le sue note, sui muri
marezzati di suono, indugia
un’impronta, come in attesa di un
fonografo che torni un domani a
diffonderle.
Mio fratello Jonah è ritto in piedi,
una mano appoggiata al pianoforte.
Ha solo vent’anni. Gli anni Sessanta
sono appena cominciati. Il paese è
assopito in un suo ultimo sogno di
simulata innocenza. Nessuno ha mai
sentito parlare di Jonah Strom al di
fuori della mia famiglia, o di quello
che ne resta. Siamo a Durham,
North Carolina, al vecchio
auditorium della Duke University. È
riuscito ad arrivare alle finali di una
gara canora nazionale a cui, di qui a
qualche tempo, negherà di avere mai
preso parte. Jonah è da solo, in
piedi, al centro del palco. Torreggia,
appena chino in avanti, le spalle alla
curvatura del pianoforte a coda, sua
unica sicurezza. Si protende come la
cassa armonica di un elusivo
violoncello, la sinistra sul
pianoforte, la destra levata davanti a
sé, come se serrasse tra le dita una
lettera all’improvviso e
misteriosamente svanita. Sorride
come alla temerarietà di trovarsi lì,
poi inspira e comincia a cantare.
Per un momento il Re degli Elfi
si posa sulla spalla di mio fratello e
gli parla, sottovoce, di una morte
liberatoria. L’istante dopo una botola
si spalanca nell’aria e mio fratello è
altrove, a prendersi gioco di
Dowland, in un guizzo di
incantevole impertinenza per
l’attonito pubblico da lieder in sala,
che inutilmente cerca di afferrare
l’impalpabile rete che gli vola sopra
la testa.
Il tempo si ferma con lo sguardo
sul suo viso,
fermatevi e guardatela per minuti
ore e anni, lasciatele il passo.
Tutto cambierà ma lei uguale
rimarrà,
finché il cielo avrà cambiato il
corso e il tempo avrà perso il
suo nome.
Due strofe e il pezzo è concluso. Il
silenzio incombe sulla sala, corre
lungo le poltrone come un
palloncino sul filo dell’orizzonte.
Per lo spazio di due battute, anche
solo respirare sembra un crimine.
Poi, non c’è altro modo per
sopravvivere a una simile sorpresa
se non applaudendo. La sonora
gratitudine delle mani dà
nuovamente il via allo scorrere del
tempo, lanciando il suo strale verso
il bersaglio e mio fratello verso tutto
ciò che rappresenterà la sua fine.
È così che lo vedo, anche se vivrà
ancora un terzo di secolo. Questo è
il momento in cui il mondo ne fa la
scoperta, la sera in cui comprendo a
cosa mira la sua voce. Anch’io sono
sul palco, seduto allo Steinway
malconcio con i suoi meccanismi
caramellosi. Lo accompagno,
cercando di stargli dietro e di non
dare ascolto alla voce di sirena che
dice: Ferma quelle dita, lascia che
la tua barca si infranga contro la
scogliera delle note e muori in pace.
Anche se non commetto errori
madornali, non è una serata di cui
andare particolarmente fieri. Dopo il
concerto chiedo a mio fratello per
l’ennesima volta di lasciarmi in
pace, di trovarsi un altro
accompagnatore che gli renda
giustizia. E lui per l’ennesima volta
si rifiuta: «Ce l’ho già, Joey».
Sono lassù sul palco, insieme a
lui, eppure allo stesso tempo sono in
platea, nel posto che da sempre
occupo ai concerti: ottava fila, inizio
del settore di sinistra. Mi siedo dove
posso vedere le mie dita muoversi,
dove riesco a studiare il viso di mio
fratello – sufficientemente vicino da
osservare ogni cosa, ma abbastanza
distante da sopravvivere alla visione.
Il panico da palcoscenico
dovrebbe paralizzarci. L’attesa
dietro le quinte è un’unica,
sanguinante ulcera. Musicisti che
hanno trascorso l’intera loro giovane
esistenza in preparazione a questo
momento si apprestano ora a
trascorrere la vecchiaia alla ricerca
della ragione per cui non è andata
come doveva. La sala trabocca di
veleno e invidia, di intere famiglie
che hanno viaggiato per centinaia di
chilometri per vedere l’orgoglio
delle loro vite ridotto a brandelli.
Solo mio fratello non ha paura. Ha
già pagato. Questa competizione non
ha nulla a che vedere con la musica.
Musica significa anni e anni di
armonia tutti insieme, racchiusi nel
guscio della nostra famiglia, prima
che quel guscio si rompa e vada in
cenere. Jonah scivola lungo il panico
e i camerini ricolmi di aristocratica
nausea posato su una nuvola, come
in una prova costume di una recita
che non si terrà. Sul palco, contro il
mare di paura che lo circonda, la sua
tranquillità elettrizza l’uditorio. Il
drappo della sua mano posata sullo
smalto nero del pianoforte, essenza
stessa della sua voce prima ancora
che ne sia giunto il suono, rapisce
gli ascoltatori.
