Gli ottimisti muoiono prima – Susin Nielsen

SINTESI DEL LIBRO:
L
1
a prima volta che ho visto l’Uomo Bionico ero ricoperta di
brillantini.
Era un classico venerdì pomeriggio al consueto Meeting
Ricreativo Di Arteterapia. MERDA, per gli amici. Avevo cercato di
dare una mano a Ivan il Terribile con l’ennesimo lavoretto del cavolo.
Come al solito, però, lui non ne voleva sapere di stare concentrato.
Gli era parso molto più divertente rovesciarmi un intero tubetto di
brillantini in testa, sul cappello a forma di gatto e su tutto il corpo.
Alonzo si era limitato a un commento condiscendente. Koula era
scoppiata a ridere. Un’altra bellissima giornata di sole, qui in
paradiso!
Eravamo nello spazio comune sul quale affacciano gli uffici degli
psicologi della scuola. Era sempre così lì: o c’era un freddo da
Antartide oppure un caldo da Arabia Saudita. Anche se erano i primi
di gennaio, mi ero spogliata fino a restare soltanto in canottiera, che
avevo decorato in stile batik con la tintura a nodo. Ivan si era messo
a darmi dei colpetti sul braccio nudo con quelle stesse dita che poco
prima si era infilato nel naso. Io stavo frugando nella mia borsa di
tela per prendere il flaconcino di disinfettante per le mani, quando la
porta dell’ufficio della psicologa si è aperta.
Ivan ha alzato lo sguardo. «Petula, guarda», mi ha detto. «Un
gigante!»
L’Uomo Bionico non era un gigante. Ma superava di certo il metro
e ottanta. Tutto in lui era extra large. Teneva sotto braccio un
giaccone imbottito di un arancione sfavillante, un tantino eccessivo
per l’inverno di Vancouver. Dimostrava più o meno la mia età, aveva
un cespuglio di capelli castani e ricci in testa e due enormi occhi
marroni arrossati dal pianto.
L’Uomo Bionico era appena uscito dall’ufficio di Carol Polachuk.
Quante volte c’ero stata anch’io, in quel posto senz’anima, costretta
a parlare con quella tizia dagli occhi allampanati, l’atteggiamento
paternalistico e quelle magliette con la scritta SU CON LA VITA! Se c’era
una cosa che a Carol riusciva benissimo, era farti sentire ancora
peggio di quando eri entrato. Per questo non mi è parso affatto
strano che l’Uomo Bionico avesse lo sguardo confuso. E furioso. E
terribilmente, profondamente triste.
Conoscevo bene quel genere di espressioni. L’Uomo Bionico non
era andato là dentro a parlare dei progetti per il futuro. Non si va da
Carol Polachuk per questioni così triviali.
Lui era uno di noi.
Per un breve istante, i nostri occhi si sono incrociati.
Poi lui si è precipitato verso la porta.
Ed è uscito completamente dai miei pensieri, mentre io
cominciavo a spalmarmi ovunque il disinfettante per le mani.
Fine.
E invece… quella non fu affatto la fine.
I
2
l lunedì pomeriggio l’ho rivisto di nuovo.
Ero in piedi di fronte a tutta la classe durante l’ora di storia, in
completo da presentazione: camicetta bianca, gilet viola fatto
all’uncinetto, la mia gonna lunga preferita e gli stivali di gomma,
sempre viola, che nascondevano i calzini a righe portafortuna. Ero
arrivata più o meno a metà del discorso. Questa la consegna:
discutere di un evento storico che avesse delle ripercussioni anche
sul presente.
Io avevo scelto l’11 settembre 2001. Nine-eleven, il giorno in cui
due aeroplani, dirottati da un gruppo di terroristi, si sono schiantati
contro la torre nord e la torre sud del World Trade Center di New
York. Avrei parlato delle conseguenze politiche e dei tanti modi in cui
da quel giorno è cambiato il nostro concetto di sicurezza personale.
Ma non ci sono mai arrivata.
Molte delle persone che si trovavano nei piani inferiori rispetto al
punto di impatto sono riuscite a scappare per le scale prima che le
torri crollassero. Ma quelle che si trovavano più sopra hanno avuto
tutto il tempo di rendersi conto che erano spacciate, che nessuno
sarebbe venuto a salvarle, perché, be’, come avrebbero potuto?
