Herry Sotter e la maledizione vegetale – Claudio Comini

SINTESI DEL LIBRO:
Nessuno uccise i miei genitori e nessuno tentò di uccidere me.
Questo, però, fu quello che tutti credettero per un intero anno
scolastico. Tutti quanti pensarono che io fossi quell'altro Harry,
quello famoso e pieno di poteri.
Certo, se l'avessi saputo dal principio, non avrei mai acconsentito
che i miei genitori se ne andassero in quel modo, lasciandomi in
custodia dagli zii.
Quello che successe nella realtà, ma in questa storia la realtà
conta proprio un fico secco, fu che mio padre decise di accettare la
straordinaria offerta lavorativa della Quattro salti in Patagonia: sei
mesi di ricerca in Argentina pagati dal Ministero dell'Ambiente.
Ricordo bene il giorno in cui papà ci diede la notizia.
Per poco mia madre non svenne nell'insalata di mare, correndo
tra l'altro il rischio di affogare. Fortunatamente l'insalata era nella
terrina (abituatevi a queste freddure, sono la mia specialità).
Dapprincipio mio padre aveva deciso di partire da solo e avreste
dovuto sentirle le frasi di mia madre, roba da far venire un nodo
scorsoio alla gola persino al più efferato dei serial killer.
"Ma come faremo sei mesi senza di teeeeee? Lo sai che sei tutta
la mia viiiiiiiita! Non siamo mai stati lontani così a luuuuuungo!" e
così via.
Arrivò persino a toccare punte melodrammatiche: "Dovremo
mandare Herry da uno psicologo per fargli superare il trauma!"
Non voglio, però, annoiarvi con i ricatti morali di mia madre
perché per questo mi servirebbe tutto il primo capitolo.
Facciamo così: se vi viene in mente una qualunque frase
strappalacrime potete aggiungerla senza problemi. Certamente mia
madre ha usato anche quella, nel privato con papà.
I miei sapevano perfettamente che io non sarei andato con loro
per tutta una serie di motivi.
Il primo della lista era la scuola, che secondo loro non potevo
perdere, poi venivano i miei amici, che secondo me non potevo
perdere, e infine il motivo più segreto e più importante: una mia
amica di seconda media che abita vicino a zia Beonia e Zio Veron.
Ho detto amica! Toglietevi dalla faccia quell'espressione idiota
che fa pensare a tutt'altro. Questo non è un romanzo rosa,
purtroppo.
Non potendo abbandonare l'infante (che sarei io), mamma si era
quasi rassegnata all'idea che il babbo sarebbe volato tra i pinguini
da solo.
Questo vi dà un'idea di quanto li abbia sorpresi il giorno in cui,
cercando di trattenere le lacrime e dandomi un contegno da vero
uomo, pronunciai queste precise parole: «Andrete voi due; io sono
grande, me la so cavare benissimo da solo.»
Furono attimi in cui le mie azioni di figlio responsabile
schizzarono alle stelle.
Quel giorno scesero dal cielo complimenti come fiocchi di neve in
Alaska: "Ma che ragazzo spleeeeendido (si noti che pochi istanti
prima il ragazzo era solo un infante), non ti facevamo così
coraggiooooooso!" e altre robe del genere che solo a citarle mi
cresce il livello di colesterolo nel sangue.
Successivamente sono arrivati anche i sensi di colpa di mia
madre: "Come faccio a lasciare mio figlio sei mesi da sooooolo?
Sono proprio una madre degeeeeeenere! Lo psicologo ci costerà un
patrimoooonio!" Poi a ruota le raccomandazioni, che non meritano
nemmeno di essere menzionate, e infine la notizia: "Se vuoi ti potrai
trasferire da zia Beonia".
«Sì. Fantastico!!!» già mi figuravo un'estate vicino a Germana.
Proprio quello che speravo.
Beonia è mia zia perché ha sposato Veron, il fratello di mia
madre, e mi ha sempre voluto bene come se fossi suo figlio. In certi
momenti la mamma è stata persino un po' gelosa dell'intesa che
c'era tra me e la zia.
Quindi stare da lei per qualche mese non era poi un sacrificio
così grande. Certo avrei sofferto un po' di nostalgia dei miei genitori,
ma in compenso sarei stato un sacco di tempo con mio cugino
Replay e avrei avuto l'occasione di vedere spesso Germana.
Le cose, però, non andarono come avevo previsto.
Tanto per cominciare la persona che mi trovò addormentato sullo
zerbino di casa sua era sì la zia Beonia, ma lo strano atteggiamento
che aveva nei miei confronti e soprattutto i suoi discorsi non erano
certo da lei. Fu una sensazione terribile. Il corpo, il viso, i movimenti
e persino i vestiti facevano di quella persona che avevo di fronte un
perfetto clone di zia Beonia, ma gli occhi erano come persi nel vuoto
e le sue parole erano completamente assurde. Un essere quasi
impersonale disegnato sui contorni di mia zia ma riempito di frasi
che non erano proprio le sue.
«Oh, benedetto figliolo… sia ringraziato il cielo: sei salvo.»
«Salvo?» sbadigliai.
«Lo zio Veron ha sentito in TV dell'incidente.»
«Incidente?» dissi io, rendendomi conto che stavo ripetendo
come un pappagallo che ha appena imparato le frasi interrogative.
«Certo. Hai ragione. Ma quale incidente? Bisognerebbe piuttosto
chiamarlo attentato» disse la zia, calcando la mano e anche i piedi
sulla parola attentato. «I Babbioni della TV sono convinti che si sia
trattato di un fulmine, ma noi sappiamo di chi è la colpa. Vero,
ragazzo?» Mi diede un ammiccante colpo di gomito.
«Certo che lo sappiamo.»
«È di un tale-che-a-scanso-di-equivoci-è-sempre-meglio-nonnominare.»
«Già» aggiunsi io «meglio non parlare del Ministero
dell'Ambiente.»
La zia a questo punto fu contagiata dalla mia stessa malattia del
pappagallo interrogativo.
«Ministero dell'Ambiente?»
«Sì. Quel lavoro per la Quattro salti in Patagonia. È tutta colpa di
quell'incarico in Argentina.»
«Argentina?»
Zia Beonia perse per un attimo le parole, ma le ritrovò in fretta:
«Povero Harry, dev'essere stato proprio un brutto spavento. Stai
sproloquiando.»
«Nessuno spavento, zia. Quando mamma e papà mi hanno
portato da voi, tu non eri in casa. Loro erano in ritardo per il volo,
così ho detto che andassero pure. Io ti avrei aspettata qui.»
«Nipotino mio, sei così confuso.»
«Si vede che è di famiglia» dissi. La zia aveva sempre
apprezzato il mio senso dell'umorismo, ma stavolta non rise.
«Chissà da quanto tempo stai aspettando!» «Non lo so:
dormivo.»
«Stella d'oro, qui da solo tutta la notte al freddo e al gelo.»
«Siamo a luglio, zia. Non c'è né freddo né gelo. Ti aspetto dalle
quattro del pomeriggio. Non è buio, sono nel giardino del mio
cuginetto preferito e non vedo lupi famelici all'orizzonte. Va bene?»
«Lupi? Oh, poveri noi. Che cosa orribile!» disse zia Beonia tra sé.
«Il ragazzo ha preso una tale strizza da confondere colui-che-ascanso-di-equivoci-è-sempre-meglio-non-nominare con un branco di
lupi.» Poi aggiunse rivolta a me: «Vieni dentro che ti preparo una
cioccolata calda con dei biscotti fatti in casa.»
«Che gioia! I famosi duroni di zia Bea.»
Entrammo in casa e ci accomodammo in cucina. Pensai che l'ora
fosse più prossima alla cena che alla colazione, ma una cioccolata
calda non si rifiuta mai. Evitai di mettermi a discutere di orari con la
zia.
Misi in ammollo i biscotti per una decina di minuti prima di riuscire
a masticarli.
«Dov'è il mio adorato cugino?»
«Replay? Quel lavativo? Non lo so» mi rispose zia Bea.
«Ma come, non sai dov'è tuo figlio?»
«Sarà di nuovo al Campetto a prendere a calci uno stupido
pallone come un povero idiota.»
«Lo facevo anch'io alla sua età» lo scusai io, come se avere sei
mesi più di lui potesse giustificare un comportamento da vecchio
saggio.
La zia, anche stavolta, non capì l'ironia.
«Non vuol dire un fico secco. Fin da piccolo si è capito che tu
saresti stato qualcuno, mentre tuo cugino è solo un piccolo
imbranato. Tutto suo padre!»
Vi confesso che questa è una cosa che non ho mai capito (per lo
meno fino all'estate di cui vi sto parlando): per quale motivo i genitori
di Replay lo trattino così male. Mio cugino è un bambino di dieci
anni, un po' timido ma molto vispo e intelligente. Persino troppo
intelligente per la sua età se si considera che suo padre sta tutto il
santo giorno davanti alla TV e gli risponde a monosillabi.
Non potendo rivolgersi né a quel videota di suo padre, né a una
madre che lo tratta male, Replay (per gli amici Re Re) si è abituato
fin da piccolo a starsene in disparte, a giocare da solo e spesso a
parlare con gli animali.
Io e lui andiamo molto d'accordo e abbiamo deciso di
infischiarcene di questo stato di cose.