Lo vedo in quella sera del suo
primo, dichiarato trionfo, a distanza
di quarant’anni. Ha ancora quella
curva morbida intorno agli occhi che
la vita più tardi gli incrinerà,
accentuandola. La mascella, a
differenza delle note, gli trema
leggermente sulla spinta delle
semiminime di Dowland. Inclina la
testa sulla spalla destra salendo al
Do, quasi ritraendosi dal suo attonito
uditorio. Il volto ha un sussulto,
negli occhi uno sguardo che io solo
vedo dal mio trespolo dietro il
pianoforte. La linea spezzata del suo
naso, le labbra scure, gli zigomi
sporgenti: quasi il mio volto, ma più
intento, di un anno più maturo e di
un tono più chiaro. Un colore che lo
salva e che al tempo stesso è il
documento ufficiale del crimine
privato della mia famiglia.
Mio fratello canta per salvare i
buoni e fare in modo che i malvagi
si tolgano la vita. A soli vent’anni,
conosce bene gli uni e gli altri. È
questa la fonte della sua risonanza,
di quel suono che tiene gli
ascoltatori sospesi per pochi istanti
prima che riescano a risolversi ad
applaudire, come sentendo, nel
librarsi della sua voce, uno squarcio
aprirsi sopra di loro.
Quell’anno è uno sfarfallante
segnale televisivo in bianco e nero
proveniente da un televisore
portatile. Il mondo della nostra
infanzia – le razioni A, un mondo
nutrito dalla radio, tutto proteso alla
guerra finale contro il male – si
congela in un’istantanea. Un uomo è
volato nello spazio. Gli astronomi
captano pulsazioni di oggetti celesti.
Rispetto al globo gli Stati Uniti
prendono una loro propria direzione.
La polveriera di Berlino è sul punto
di esplodere. Il Sudest asiatico
sfrigola, ridotto a nient’altro che un
ricciolo di fumo che si leva dalle
piantagioni di banane. A casa,
un’epidemia di bambini si
ammonticchia dietro le vetrate dei
reparti di maternità da Bar Harbor a
San Diego. Il nostro presidente
senza cappello con la faccia da
ragazzo gioca a football nel giardino
della Casa Bianca. Il continente è
sommerso da spie, beat e grandi
elettrodomestici. Montgomery
coglie il quinto anno di un’impasse
di cui non mi accorgerò per altri
cinque anni. E settecento ignari
individui a Durham, North Carolina,
scompaiono serenamente nel fianco
di granito della montagna aperto dal
canto di Jonah.
Prima di stasera nessuno ha mai
sentito mio fratello cantare al di
fuori di noi. Adesso la voce si è
sparsa. Nell’applauso che si leva,
vedo il suo volto rosso ruggine
esitare da dietro l’ostile barricata del
sorriso. Si guarda intorno, come alla
ricerca di un’ombra in cui rifugiarsi,
ma è troppo tardi. Si profonde allora
in larghi sorrisi sdolcinati e poi, con
un inchino a lungo provato, accetta
il proprio destino.
Dobbiamo uscire un paio di
volte, e la seconda Jonah deve
letteralmente trascinarmi con sé. Poi
i giudici proclamano i vincitori di
ogni categoria – terzo, secondo,
primo – come se Duke fosse Cape
Canaveral, questa gara un altro
lancio del Mercury e la Nuova Voce
d’America un altro Shepard o
Grissom. Siamo in attesa nelle
quinte e gli altri tenori si sono
raccolti in cerchio intorno a mio
fratello, già odiandolo e adulandolo.
Combatto l’impulso di negoziare
con il gruppo, di assicurare loro che
mio fratello non è niente di speciale
e che tutti quanti hanno cantato
ugualmente bene. Quelli intanto
studiano Jonah, il portamento per
nulla affettato, come per carpire la
sua strategia e usarla la prossima
volta: la baldanza di Schubert e poi
il gancio sinistro di Dowland, alla
ricerca di quel sostenuto sospeso
sopra il La alto. Ciò che non
riescono a tenere abbastanza lontano
da riuscire a distinguerlo intanto ha
già inghiottito mio fratello tutto
intero.
Jonah, appeso alle funi del
backstage nel suo completo nero da
concerto, ascolta i soprani. È fermo
in piedi e osserva. Canta al loro
indirizzo, lanciando silenziosi bis.
Tutti sanno che il vincitore è lui e
Jonah fa una gran fatica a non darvi
importanza. I giudici chiamano il
suo nome. Gente invisibile applaude
e fischia. Jonah rappresenta la loro
vittoria a favore della democrazia, e
ancora peggio. Si gira verso di me,
prolungando il momento. «Joey,
fratello, ci deve essere un modo più
onesto di guadagnarsi da vivere.»
Dopo di che infrange l’ennesima
regola trascinandomi con sé sul
palco a ricevere il premio. E la sua
prima competizione pubblica si
affretta a entrare nel passato.
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