Fine – Karl Ove Knausgård

SINTESI DEL LIBRO:
A metà settembre del 2009 mi recai nella piccola casa di
villeggiatura che Thomas e Marie possedevano tra Höganes e Mölle,
lui mi avrebbe scattato alcune foto da utilizzare nei romanzi
successivi. Avevo noleggiato un’automobile, un’Audi nera, e mentre
quella mattina percorrevo l’autostrada a quattro corsie, avvertivo in
petto un’intensa sensazione di felicità. Il cielo era perfettamente
terso, il sole ardeva come in estate. Sulla sinistra si vedeva luccicare
lo stretto di Öresund, sulla destra si susseguivano verso l’interno
campi di stoppie gialle e prati, suddivisi da recinzioni, rivoli d’acqua
lungo cui crescevano filari di latifoglie, il limitare improvviso di
qualche bosco. Avevo l’impressione che in realtà quella giornata non
sarebbe dovuta esistere, era una specie di oasi estiva presente nel
cuore di un paesaggio che ormai stava impallidendo per via
dell’autunno e proprio questo, che non sarebbe dovuto essere così,
che il sole non avrebbe dovuto essere tanto cocente né il cielo così
saturo di luce, risvegliò, notai, una forma d’inquietudine in tutta
quella gioia, però mi sforzai di abbandonare quel pensiero nella
speranza che passasse da sé e mi misi invece a cantare il ritornello
di Cat People, che proprio in quel momento risuonava dallo stereo
mentre mi godevo la vista della città che faceva capolino sulla
sinistra, le gru del porto, le ciminiere delle fabbriche, i magazzini.
Stavo superando la periferia di Landskrona, così come qualche
minuto prima avevo fatto con Barsebäck, dove in lontananza si
stagliava la sagoma caratteristica e al tempo stesso spaventosa
della centrale nucleare. La città successiva era Helsingborg: la
località verso cui ero diretto si trovava a una ventina di chilometri da
lì.
Ero in ritardo. Ero rimasto a lungo nel parcheggio dentro quella
macchina grande e fredda senza sapere come metterla in moto, non
potevo chiedere a quelli dell’autonoleggio per paura che me
l’avrebbero requisita se avessi rivelato una tale ignoranza, così mi
ero letto il manuale, lo avevo sfogliato più volte avanti e indietro, non
c’era scritto nulla su come avviare il motore. Avevo studiato il
cruscotto, poi la chiave, che non era una chiave, ma un dischetto di
plastica nero. Visto che prima avevo aperto l’auto premendolo, mi
ero messo a rimuginare se si sarebbe messa in moto seguendo un
sistema analogo. Sul fusto del volante non c’era nessun
meccanismo di accensione. Ma quella, invece? Pareva una cavità,
no?
Ci avevo infilato il dischetto e l’auto si era accesa. La mezz’ora
successiva l’avevo passata vagando per il centro di Malmö alla
ricerca della strada giusta per uscire dalla città. Quando finalmente
avevo imboccato l’autostrada, avevo già accumulato quasi un’ora di
ritardo.
Nell’istante in cui Landskrona scomparve dietro la collina, cercai a
tentoni il cellulare che avevo appoggiato sul sedile accanto a me e,
quando lo trovai, composi il numero di Geir. Era lui che mi aveva
presentato Thomas, si erano conosciuti in una palestra di pugilato,
dove Thomas stava lavorando a un libro fotografico dedicato alla
boxe mentre Geir stava scrivendo una tesi sullo stesso tema. Erano
due persone assolutamente antitetiche, per usare un eufemismo, ma
nutrivano un grande rispetto reciproco.
“Ciao, piccoletto,” esordì Geir.
“Ciao,” risposi. “Potresti farmi un favore?”
“Certo.”
“Telefonare a Thomas e dirgli che sono in ritardo di un’ora?”
“Certo. Sei già in auto?”
“Sì.”
“Bene.”
“È fantastico, ci voleva un cambiamento. Ma adesso devo
superare un camion.”
“E allora?”
“Non riesco se sto parlando al telefono.”
“Qualcuno dovrebbe studiare la tua capacità di compiere più azioni
in contemporanea. Comunque, va bene. A presto.”
Chiusa la conversazione, cambiai la marcia e superai un camion
lungo e bianco che beccheggiava appena sotto la pressione
dell’aria. Quella stessa estate ero andato con tutta la famiglia sulle
isole di Koster e lungo il tragitto avevamo evitato per un soffio due
incidenti, il primo dovuto a un improvviso aquaplaning mentre
guidavo a velocità sostenuta, sarebbe potuta andare a finire molto
male, l’altro invece non era stato così grave, ma si era trattato
comunque di un’esperienza scioccante: dovevo cambiare corsia
mentre ero in coda alla periferia di Göteborg, ma non avevo visto la
macchina che stava sopraggiungendo ed ero riuscito a evitare
l’impatto soltanto perché il conducente della vettura era stato veloce
a inchiodare. Il suono stizzito del clacson che ne seguì mi aveva
trafitto l’anima come la lama di un coltello. Dopo quell’episodio avevo
perso la sensazione positiva che provavo ogni volta alla guida,
adesso avvertivo sempre un certo timore, sicuramente sano, ma il
solo superare un camion mi spiazzava, dovevo costringermi a farlo,
e dopo quel viaggio avevo sofferto d’ansia per alcuni giorni, come se
fossi stato ubriaco. Che io avessi la patente e quindi il permesso
formale di guidare erano dettagli che non interessavano alla mia
anima, ancora aggrappata al periodo in cui uno dei miei incubi più
mostruosi e ricorrenti era quello di essere al volante di un’auto senza
essere capace di condurla. In preda al terrore percorrevo le tortuose
strade norvegesi e, con la minaccia che la polizia potesse
sopraggiungere da un momento all’altro, dormivo steso chissà dove
su qualche letto con il cuscino e la parte superiore del piumone
zuppi di sudore.
