Il Fantasma dei Fatti – Bruno Arpaia

SINTESI DEL LIBRO:
Quando ci ha aperto, il Greco non ha mosso un muscolo. È rimasto
piantato sulla porta, con la mano appoggiata alla maniglia, la pipa
che gli pendeva dalle labbra, a scandagliarci da dietro le sue lenti
con la montatura spessa, fuori moda, come non ne vedevo da anni e
anni, finché non ha increspato gli angoli della bocca.
«Vi hanno mandato loro?» ha chiesto.
No, anzi, non è esatto. La verità è che non so nemmeno come
pronunciarla, quella sua prima frase: punto interrogativo oppure no?
Per quasi tutti, sarebbe stata una semplice domanda, però, per lui,
molto probabilmente non lo era. Aveva già capito. Forse non fino in
fondo, non proprio tutto tutto, ma aveva già capito.
«Vi hanno mandato loro.»
George è rimasto fermo, io ho annuito. Cosa potevo fare? Poi
George gli ha detto i nostri nomi, gli ha detto che eravamo
dell’Agenzia e infine gli ha spiegato che volevamo soltanto fare
quattro chiacchiere prima che fosse interrogato dalla Commissione.
Stavolta è stato lui ad annuire.
«D’accordo, entrate.»
Era bassino, aveva una camicia di flanella a quadri, capelli corti e
crespi, appena brizzolati sulle tempie. E doveva, come sempre,
soffrire con la schiena, perché l’ho visto incamminarsi rigido come un
palo dentro casa. Ma lo sapevo, ci avevano avvisato: nel briefing
prima di affidarci la missione, ci avevano spiegato che Thomas
Karamessines aveva una deformazione alla colonna che lo faceva
vivere perseguitato da un dolore sordo che non gli dava tregua. Il
legno del parquet scricchiava sotto i nostri passi mentre
percorrevamo un corridoio e sbucavamo in un salotto con un grande
camino. Dalle finestre si vedeva il lago, calmo come una tavola.
Anche se in cielo non c’era nemmeno l’ombra di una nuvola, l’acqua
era tinta di un azzurro cupo, gonfio del verde scuro dei larici e dei
pini sulle rive. Lui si è seduto con grande precauzione, come se non
si fidasse della sedia a dondolo, e poi ci ha fatto un cenno con il
mento: dovevamo accomodarci sul divano.
«Un tè? Un caffè?»
«No, grazie. Magari un po’ più tardi. L’abbiamo appena preso, per
la strada.»
Arrivare fin lì, quella mattina, non era stato facile. Sì, certo,
sapevamo dov’era la sua casa di vacanza: Québec, Grand Lake; e
sapevamo anche che per il Labor Day sarebbe stato solo: la moglie
era già ripartita per Falls Church perché doveva riprendere servizio e
le tre figlie erano tornate nelle loro case in Canada. Però perfino per
le sue vacanze il Greco aveva scelto un posto a un passo
dall’inferno, lontano da ogni strada segnalata. Così ci eravamo
fermati in un bar e avevamo chiesto in giro… No, certo, non
avevamo detto: scusi, sa dove abita il signor Karamessines?
Sarebbe stato inutile. Chissà con quali documenti si era presentato
quando aveva comprato lo chalet. Nomi di copertura, sempre. In
questo, Tom K era più che maniacale: non lasciava mai nulla per
iscritto, fosse pure la lista della spesa.
Ma l’avevamo trovato, per fortuna. E ora eravamo lì, di fronte a lui,
imbarazzati come due estranei bloccati in ascensore. Dalla sua
sedia a dondolo, che manteneva immobile, Tom ha fissato il lago, poi
il vialetto d’ingresso allo chalet e infine si è voltato verso di noi e il
divano. Ci sorrideva, ma il suo sorriso non lasciava intravedere i
denti: era un sorriso cauto, che non si concedeva. Si è sporto sulla
sedia, ha appoggiato i gomiti alle cosce, ha unito i polpastrelli e ci ha
guardato. Dietro gli occhiali, ha battuto le ciglia una, due volte, e ho
avuto l’impressione che l’aria si facesse un po’ più densa, il silenzio
più lento e silenzioso.
«E allora?» ha domandato.
Chianciano (Siena), Italia, 27 giugno 2008
È stato Pietro a darmi l’imbeccata, una sera di giugno, a Chianciano,
dopo cena. Eravamo a un congresso, a una riunione di non so più
cosa. Anche se già ne conoscevo a spanne un paio, è stato lui a
raccontarmi tutte quelle storie, passeggiando su e giù lungo un
vialone, sotto una luna piena paludosa in quel cielo d’estate ancora
umido d’afa. Ma soprattutto è stato lui a cucirle pazientemente
insieme, a immaginare che dietro quegli eventi, all’apparenza sparsi
e disgregati, potesse esserci un piano, una ragione, un ordine, un
destino. Nessuno mai l’aveva fatto prima. Un grande, Pietro Greco.