Quel soprannome, Re Re, gliel'ho dato io. A lui piace molto, più
del suo nome di battesimo: Replay. Che razza di nome. Tutti dicono
che gli si addice perché va al rallentatore. Malignità.
Un'altra cosa misteriosa è il cognome: Kingsley. Mio cugino si
chiama così, Replay Kingsley. Perché mai, mi sono sempre chiesto,
porta il cognome di sua madre?
Verso le otto io e zia Bea ci mettemmo a tavola.
«Uova e pancetta, tesoro, sei contento? Tua madre dice che ne
vai matto.»
«Grazie, zia, sei molto gentile, ma vorrei aspettare Re Re.»
«Uh, quello. Se non è ancora tornato, vuole dire che si ferma a
cena da quell'oca che abita qui a fianco. Come si chiama…?»
"Germana" pensai tra me "e non è affatto un'oca." In quel
momento invidiai mio cugino.
Mio zio Veron, come suo solito, non si degnò di mettersi a tavola.
La cena gli fu servita direttamente in poltrona. Le pause pubblicitarie
tra i tre telegiornali e il telefilm della sera erano troppo brevi per
consentirgli una sosta in cucina.
"Birraaaaaa" era l'unica cosa che ogni tanto lo si sentiva urlare.
Mia zia fece tre volte la spola con i rifornimenti e quando vide che
anch'io avevo terminato la mia cena mi cacciò praticamente a letto.
«Ti ho riservato la camera più bella, ragazzo mio.
Hai a disposizione la televisione, il computer di Tontley e tutti i
suoi libri.»
«Non c'è bisogno che Re Re mi ceda la sua camera. Starò
benissimo nella stanza degli ospiti. E poi smettila di chiamarlo con
quel nomignolo! È orribile.»
«Niente affatto. Insisto. Hai avuto una giornata difficile.» Il tono
era irremovibile. «Fila di sopra. Tuo cugino starà benissimo nel
sottoscala.»
«Nel sottoscala?» replicai inorridito. «E la camera degli ospiti?»
«Quella è per l'appunto una camera degli ospiti. Lui non è un
ospite.»
«È tuo figlio» provai a controbattere timidamente.
«Con ciò? Quell'imbranato è talmente mingherlino che starà
comodissimo nel sottoscala. A lui piacciono i posti angusti.»
"Perché non lo cacci in un tombino" pensai. Ma questo non lo
dissi per conservare un minimo di buone maniere con la zia.
Durante questa assurda discussione il povero Re Re era
rincasato. Nessuno l'aveva notato. Così abituato a passare
inosservato, andava e veniva da casa sua come un fantasma. Un
gatto del colore della tappezzeria non avrebbe potuto essere più
invisibile di lui.
Salendo di sopra mi fermai a metà scala e gli bisbigliai: «A
domani, Re. Passa una buonanotte. Mi dispiace per la tua camera.»
«Notte» mi rispose il piccolo senza un filo di rancore. Non potei
vederlo ma sicuramente aveva alzato le spalle come fa sempre in
questi casi. Un gesto di rassegnazione.
Quando fui di sopra pensai di accendere la TV, ma poi preferii
mettermi a leggere. In questo modo sentivo le risate di zio Veron che
rischiava di strangolarsi con la torta di mele davanti alla sua sitcom
preferita.
Dopo qualche minuto zia Beonia lo costrinse ad abbassare il
volume: «Non vorrai disturbare quel povero ragazzo» disse. «Dopo
quello che ha passato è un miracolo se riesce a prendere sonno.»
Veron emise un grugnito ma ubbidì.
«Sei sicuro di quello che hai sentito, Ver?»
«Hummm.»
«Un fulmine violentissimo hanno detto?» «Hummm.»
«E la polizia crede che siano tutti morti, compreso il ragazzo?»
«Hummm.» Fu l'ennesima conferma dello zio.
«Invece noi sappiamo che il ragazzo è sopravvissuto e che non
si è certo trattato di un fulmine.»
«Infatti.»
Questo si sa, dopo il terzo grugnito, lo zio a volte comincia anche
a rispondere con parole di senso compiuto: «Domani chiamo la
polizia. Gli dirò che il ragazzo è ancora vivo.»
«Sei pazzo?» si infervorò la zia. «Nessuno deve sapere che è
vivo. Soprattutto colui-che-a-scanso-di-equi-voci-è-sempre-meglionon-nominare.»
«Hummm. Forse hai ragione.»
«Ho stra-ragione, arci-ragione, super-ragione. Il ragazzo è
ancora in pericolo. Vendimilort tornerà per ammazzarlo.»
Un brivido mi corse lungo la schiena. Chiunque volesse farmi
fuori, non nutriva la mia simpatia.
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