Quelle torri sono praticamente esplose nella stratosfera.
Ho pensato molto a quelle persone. Al fatto che, per loro, quel
giorno dev’essere iniziato in modo normale, come tutti gli altri. Al
fatto che si trattava di persone comuni, ordinarie, proprio come me,
mia madre e mio padre, come tutti. Mi sono immaginata un tizio
domandarsi se fosse troppo presto per il pranzo, perché pur
essendo appena le nove aveva già fame. E poi una donna che non
riusciva a smettere di pensare al figlio, perché quando l’aveva
lasciato all’asilo, quella mattina, lui si era messo a piangere.
Pensavano di avere davanti una giornata come tutte le altre.
Questa parte della mia presentazione sarebbe dovuta essere
molto breve, avrei dovuto raccontare i fatti per poi procedere ad
analizzarne gli effetti a catena.
Ma non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di tutte quelle
vittime innocenti. O di tutte le persone che hanno lasciato: bambini,
coniugi, genitori e amici che non hanno visto i loro cari tornare a
casa dal lavoro, né quel giorno né mai. Da quel momento in poi, le
loro vite non sono state più le stesse.
Il cuore ha preso a battermi forte. Il respiro mi si è fatto corto e ho
iniziato ad ansimare. Ho aperto la bocca, ma non ne è uscita parola.
I miei compagni di classe sembravano preoccupati.
Ed è stato lì che l’ho notato, seduto nel banco d’angolo in fondo
alla classe.
L’ultimo pensiero che ho avuto è stato: Oddio, porto dei
mutandoni da vecchia, fa’ che non mi si alzi la gonna…
Poi tutti i miei centottanta centimetri di stazza sono crollati a
terra.
Un’ora dopo ero di fronte al preside Watley, accomodata nella mia
sedia preferita, quella con il tessuto ruvido e multicolore. L’avevo
usata così tante volte, in quegli ultimi due anni, che la seduta si era
perfettamente adattata alla forma del mio sedere.
Era la mia preferita perché la più lontana dalla libreria, che non
era in alcun modo assicurata alla parete. Credetemi, avevo
controllato. Quindi, se io fossi stata seduta lì vicino e ci fosse stato
un terremoto – e a Vancouver dicono non sia tanto una questione di
se, bensì di quando – avrei riportato diverse ferite dovute al crollo di
tutti quei libroni. (Evitavo di pensare al fatto che, nel caso di un
terremoto di intensità superiore al quinto grado della scala Richter,
tutto l’edificio sarebbe collassato al suolo come una pila di mattoncini
Jenga. Se ci avessi pensato, avrei dovuto lasciare la scuola e
Vancouver e andare a vivere da sola in una grotta chissà dove, cosa
che avrebbe distrutto i miei genitori. Senza contare che sarei
diventata un bersaglio facile per tutti gli psicopatici che si fossero
trovati a passare da quelle parti. E/o avrei potuto contrarre una
malattia respiratoria per via dell’umidità e sarei morta di una morte
lenta e dolorosa. Quantomeno, in caso di terremoto è più probabile
che si muoia sul colpo.)
Libreria a parte, mi piaceva stare nell’ufficio del preside. Era un
luogo stranamente caldo e accogliente, illuminato da lampade a
stelo al posto dei soliti neon fluorescenti appesi al soffitto. E il
preside Watley teneva ancora sulla scrivania la palla di vetro con la
neve che avevo fatto per lui in prima superiore riutilizzando un
barattolo di vetro. L’ho presa in mano, agitata per bene, e una
cascata di neve si è riversata su un edificio di mattoncini Lego con
su scritto PRINCESS MARGARET SECONDARY SCHOOL.
Il preside Watley, intanto, mi osservava con quei suoi occhioni
grandi e acquosi. Sembrava un San Bernardo smarrito. «Ti senti
meglio, Petula?»
«Molto meglio. In infermeria mi hanno dato una bella controllata.
E poi hanno detto che potevo andare.»
«Avevi fatto molti progressi. Pensavo ci fossimo ormai lasciati
alle spalle episodi del genere.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo