Eternal Night – Debora C. Tepes

SINTESI DEL LIBRO:
Sputo il sangue sul pavimento sudicio. Sono legato a una sedia,
delle fascette di plastica dura mi segano i polsi.
La stanza è illuminata solo da una lampada al neon dalla luce
intermittente e talmente bianca da accecare.
Osservo con un ghigno divertito, attraverso le ciocche di capelli
che mi ricadono sulla fronte, la faccia di merda di Stanković.
Il suo viso pallido e arrogante non mi spaventa per un cazzo.
I suoi scagnozzi mi hanno pestato ferocemente, riducendomi un
fottuto rottame.
Uno zigomo spaccato, un occhio nero, qualche costola fratturata,
la camicia sporca e strappata.
Ma lo ammetto, questa volta ho toccato il fondo.
Sono stati fin troppo clementi con me finora, ma so di averla fatta
grossa, cazzo!
Ho scatenato un casino nel nightclub del serbo, ho importunato le
sue puttane, ho spacciato la mia droga, ho acceso la miccia per far
scoppiare una dannata rissa.
Volevo solo sballarmi, ma non ho saputo frenare i miei istinti.
Volevo soprattutto dimostrargli che lui non mi incute timore, che
posso fare ciò che cazzo voglio nel suo dannatissimo nightclub.
Il serbo non ha potuto ignorare le mie provocazioni, infatti ha
piazzato il mio culo su una sedia nel suo ufficio dalle pareti grigie e
spente, di certo non per offrirmi da bere.
Questa volta vuole uccidermi.
O almeno così crede.
«Arabo di merda! Quante volte ti ho detto che non voglio vedere la
tua sudicia faccia nella mia zona? Vuoi che scoppi una guerra, lurido
bastardo? Per me va bene. Mi prenderò tutti i vostri territori» sbraita.
Ridacchio divertito, sputando altro sangue.
«Ayreh Feek» mormoro.
«Cosa cazzo hai detto? Ripetilo in tedesco, se hai il coraggio»
incalza, avvicinandosi.
«Ho detto vaffanculo, serbo del cazzo. Gli Hassan sono invincibili»
biascico con la voce roca.
Scoppia in una risata sguaiata che precede un altro cazzotto in
pieno viso.
Le nocche delle sue mani colpiscono l’altro zigomo con un tonfo
netto.
Non fa più male.
Niente mi fa male.
Non sento dolore.
Non sento niente.
«Continua pure a pestarmi… non… non ho paura della morte» gli
dico, alzando a fatica la testa verso di lui.
Mi fissa in cagnesco, aggiustandosi il colletto della camicia bianca.
«Psicopatico del cazzo. Non hai paura della morte, è così?
Adesso vediamo se dici la verità, o se sei solo un fottuto cacasotto»
afferma, sprezzante.
Scambia uno sguardo complice con uno dei suoi uomini e ritorna a
sogghignare, allargando involontariamente la lunga cicatrice sulla
guancia.
Anche se fisicamente mi sento distrutto, nel mio sangue circola
l’adrenalina.
È incandescente e rapida, mi inonda le vene e mi fa sentire su di
giri.
Mi nutro del pericolo.
Immischiarmi nei guai è la mia droga.
Vivere sul filo del rasoio è l’unico modo di stare al mondo che
conosco.
Vivo assecondando i miei impulsi peggiori.
Zero regole e zero limiti.
Vivere borderline, proprio come il disturbo che mi porto dietro.
Solo buio.
Niente luce.
Notti eterne e giorni neri.
È questo ciò che sono.
«Il cinquanta per cento della tua vita è nelle mie mani, Hassan.
Porterò dei fiori al tuo funerale, tranquillo» esclama, ridacchiando.
I suoi uomini lo imitano.
«Conosci questo gioco? Ah… dimenticavo, sei solo uno schifoso
beduino. Un solo proiettile nella rivoltella, ruota rapidamente il
tamburo. Chiudi l’arma da fuoco senza guardare, puntala alla tempia
e premi il fottuto grilletto».
Figlio di puttana, conosco la roulette russa.
Accenno un mezzo sorriso.
«Slegami, Stanković, e ti dimostrerò che ho più palle di te» replico
con un mormorio.
Ordina con un cenno al suo scagnozzo di liberarmi le mani e
l’uomo obbedisce, tagliandomi le fascette di plastica che mi
stringono i polsi.
Allungo la mano adesso libera verso il capo del clan serbo.
«Dammi la pistola».
Le armi dei suoi uomini sono già puntate alla mia testa, nel caso in
cui dovessi commettere l’ennesima cazzata.
Il serbo mi osserva soddisfatto, gli occhi scuri che risaltano maligni
sull’incarnato grigiastro.
«Buona fortuna… o dovrei dire buona morte?».
Il suo senso dell’umorismo fa schifo quanto la sua faccia di cazzo.
«Se vincerò il gioco, mi lascerai andare» metto in chiaro, calmo.
Annuisce. «Ovvio che sì. Io non gioco sporco. E non ho intenzione
di inimicarmi Quadir».
Prendo un respiro profondo e accetto la sfida.
Vivere o morire.
Un solo proiettile.
La mia esistenza dipende da questo preciso momento, dall’arma
stretta nella mia mano destra, dalla buona o dalla cattiva sorte.
«Ci stai ripensando?» insinua il serbo.
Gli lancio un’occhiata alla svelta. «Assolutamente no».
L’adrenalina mi scoppia nei polsi e nel cervello. Ormai ci sono
dentro, non ho paura, mi spingerò dove non mi sono mai spinto
prima.
Sfiorerò la morte, o la morte afferrerà me.
Perdonami, Quadir, fratello mio.
Perdonami.
Il proiettile è già inserito nel tamburo, rapido come il vento lo ruoto.
Chiudo la rivoltella e la punto alla testa.
Serro la mascella ma non gli occhi.
Voglio guardare il mio nemico prima di morire.
Perché morirò, questa volta, ne sono certo.
Anni fa, la mia vita sarebbe dovuta cessare in una moschea ad
Aarsal, a causa di mio padre, ma mia madre mi ha salvato la vita.
Sono un sopravvissuto, sono scampato alla morte una volta, e
adesso sono pronto per accoglierla.
È venuta a saldare i conti. Ci siamo.
La canna fredda della rivoltella pigia sulla mia tempia sudata,
l’indice sul grilletto, un ghigno tracotante sul mio viso.
Una volta fatto partire il colpo, non mi accorgerò nemmeno di
morire.
Sarà tutto nero e freddo.
O sarà il nulla assoluto.
Fallo, Nadir. Fai partire quel fottuto colpo.
Un uomo come te non ha paura di niente.
Premi il grilletto.
Premi il grilletto.
Fallo, cazzo!
“La morte è un sacro dono di Allah. Se ne hai timore, stai tradendo
il tuo Dio”, mi ha detto una volta mio padre, puntandomi un coltello
alla gola.
Lo faccio.
Premo il grilletto.
E l’unica cosa che sento è un tac rimbombarmi nelle orecchie.
La luce al neon intermittente mi abbaglia ancora gli occhi e ancora
avverto le ossa doloranti, mentre lo sguardo deluso del serbo mi
trafigge in due.
Scoppio a ridere. È una risata nervosa e sguaiata che echeggia
nella stanza.
Rido perché nemmeno la morte mi vuole con sé.
Rido per l’espressione di cazzo sulla faccia di Stanković.
Rido perché sono immortale.
Il serbo inizia a bestemmiare nella sua lingua, afferra una sedia e
la lancia contro la parete per poi sferrare un pugno all’armadietto
posto accanto alla scrivania.
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