Happy Birthday, Nebraska – Andrea Scanzi

SINTESI DEL LIBRO:
Giallu diceva sempre che
Nebraska era
indiscutibilmente l’album
più bello di Bruce
Springsteen.
Sesto album della
discografia, data di uscita
settembre 1982. Trent’anni
fa.
Happy birthday, Nebraska.
Giallu sottolineava la
parola “indiscutibilmente”,
donando all’asserzione
un’aura definitiva che gli
conferiva ulteriore allure
sintattico. E sottolineava
anche la parola “album”,
perché Nebraska si poteva
ascoltare soltanto in vinile. Il
giradischi, con Nebraska, di
colpo non era vintage.
Perdeva ogni anacronismo,
tramite unico e naturale tra
quell’opera e noi.
Di solito Giallu ci parlava
di Nebraska sorseggiando
whisky. Whisky costoso,
molto.
Ci invitava nella sua casa
poco fuori il centro storico.
Cucinava qualcosa di
puntualmente eccessivo. E
poi parlava al suo pubblico.
Amava bere, con
soddisfazione evidente, degli
Heavy Peat. Torbati estremi
e insondabili, di cui non
mancava di rivelare il
prezzo. “Li vale tutti.”
Non tutti erano ammessi
alle sue cene. Non siamo
mai stati più di cinque o sei.
La selezione naturale lo
vedeva unico buttafuori di se
stesso.
O gli piacevi, o no.
Spesso era no.
Dischi che cadono
addosso
A Giallu piaceva
raccontare storie. Non per
narcisismo, ma per uno
strano bisogno epidermico.
Per un’esigenza del vivere e
del condividere.
Le infarciva di parentesi.
Ci si perdeva dentro, senza
averlo previsto. Non era un
buon narratore, non
tecnicamente intendo, ma
sopperiva alle falle
divulgative con un perenne
afflato emotivo. Era come
quei numeri 10 a cui manca
il genio scintillante, ma che
credono così fermamente
nell’arabesco da saper
tramutare l’idea astratta in
creazione fattuale.
Ogni sera in cui venivamo
convocati, senza che ci fosse
bisogno di una data da
festeggiare, metteva un
disco sul piatto.
Raccontarcelo era il suo
abracadabra finale. Un patto
tacito tra i presenti gli aveva
concesso il diritto, e
piuttosto il dovere, di
officiare quella liturgia
sonora.
Non era molto più grande
di noi, non aveva né più
esperienza né più
conoscenza. Semplicemente,
quello era il suo ruolo.
I dischi gli cadevano
addosso e lui, più che
restituirceli, ce li trasudava.
Noodles e Fat Moe
Quegli album li
conoscevamo anche noi.
Praticamente a memoria.
Ogni suo racconto
diveniva presto una replica,
che non mancavamo però di
omaggiare con un sincero
stupore di rimando. L’ultima
volta era sempre la prima.
Come quando ci si imbatte,
in tivù, nella scena di
Noodles che dice “Sono
andato a letto presto” a Fat
Moe. Una frase troppo
studiata, cesellata e scolpita
per essere vera.
Una frase cinematografica.
Una frase che non esiste.
Ma ti fermi. Alla tivù, ti
fermi. E aspetti che Robert
De Niro la pronunci. Per
commuoverti un’altra volta.
E poi pensare, di nuovo, che
da quel giorno anche tu
andrai a letto presto. Perché,
se lo fa Noodles, allora è una
cosa figa. Esistenziale.
Romantica.
Le mani sulla spada di
Longino
Non posso dire che quello
di Nebraska fosse il suo
racconto migliore. Non lo
era. Quando parlava dei
Clash, o dei Led Zeppelin,
esibiva una tecnica migliore.
Non certo perfetta,
beninteso, in quanto sempre
tracimante e logorroica, ma
sapeva gestire meglio le
sottostorie.
Dei Clash e di Robert Plant
conosceva tutto. La quantità
di dettagli, altissima, lo
costringeva a divagare un
po’ meno, a rimanere
ancorato alla trama
principale. La narrazione,
sul piano oggettivo, ne
beneficiava.
Quando parlava dei Clash,
Giallu era come Gadda
costretto a piegarsi al
minimalismo di Carver.
Rendeva forse di più, ma
sembrava contro natura.
Le sue conoscenze di
Nebraska erano più
generiche. A volte attingeva
alla leggenda metropolitana,
al sentito dire, all’aneddoto
costruito ad arte.
Però funzionava.
Con mosse studiatissime,
toglieva il vinile dallo
scaffale. Si approcciava al
disco come a una reliquia.
Era il nostro Papa Innocenzo
VIII che tiene tra le mani la
spada di Longino. Con la
differenza che Giallu non si
è mai macchiato di simonia.
E che Nebraska ferisce
molto più della lancia sacra.
Quando ci mostrava la
copertina, sottolineava la
parola “scarna”. Parlava di
quel parabrezza sgranato,
della route che gli si
srotolava davanti. Del bianco
e nero, della landa desolata.
E del titolo maiuscolo.
Rosso, su sfondo nero.
Usava anche la parola
“marziale”, poggiando sulla
“r”. In vita sua, Giallu ha
pronunciato la parola
“marziale” solo nelle
prolusioni di Nebraska.
L’unica recensione
possibile
Prima di poggiare il vinile
sul giradischi, lasciando che
la puntina lo violentasse con
dolcezza rituale, accennava
alla sua genesi.
La parola più spesa, a quel
punto, era “cerniera”.
Preferita non senza motivo a
“parentesi”. Cerniera
significava qualcosa che
unisce, che dà l’idea di
continuità, che risponde a
un disegno generale e certo
superiore. Parentesi avrebbe
dato la sensazione meno
centrata di un diversivo: un
qualcosa messo lì per
scompigliare, che colpisce e
sconcerta, ma poi finisce lì.
La cerniera, cioè
Nebraska, cadeva tra The
River e Born In The Usa. The
River, 1980, era il doppio
torrenziale, smargiasso. Un
saggio di rock’n’roll. Born In
The Usa sarebbe stato il
successo mondiale.
L’apparente grandeur. Il
fraintendimento di cui
liberarsi a fatica.
Nebraska, cioè la cerniera,
era un rifiatare tra il tutto e
il tutto. Un niente inseguito.
Dal nulla al nulla. Acustico,
scabro. Dolente. Un pugno
in faccia all’edonismo.
“Un calcio nei coglioni del
sogno americano.”
Giallu non mancava di
ripeterlo, con piacere
ostentato.
Bruce – e qui non si è mai
capito se fosse leggenda o
realtà – si chiuse nella casa
in New Jersey. Registrò
alcune canzoni in solitudine,
con un multitraccia portatile
a quattro piste.
Con lui c’erano una
chitarra.
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