Lasciata l’autostrada, imboccai la statale che portava a Höganes.
All’esterno il caldo era visibile, lo si intuiva dalla corposità della luce,
dal cielo, quasi velato, e dal luccicare morbido che la luminosità del
sole spargeva su ogni cosa. Il mondo era aperto, era quella la
sensazione, e vibrava.
Dieci minuti dopo girai nello spiazzo antistante un supermercato,
mi fermai e scesi. Oh, la frenesia di cui era imbevuta l’aria. Aveva in
sé il blu del mare, ma non era calda come in piena estate, in essa
era presente un che di freddo e pacato. Mentre attraversavo l’asfalto
diretto verso il supermercato le cui bandiere pendevano mollemente
all’esterno, la sensazione che l’aria mi diede mi ricordò quella che
avevo provato le volte in cui durante un’assolata giornata d’estate
avevo accarezzato una superficie di marmo in qualche città italiana,
la freddezza sottile quanto sorprendente insita in quella pietra.
Comprai un cestino di lamponi da portare come regalo, per me un
pacchetto di sigarette e uno di gomme da masticare, appoggiai il
cestino sul sedile accanto e percorsi l’ultimo tratto. A soli cento metri
dal supermercato la strada proseguiva verso il mare, era stretta e
orlata dalle siepi che circondavano tutte quelle casette estive
verniciate di bianco. Thomas e Marie abitavano in fondo alla via, con
il mare proprio davanti a loro a ovest e un grande terreno verde a
est.
Quando mi sbattei la portiera alle spalle, Thomas arrivò
camminando a piedi nudi sul prato. Mi abbracciò, era una delle
poche persone capaci di compiere quel gesto senza che venisse
inteso come il tentativo di voler diventare troppo intimi. Non avrei
saputo spiegarne il motivo. Forse era semplicemente perché aveva
quindici anni più di me e, anche se non ci conoscevamo così bene,
nei miei confronti si era sempre comportato in maniera affabile.
“Ciao, Karl Ove,” disse.
“Da quanto tempo,” risposi. “Che splendida giornata!”
Attraversammo il prato. L’aria era perfettamente immobile, gli
alberi erano perfettamente immobili, il sole che pendeva sul mare
distribuiva i suoi dardi bollenti sul paesaggio. Eppure, la percezione
di frescura era costante. Era da molto tempo che non provavo una
tale pace.
“Ti va un caffè?” mi chiese Thomas quando ci fermammo sul retro
dell’abitazione dove l’anno prima aveva costruito, simile al ponte di
una nave, una pedana di legno che andava dalla parete esterna
della casa fino alla siepe fitta e completamente impenetrabile, la cui
ombra si allungava inerte per un paio di metri verso l’interno della
casa.
“Volentieri,” dissi.
“Intanto accomodati pure.”
Mi sedetti e, dopo essermi infilato di nuovo gli occhiali da sole,
piegai la testa all’indietro per riuscire a carpire tutto il sole possibile e
mi accesi una sigaretta, mentre Thomas era nel cucinino intento a
riempire una boccia di vetro con l’acqua del rubinetto.
Apparve Marie. Aveva gli occhiali da sole alzati sulla fronte mentre
strizzava gli occhi verso il sole. Le dissi che quella mattina avevo
letto di lei su “Dagens Nyheter”, era un articolo che riassumeva un
dibattito sull’arte a cui aveva preso parte. Per quanto mi sforzassi,
non ricordavo più che cosa avessero scritto sulla sua persona, ma
fortunatamente non me lo chiese, si limitò a dire che avrebbe
controllato in biblioteca dove era diretta proprio in quel momento.
“È uscito il tuo libro?” mi chiese.
“No. Esce sabato.”
“Eccitante!”
“Sì.”
“Ci vediamo dopo. Pranzi con noi?”
“Volentieri!” risposi sorridendo. “A proposito, ti ho portato il
manoscritto di Linda. Te lo do dopo.”
Marie aveva lavorato come supervisore alla scuola di scrittura di
Biskops-Arnö e aveva accettato di leggere le novelle che Linda
aveva appena finito di scrivere.
“Bene,” disse prima di rientrare in casa. Subito dopo si sentì il
rumore di un’auto che veniva messa in moto sull’altro lato della
villetta. Thomas si ripresentò con due tazze di caffè e un vassoio di
muffin. Si sedette, conversammo un po’, poi andò a prendere la
macchina fotografica e scattò alcune foto mentre riprendevamo a
parlare di tutt’altro genere di cose. L’ultima volta che ero stato lì,
stava leggendo Proust, cosa che continuava a fare, mi rivelò, e
proprio prima del mio arrivo stava leggendo della morte della nonna.
Era uno dei passaggi più belli, commentai. Sì, disse e si alzò per
fare altre foto da un’angolatura diversa. Pensai a quel poco che
ricordavo della morte della nonna. Come l’avesse sopraffatta di
punto in bianco. L’attimo prima lei era salita sulla carrozza che
l’avrebbe portata per il Giardino del Lussemburgo, e l’istante
successivo veniva colpita da un ictus che l’avrebbe stroncata
qualche ora dopo. O erano alcuni giorni dopo? La casa piena di
medici, quella preoccupazione onnivora che durante le prime fasi di
dolore aveva impregnato l’atmosfera, quando l’apatia viene
continuamente spezzata dall’inquietudine data dalla speranza. Poi,
all’improvviso, il trauma sotteso a ogni cosa.
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