Il segreto di Eva – Amy Harmon

SINTESI DEL LIBRO:
Firenze
«Santino ha un nipote. Lo sapevi?»,
disse suo padre.
«Nonno ha un nipote?», chiese
Eva.
«Sì. Anche se lui non è veramente
tuo nonno. Sapevi anche questo,
vero?»
«Lui è mio nonno, perché mi
vuole tanto bene», ragionò Eva.
«Certo, ma non è mio padre e non
era il padre di tua madre. Quindi non
è tuo nonno», spiegò con pazienza
Camillo.
«Sì, babbo. Lo so», rispose lei,
seccata, non capendo perché suo
padre la prendesse tanto a cuore.
«Quindi Fabia non è veramente mia
nonna». Le sembrava di mentire a
dirlo ad alta voce.
«Sì. Esatto. Santino e Fabia hanno
un figlio, capisci. Ha lasciato
Firenze ed è andato in America
quando era un giovanotto, perché lì
c’erano più opportunità per lui. Ha
sposato una ragazza americana e
hanno avuto un bambino».
«Quanti anni ha?»
«Undici o dodici. Ha un paio
d’anni più di te».
«Come si chiama?»
«Credo che si chiami Angelo,
come suo padre. Ma per favore,
Batsheva, stammi un attimo a
sentire. Smettila di interrompermi».
Suo padre usava il suo nome
completo solo quando stava per
perdere la pazienza, così lei lo
ascoltò e trattenne la lingua.
«La madre di Angelo è morta»,
disse lui in tono mesto.
«È per questo che nonna piangeva
ieri quando ha letto il telegramma?».
Eva aveva già dimenticato che non
doveva interrompere.
«Sì. Santino e Fabia vogliono che
il figlio porti il ragazzo in Italia. Ha
alcuni problemi di salute, un difetto
alla gamba, mi pare. Vogliono che
venga a vivere qui. Con noi. Almeno
per un po’. Il fratello maggiore di
Santino è un prete e pensano che il
ragazzo possa andare in seminario
qui a Firenze. È un po’ troppo
grande per cominciare, ma in
America ha frequentato una scuola
cattolica, quindi non dovrebbe
essere troppo indietro. Anzi,
potrebbe essere persino avanti». Suo
padre lo disse come se stesse
ragionando ad alta voce, anziché
comunicandole un’informazione
utile. «E io darò una mano dove
posso», rifletté.
«Penso che diventeremo amici»,
disse Eva. «Perché abbiamo
entrambi perso nostra madre».
«È vero. Gli servirà un’amica».
Eva non ricordava sua madre. Era
morta di tubercolosi quando lei era
piccola. Serbava solo un vago
ricordo di lei, distesa immobile nel
letto, con gli occhi chiusi. Eva non
doveva avere più di quattro anni, ma
ricordava ancora l’altezza di quel
letto e l’esultanza per essere riuscita
a salirvi, con il piccolo violino
stretto in mano. Voleva suonarle una
canzone.
Gattonando, si era seduta al
fianco di sua madre e le aveva
toccato la fronte febbricitante. Il
rossore innaturale della tisi la faceva
somigliare a una bambola
imbellettata. Sua madre aveva alzato
lentamente le palpebre e l’aveva
guardata con occhi vacui e drogati,
rafforzando il paragone. L’aveva
spaventata, quella figura quasi
esanime che la fissava con occhi
vitrei. A quel punto, sua madre
aveva pronunciato il suo nome,
spezzato e scricchiolante tra le sue
labbra come un vecchio pezzo di
carta.
«Batsheva», aveva bisbigliato, poi
era scoppiata in un accesso di tosse
che l’aveva torturata e sconquassata
tutta. Il modo in cui aveva detto il
suo nome, quel bisbiglio rauco, il
modo in cui aveva sospirato tra una
sillaba e l’altra, come se fosse la sua
ultima parola, a lungo avevano fatto
sì che Eva odiasse il proprio nome.
Dopo la morte della madre, quando
suo padre la chiamava Batsheva,
scoppiava a piangere e si copriva le
orecchie.
Per questo lui aveva cominciato a
chiamarla Eva.
Questo era tutto ciò che ricordava
della vita di sua madre, del tempo
troppo breve che avevano condiviso
e che aveva cercato di dimenticare.
Non era un ricordo a cui teneva.
Preferiva serbare la sua fotografia,
fingere di ricordare l’amabile donna
con i morbidi capelli castani e la
pelle di porcellana, che la teneva in
braccio, seduta accanto a una
versione più giovane di Camillo,
senza fili grigi tra i capelli neri, con
la faccia seria smentita dai ridenti
occhi castani.
Eva aveva cercato di ricordare ciò
che provava quando era la neonata
nella foto, la bambina che fissava
con occhi intenti la donna che la
teneva in grembo. Ma per quanto ci
avesse provato, non era riuscita a
ricordare nulla. Non le assomigliava
nemmeno, a sua madre. Somigliava
a suo padre, Camillo, anche se aveva
la pelle più chiara e le labbra più
rosee.
Era difficile amare o sentire la
mancanza di qualcuno che non
aveva nemmeno conosciuto.
Eva si chiese se Angelo, il nipote
di Santino, amasse sua madre.
Sperava che non la amasse troppo.
Amare qualcuno e poi perderlo
doveva essere molto peggio che non
averlo mai davvero amato.
* * *
«Perché sei triste?», chiese Eva,
alzando le ginocchia al petto sotto la
lunga camicia da notte. Aveva
scovato Angelo che osservava il
temporale nello studio di Camillo,
con le porte del balcone aperte, la
pioggia che cadeva pesantemente sul
lastricato rosa. Non si aspettava che
lui le rispondesse. Angelo non le
aveva mai parlato. Viveva nella villa
con i suoi nonni da tre mesi ormai,
ed Eva aveva fatto di tutto per
diventare sua amica. Aveva suonato
il violino per lui. Aveva danzato per
lui. Si era tuffata nella fontana con
l’uniforme scolastica prendendosi
una ramanzina, solo per farlo ridere.
Lui rideva, qualche volta. E questo
la spingeva a impegnarsi di più. Ma
non le aveva mai parlato.
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