Il vento della sera – Arduino Rossi

SINTESI DEL LIBRO:
Gli anni erano trascorsi senza che più nessuno si rammentasse
di lei, la vecchia matta della soffitta.
La casa era passata da proprietario a proprietario, poi
finalmente l'ultimo decise di sistemare quel vetusto stabile
al centro del villaggio, accanto alla torre campanaria tra le
ortiche di un orto incolto.
Il caldo dell'estate era giunto in ritardo quell'anno, ma era
esploso con vigore.
I lavori proseguivano rapidi e il nuovo padrone era convinto di
poter affittare gli appartamenti ricavati per l'autunno.
La vecchia aveva minacciato poco prima di morire: -Non
toccatemi la casa! Guai a voi!-
Il nuovo padrone era un forestiero spiccio, un uomo d'affari che
comprava per far rendere, per guadagnare presto e bene.
Non era tipo disposto ad ascoltare le ciarle delle comare, né a
dar fede a una vecchia matta, morta anni prima in odore di
stregoneria.
La casa fu pronta per settembre, in anticipo rispetto ai
programmi, ma nessuno in paese accettò di entrare
nell'abitazione della vecchia: la gente si era ricordato della
cattiveria di quella pazza che urlava maledizioni dal balcone,
augurando malattie e morte ai passanti.
Spesso le sue profezie di sciagure si avveravano: più nessuno
osò transitare sotto le sue finestre.
Allora la casa andò in uso ai forestieri, gente nuova che non
sapeva nulla del paese, dei suoi usi e dei suoi pericoli.
Nulla avvenne per molti mesi, per anni: la gente si scordò della
vecchia e della loro paura.
Si ritenne svanito il pericolo: l'inferno si era ingoiato l'anima
nera della strega.
Invece capitava che Satana la lasciasse uscire di tanto in tanto,
il tempo necessario per del male i vivi.
Il primo che la scorse fu un bambino: la descrisse orribile e
ghignante.
Il piccolo non fu creduto: precipitò dal terrazzo la sera dopo.
Non si sa come, ma quella casa portava sventura e le morti si
susseguivano, preannunciate dal brutto muso della vecchia: si
mostrava nelle sembianze più ripugnanti che si possono
immaginare.
Aveva un viso deforme, gonfio e sogghignante nel dolore più
atroce.
La casa presto perse i suoi inquilini e tornò solitaria, illuminata
dalla luna e dai lampi dei temporali.
Si intravvedevano ombre sfuggenti, si udiva lo stridore di
qualche pianto misterioso: erano anime senza pace o gatti in
amore?
IL LUPO SUL TETTO
Era da tre ore che attendevo la luna, la mia odiata nemica.
Il sole era già tramontato dietro la montagna e la luna iniziava a
emanare qualche timido raggio e già la mia pelle iniziava a
fumare.
Sudavo e ansimavo, avevo fame e freddo, sete e sonno.
Tutte le voglie, le passioni si scontravano in me e finalmente il
pelo si sollevò, si infoltì.
Spuntava fumo e rabbia, contro me stesso e la mia natura
maligna, contro il mondo degli uomini, normale e tranquillo.
Le orecchie si erano appuntite, sulle mani e sui piedi
spuntavano gli artigli.
In famiglia conoscevano la mia disgrazia e mi rinchiudevano nel
sotterraneo, per evitare brutte sorprese, per celare ciò che per
loro era una vergogna.
Quella notte la mia forza superò il limite bestiale delle altre
volte: frantumai la porta di legno massiccio dell'abbaino e
giunsi sino al tetto spiovente.
Mi sollevai sul camino spento, allunando il peloso corpo verso
lei, la mia signora e padrona, l'astro malefico.
Ululai contro il cielo.
Il mio corpo semi-umano era lungo e sottile, scarno e dal pelo
folto: mi avvolgeva in un tepore ruvido, animale.
Era la prima volta che in paese mi vedevano: la nostra casa era
un po' isolata, ma visibile dal borgo sottostante.
Da anni udivano le mie urla acute e bestiali, ma era la prima
volta che mi scorsero.
Si unirono in piazza e le concitate discussioni si trasformarono
in furibonde risse: si voleva agire subito, prima che potessi far
del male.
Una folla minacciosa giunse da noi e i miei parenti non ebbero il
coraggio di opporsi, per non essere bruciati vivi nella casa.
La porta di ferro del sottotetto fu aperta e i più arditi e
avvinazzati mi affrontarono, ma fu facile per me evitarli: scivolai
dal cornicione sino al balcone e da lì saltai al suolo senza
ferirmi.
Mi avevano liberato ed il pericolo diventava concreto per loro.
Fuggii nel bosco, inseguito dai cani, ma non riuscirono a
rintracciarmi, ero troppo rapido.
La notte stava terminando e la luna era calata da un po'.
La forza orrenda che mi aveva mutato in una fiera era svanita:
ero ancora io, il ragazzone del villaggio, tranquillo ed
indaffarato, gentile con tutti, timido con le donne.
Non potevo più tornare tra la mia gente: mi avrebbero subito
ucciso.
L'alba mi trovò nudo, con molti graffi sugli arti, sulla testa e una
grande paura che sconfinava nella disperazione.
Il diavolo mi aveva preso sotto la sua disgustosa protezione.
Non mi rimase che vivere come uomo selvatico: raccogliere
bacche, uova di uccello, nutrirmi di radici in inverno.
Le stagioni segnarono il mio fisico, rendendolo forte, duro e
scuro.
Cercavo di stare lontano dai centri abitati, per non causare guai,
ma quella sera la luna mi sorprese: era accanto a una baita. Le
forze della bestia, che era in me, mi spinse tra quelle brave
persone: riuscirono a fuggire tutti, tranne una ragazza molto
bella e cieca.
Ella si intimorì per le mie grida disumane, ma comprese di avere
a che fare con un essere più sofferente che cattivo: si avvicinò.
Il mio ringhiare divenne un latrare, poi caddi ai suoi piedi come
un vecchio cane fedele.
Piansi dalla commozione quando mi accorsi di essere di nuovo
nelle sembianze umane, ma non mi accorsi che molta gente era
alle mie spalle.
Ormai ero guarito e non sarei tornato nell'aspetto da lupo.
La mia felicità durò poco: non ebbi il tempo di provare stupore.
La gente mi colpì alle spalle con badili, falci, picconi: mi fecero
a pezzi e i miei resti furono arsi per poi disperderne le ceneri
nella selva.
IL BUIO DELL'ALBA
Camminare era il mio passatempo preferito: non avevo altro in
quel borgo campagnolo, dove mi ero ritirato per trascorrere la
vecchiaia.
Non avevo più interessi da tempo e dopo una giovinezza piena
di avvenimenti, fatti entusiasmanti, avevo messo la testa a
posto.
Fui assunto come impiegato ministeriale, grazie a un mio zio
monsignore con appoggi a corte.
Ero un fedele suddito dell'Arciduca, Signore della mia regione,
florida ed arretrata, dove ogni innovazione era vista con
sospetto.
A vent'anni avevo partecipato a moti rivoluzionari, con la facilità
e l'entusiasma dell'età: ero finito anche sulle barricate e solo
per un miracolo non mi ero buscato qualche palla in testa.
Molti miei compagni di studi, con i miei ideali, morirono
combattendo o furono feriti e imprigionati nelle terribili segrete
del palazzo ducale.
I pochi che uscirono per la grazia dell'Arciduca, dopo anni,
erano delle larve umane: erano ammalati ai polmoni, con pochi
anni davanti a sé.
Io invece feci carriera e presto passai nella Polizia segreta: da
giovane rivoluzionario divenni spia e servitore del decadente
sistema giudiziario, economico, politico di quel piccolo ridente
Stato.
Sapevo che eravamo alla fine di un'epoca.
La storia è inesorabile: ciò che ha resistito per secoli può
crollare in un solo giorno, quando un potere è così vecchio da
non comprendere il nuovo che incalza.
Feci il mio dovere sino alla maturità avanzata: ero riuscito a far
infiltrare un mio uomo in ogni gruppo eversivo.
Più che voler reprimere direttamente tutto e tutti, avrei dovuto
far arrestare metà della popolazione del Ducato, mi limitavo a
prevenire rivolte, complotti, attentati.
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