«Capisci, Bruno?» ha detto sotto i baffi, mentre una macchina ci
sfrecciava accanto, regalandoci il sollievo di un po’ d’aria. «Quattro
storie, guarda caso concentrate in un brevissimo arco di tempo, e,
guarda caso, tutte e quattro finiscono male: per i loro protagonisti e
per l’Italia… Niente più predominio nell’elettronica, nel nucleare e
nelle biotecnologie, niente più ricerca dell’autonomia energetica e
politica. Da quel momento, il nostro paese non è stato più lo stesso:
è allora che si è concluso il boom ed è iniziato pian piano il suo
declino. Però, probabilmente, nessuno potrà mai provarlo, non si
potrà scovare un documento, una pistola fumante che li inchiodi. Ma
allora che si fa? Ci si tiene il sospetto e zitti e muti?»
Pietro non alza quasi mai la voce, parla in punta di piedi, è timido
e discreto, sembra che non si infervori, che non si entusiasmi per
nessuna cosa. Sembra. È solamente il suo particolare modo di
andare per il mondo, cercando di non mettersi in mostra, di non
disturbare; però il suo sguardo è denso e minuzioso, quello che dice
non manca quasi mai di accenderti una luce, un guizzo,
un’intuizione. Io ho scosso la testa e l’ho guardato.
«No, certo» ho detto. «E allora?»
«Forse» ha risposto Pietro, «forse si può provare a raccontare
tutto, a immaginare quello che è successo. A rischio di inventare…
Tanto, di documenti e prove, non se ne troveranno. Mai. E tu scrivi
romanzi, è vero o no? Forse un romanzo può spingersi oltre il punto
in cui uno storico, oppure un giornalista, deve arrendersi… Magari ci
proviamo insieme…»
Al chiarore soffuso di un lampione, l’ho intravisto ammiccare sotto
i baffi, mentre, dietro gli occhiali, lo sguardo gli si illuminava. Sapeva
bene che, nella mia testa, aveva acceso come una scintilla, una
reazione a catena controllata. Lo sapevo benissimo anche io, ma,
come sempre, sentivo pure il rosichìo di un tarlo nel cervello: il
dubbio, la paura di non riuscire a essere all’altezza, di non farcela. E,
come sempre, ho messo tutte e due le mani avanti.
«Ma no, non è possibile… Troppo difficile, troppo complicato. Per
inventare qualcosa di sensato, devi conoscere come le tue tasche
quel periodo storico, le diverse fazioni nei governi, chi era contro o a
favore nei servizi, fare ricerche su tutte quelle storie, muoverti come
un pesce nelle acque degli affari sporchi della Cia… Può esserci di
mezzo il Piano Solo, Gladio, la P2… E poi, sarebbe una congiura
davvero machiavellica. Troppo, per me… Che posso farci? Sono un
ingenuo, in fondo, non ci arrivo… Come scrittore, non ho
immaginazione…»
È stato lui, a quel punto, a scuotere la testa.
«Allora, se è così, non si può fare» ha mormorato. «Non ne
parliamo più, come non detto.»
Ma si vedeva che mi provocava, che non si era arreso, che non
finiva lì, la discussione. E infatti siamo andati avanti ancora un’ora o
due, su e giù lungo quel viale, a sviscerare le storie nei dettagli, a
valutare ipotesi, a esaminare possibili espedienti, punti di vista,
scenari e personaggi da inventare. Però, più parlavamo, più a me
sembrava di non venirne a capo. Anzi, il contrario: troppe pedine
sopra la scacchiera, troppi incastri, troppi protagonisti, troppe forze
in ballo; e troppe incognite per farne un’equazione.
Pensavo a James Ellroy, a American Tabloid. In quel libro, per
immaginare chi avesse ucciso Kennedy, Ellroy aveva messo in
campo decine, centinaia di protagonisti, portando allo scoperto tutti i
fili della possibile cospirazione. Certo, inventando quello che non
sapeva, immaginando scene, personaggi, intrecci, ambientazioni…
Ellroy, però, partiva da migliaia di pagine ufficiali, dai rapporti di varie
commissioni del Congresso, da foto e da filmati, da una valanga di
controinchieste più o meno suffragate. Noi, invece, niente. Non
avevamo, e non avremmo avuto, nemmeno lo scontrino di una
lavanderia, la ricevuta di un versamento in banca, un biglietto del
tram o del metrò.
E intanto, a forza di parlare, di camminare su e giù lungo quel
viale, era ormai passata mezzanotte. L’aria era diventata fresca, si
era perfino alzata una leggera brezza, e noi, prima di salutarci,
continuavamo a chiacchierare in piedi nel parco dell’albergo, quasi al
buio. Di tanto in tanto, non troppo convinti, avanzavamo di appena
qualche passo verso le luci della hall oltre le scale. Finché non mi è
sembrato che tutte quelle storie, quei grovigli di incognite e teorie, mi
pesassero troppo nella testa. Fin quando il sonno non l’ha avuta
vinta sull’eccitazione.
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