Il buio dentro – Antonio Lanzetta

SINTESI DEL LIBRO:
Gli occhi della ragazza lo fissavano attraverso il velo di moscerini che le
ricopriva la faccia. Le iridi blu erano vasi di vetro riempiti dall’orrore e dalla
paura.
Damiano Valente avvertì una fitta alla gamba. Il dolore risalì come un
fiume fetido dal femore fino alla pancia, gli riempì lo stomaco e lui vacillò.
Strinse la presa sul bastone e le nocche sbiancarono. Il flash di una reflex
illuminò la corteccia livida del salice. I rami nodosi emergevano dalle rovine
di una costruzione di pietra. Le mura erano nere, divorate da muschio e
rampicanti, il tetto sfondato.
Damiano osservò i ruderi, poi quel vecchio albero maledetto, e rabbrividì.
Gli era tremata la voce quando il commissario De Vivo aveva telefonato per
avvisarlo. Aveva chiesto di ripetergli il punto esatto in cui l’avevano
ritrovata, perché non riusciva a crederci. Era in cucina quando il telefono
aveva squillato. Si era appoggiato contro il frigorifero, aveva provato a
controllare il respiro sperando che passasse. Era convinto che se avesse
chiuso la chiamata e fosse strisciato fino al suo studio, facendo finta di niente,
tutto sarebbe tornato al suo posto.
Valente, sei ancora lì?
La voce distorta di De Vivo gli aveva ricordato che il passato non si
arrendeva. Potevi andare avanti, provare a far funzionare la tua vita al meglio,
spingere i ricordi in una cantina e spegnere la luce. Lasciare che il buio
facesse il resto. Il passato trovava sempre il modo di far pagare i debiti.
«Chi è stato a trovarla?» chiese.
La ragazza non smetteva di guardarlo. C’era rimprovero in quegli occhi,
un’accusa per qualcosa che lui conosceva e avrebbe potuto evitare. Damiano
affondò una mano nella tasca dell’impermeabile, afferrò la scatola di mentine
e l’agitò. Il rumore delle pillole gli diede conforto. Fece scattare all’indietro il
coperchio con il pollice, se la portò alla bocca e mandò giù una pasticca di
morfina. Sollevò di scatto la punta del bastone dal fango e l’agitò davanti al
naso della giovane. Gli insetti, che vorticavano su una voglia di sangue secco,
si dispersero per poi ritornare in uno sciame compatto.
Una nube che corrodeva i tessuti.
«Un escursionista.» Il commissario De Vivo si mise una sigaretta tra le
labbra ma non l’accese. «Ieri stava percorrendo la vecchia via del mercato
nero quando l’ha vista.»
«Come mai siete arrivati soltanto oggi?» Damiano ascoltò inorridito il tono
della propria voce. Le cicatrici correvano lungo il lato destro della sua faccia
fino al labbro. Carne gonfia e lucida che gli tirava la bocca di lato dando alle
parole il suono viscido della morte. Il suono di qualcosa che doveva essere
sepolto sotto la dura terra e invece era ancora lì. Un corpo spezzato che si
trascinava in mezzo ai vivi.
Il poliziotto allargò le braccia. «È un tedesco, un mezzo hippie fissato per
la natura. Non aveva il cellulare, ti rendi conto? È dovuto scendere fino al
paese. Era buio, pioveva, e credo si sia cagato addosso. La gente ci ha messo
un po’ a capire che cazzo voleva. Abbiamo dovuto far venire un interprete
per interrogarlo.»
«Immagino.»
«Vuoi parlarci?»
Damiano fece una smorfia. L’occhio destro gli lacrimava. Avrebbe voluto
strapparselo e buttarlo in mezzo agli alberi, ma si limitò ad asciugarsi con la
manica dell’impermeabile. Puntellò il bastone nel terreno, spostò il peso del
corpo sulla gamba buona. Il sole stava per tramontare e l’umidità gli entrava
nelle ossa come pugnalate. La parte peggiore però doveva ancora arrivare.
Contrasse gli addominali e sbuffò nell’inginocchiarsi. Sentiva lo sguardo di
De Vivo addosso, la commiserazione di uno che stava guardando uno storpio
provare a essere normale, e fece affidamento sul poco orgoglio che gli restava
per non sembrare un miserabile. La borsa era lì, poggiata ai suoi piedi. La
sfiorò con la punta delle dita, sentì il cuoio ruvido contro i polpastrelli, in un
gesto che aveva visto fare a suo padre migliaia di volte prima di lui.
«Sei il primo giornalista che vedo portarsi dietro una ventiquattro ore»
affermò De Vivo, lanciandogli un’occhiata divertita, e lui si limitò a scrollare
le spalle. Trovava quell’ironia irrispettosa nei confronti della ragazza. La
gente aveva sempre pensato che lui fosse un tipo strano. La cosa non lo
sorprendeva. Damiano Valente, il secchione. Il frocio dalla lingua biforcuta.
Con il tempo, aveva smesso di fare caso a quello che dicevano sul suo conto.
Si era convinto di essere davvero un tipo strano.
Era arrivato sul posto appena aveva saputo, prima ancora del medico
legale, che adesso lo fissava tenendosi a distanza. Lui era lo Sciacallo e le
notizie di cronaca nera gli appartenevano. Era la sua caccia, una spasmodica
ricerca dei fatti che lo aveva portato fino a quel corpo. Si sforzava di
mostrarsi impassibile, distaccato, ma non riusciva a darsi pace. Sentiva
qualcosa nella pancia, come se dei vermi gli stessero mangiando le interiora,
e sperò che la morfina facesse subito effetto.
Intorno al salice, gli uomini della scientifica scattavano foto e marcavano
reperti, muovendosi con cautela nelle tute bianche, più simili a fantasmi che a
persone. Il coroner fece un colpo di tosse e infilò i guanti in lattice.
Un vento gelido sibilò tra i tronchi, scosse le foglie e le gambe della
ragazza oscillarono. Era nuda, appesa a un ramo per i polsi con del filo
spinato. Rivoli di sangue nero e fango le segnavano le braccia fino alle
ascelle. C’erano segni di morsi su un seno, il corpo era una cartina geografica
di lividi e ferite. La testa della vittima era poggiata sul terreno, tra i suoi piedi
e le radici sporgenti del salice.
«Cristo, sembra uno scheletro.» Il commissario De Vivo si avvicinò al
cadavere e le foglie scricchiolarono sotto i suoi piedi.
Denutrita è la parola giusta.
Damiano era madido di sudore. Faceva freddo, ma lui stava sudando. I
capelli incollati alla fronte e la camicia come un secondo strato di pelle. Agitò
la scatola delle mentine, cercando conforto nel rumore delle pasticche che
sbattevano contro le pareti del contenitore. Il dolore lo uccideva, ogni giorno
di più, e quella roba era l’unica cosa che gli permetteva di reggersi in piedi.
La ragazza si mosse e Damiano sbarrò gli occhi. Una vibrazione nei rami.
Il fremito impercettibile delle gambe, come la coda mozzata di una lucertola
che si agitava nell’aria.
Un’allucinazione. Nient’altro che un’allucinazione.
Lo Sciacallo cercò di afferrare i pensieri che gli turbinavano in testa. Era
come se il tempo passato a leggere i vecchi articoli di giornale e a guardare
foto ingiallite del 1985 avesse condizionato la sua mente. I ricordi si erano
trasformati in qualcosa di concreto.
Quell’ossessione era reale e odorava di morte.
«Ne hanno già ammazzata una in questo modo.»
La voce gli giunse alle orecchie distorta. Un’eco amplificata che gli bucò il
cervello.
Damiano si voltò. Chi aveva parlato? Una coltre scura gli era calata
davanti agli occhi. Non riusciva più a distinguere i volti delle persone,
c’erano solo macchie di colore e sagome. Poi vide le bambole. A decine,
corpi di plastica sospesi a mezz’aria. Erano nude e impiccate ai rami. Lo
fissavano con occhi vuoti, studiando i suoi movimenti. Registrando le sue
reazioni a quel messaggio che qualcuno aveva lasciato per lui.
La ragazza era immobile. Una statua di morte.
«Che stai dicendo, Rizzo?» la voce di De Vivo era roca, le parole
mischiate al catarro.
«Commissario, tu non sei di queste parti, vero?» Il medico legale sfiorò
una gamba della vittima. «Trovarono una donna su questa montagna, forse
trent’anni fa. Era scomparsa da settimane. Sono cresciuto a Salerno, ricordo
bene il telegiornale…»
«Era l’estate dell’85.» Damiano sentì il ronzio del sangue nelle orecchie.
Respirò piano e strinse le palpebre. Non gli restava molto tempo prima che
arrivassero gli altri.
Adagiò il bastone sul terreno, fece scattare i lucchetti dorati e aprì la
valigetta il tanto che bastava per prendere un guanto in lattice. Lo infilò sotto
lo sguardo del coroner.
«Che cosa ha intenzione di fare?» chiese il medico, ma Damiano fece finta
di non sentire. Lui doveva toccarla. Doveva sentire la vittima, appropriarsi
del dolore che l’aveva straziata.
«Dottore, stia calmo.» Il tono di De Vivo era imbarazzato.
«Calmo? Chi è questo individuo? Io posso rovinarvi…»
Le parole dei due uomini rimbalzavano da un tronco all’altro. La morfina
prese a circolargli in corpo e Damiano rilassò i muscoli del collo. Le voci
divennero un rumore di fondo, il riverbero di una comunicazione lontana.
Liberò il viso della ragazza da una ciocca di capelli. I suoi occhi non
smettevano di fissarlo. Avvertì un formicolio alla punta delle dita, un calore
che scivolò sotto le unghie, arrampicandosi lungo il braccio fino alla spalla.
Lo Sciacallo pensò a lei, un attimo prima di morire, incapace di distogliere
lo sguardo dal volto del suo aguzzino. Impotente e senza possibilità di
sottrarsi all’orrore, e provò pena. Ricambiò quello sguardo vitreo per un
ultimo istante, poi le abbassò le palpebre.
Non c’era più nulla di cui aver paura. Era rimasto solo il freddo.
«Conoscete il suo nome?» grugnì e le voci intorno a lui tacquero.
«No. Nessuno denuncia di scomparsa, almeno di recente.» De Vivo si tolse
la sigaretta dalle labbra, la punta stretta tra indice e pollice, il filtro rivolto
verso l’alto. «I cani hanno trovato i vestiti sepolti in una buca lungo il
sentiero, in mezzo a quelle bambole del cazzo. A parte questo, ancora nulla.
La scientifica si spaccherà la schiena a cercare qualcosa. Deve arrivare altra
gente da Napoli. Ho fatto diramare un comunicato alle Questure. Cristo,
quanti anni aveva secondo te?
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