Emozioni in onda – Fabiola D’Amico

SINTESI DEL LIBRO:
A te che sei l’unica al mondo
l’unica ragione
per arrivare fino in fondo
ad ogni mio respiro
Quando ti guardo
dopo un giorno pieno di parole
senza che tu mi dica niente
tutto si fa chiaro.
A te che mi hai trovato
all’angolo coi pugni chiusi
con le mie spalle contro il muro
pronto a difendermi
con gli occhi bassi
stavo in fila con i disillusi
tu mi hai raccolto come un gatto
e mi hai portato con te.
Jovanotti, A te
Capitolo 1
I need ya, I need ya, I need you
right now
Yeah, I need you right now
So don't let me, don't let me, don't
let me down
I think I'm losing my mind now
It's in my head, darling
I hope that you'll be here, when I
need you the most
So don't let me, don't let me, don't
let me down
D-don't let me down
Ne ho bisogno, ne ho bisogno,
ho bisogno di te adesso
Sì, ho bisogno di te adesso
Quindi non mi deludere, non mi
deludere, non mi deludere
Penso di star perdendo la testa
adesso
È nella mia testa, tesoro
Spero che tu ci sarai, quando ne avrò
più bisogno
Non deludermi, non deludermi, non
deludermi
Non deludermi
The Chainsmokers ft Daya,
Don’t Let Me Down
Una riunione di tutto lo staff alle
quindici, annunciata soltanto
qualche ora prima, non era mai una
bella cosa, pensò Sabrina, entrando
nel palazzo che ospitava la sede di
Radio On air. C’era da aspettarsi
qualcosa di grave, ne era certa.
Negli ultimi tempi si era parlato
spesso di crisi. Forse volevano
ridurre il personale ed essendo lei
l’ultima arrivata era facile fare due
più due. D’accordo era brava e il suo
programma andava a gonfie vele ma
c’erano colleghi che avevano una
famiglia e, loro più di tutti, avevano
la priorità. Lei era sola.
Sabrina Belfiore entrò nello
studio con il cuore che le batteva a
mille. Il lavoro era la sua ancora di
salvezza in mezzo a un mare in
burrasca. Se lo avesse perso, non
credeva che sarebbe riuscita a
tornare a galla. Non un'altra volta.
Oddio, meglio cambiare musica.
Sorridi, tesoro, si disse tra sé e
sé. Sei forte. Puoi ricostruirti una
vita nuova. In fondo non c’è nulla
che ti lega qui.
Era in anticipo di qualche
minuto perciò pensò di bere
qualcosa prima di affrontare l’amara
realtà.
Entrò di soppiatto nella stanza
adibita a cucina. Quanti pasti
consumati in fretta lì dentro. Oltre a
un frigo ben fornito, delle piastre per
cucinare, un forno a microonde,
c’era un’enorme macchina
erogatrice che era una vera
tentazione. Di solito oltre al caffè,
prendeva dei biscottini, ma quel
pomeriggio, nonostante non avesse
pranzato a causa dell’ansia, sorvolò
e si concentrò su qualcosa di
corroborante.
Cioccolata calda, cappuccino o
un semplice caffè? Sarebbe stato
preferibile una camomilla, ma non
era contemplata nella
programmazione.
Optò per un caffè amaro, digitò
il numero sulla macchina, che
faceva molto Camera Caf è, e
aspettò.
Niente. Che sfiga. Gertrude, così
l’avevano chiamata, non
collaborava. Capitava di tanto in
tanto che si inceppasse e soltanto la
mano forte ed energica di Roberto
sapeva sbloccarla, ma non le andava
di disturbarlo. Forse un calcio ben
assestato poteva bastare.
Provò.
Bang!
«Ahi», urlò.
Gertrude non diede segni di vita.
Provò con una manata ma finì
per lanciare un altro urlo.
Si guardò intorno. Il suo sguardo
si posò sulla borsa. Era pesante.
C’era la trilogia della Malpas, un
cambio e altre cose non proprio
identificate.
Quello che le serviva.
L’afferrò per i manici e la fece
girare in tondo.
Uno, due, tre…
Bang.
La borsa non raggiunse la sua
meta ma le cosce di un uomo.
«O mio Dio! Mi dispiace», disse
abbandonando l’arma e portando le
mani alla bocca.
Il mal capitato si era piegato in
due e le era impossibile vederlo in
faccia.
Chissà chi era! Certo non uno
dei suoi colleghi. Nessuno di loro
aveva un taglio di capelli così corti,
stile militare, né spalle tanto larghe.
Si avvicinò con cautela.
«Mi dispiace», ripeté
mortificata. «Non era mia intenzione
colpirla. Volevo solo prendere una
caffè».
«Suppongo che questa diabolica
macchina funzioni a colpi di borsa».
Lo sconosciuto aveva un tono di
voce dolorante. Aveva davvero
colpito così forte? Teneva la mano
stretta attorno a un ginocchio e non
accennava a sollevare la testa.
«Le ho fatto molto male? Vuole
che la aiuti a sedersi? Chiamo
qualcuno?»
L’uomo strinse gli occhi. Rughe
profonde si formarono sulla fronte.
Gocce di sudore imperlavano la
pelle chiara.
Gli toccò il braccio.
Lui si ritrasse e finalmente si
erse nella sua altezza. Wow. Per
guardarlo doveva inclinare il collo.
Ma quanto è alto?
«Un metro e ottantasette».
Sabrina si rese conto di aver
parlato a voce alta.
Gli rivolse un sorriso storto e
indietreggiò, evitando di guardarlo
dritto negli occhi. Si stava
comportando come una ragazzina.
«Le sembrerò una villana. Mi
scusi. Dal basso della mia altezza,
chiunque superi un metro e ottanta
mi sembra un gigante».
L’uomo la fissò a lungo senza
dire una parola, costringendola a
sollevare la testa. Lo sconosciuto
aveva degli occhi grandi dal taglio a
mandorla, di un indefinito colore
che dal verde sfumava al nocciola,
occhi che le percorsero tutto il
corpo. Quello sguardo così diretto la
mise a disagio. Non era abituata a
quel genere di attenzioni. Non più da
qualche tempo. Il suo abbigliamento
era anonimo, i capelli sempre legati
in crocchie sformate e mai un filo di
trucco, a eccezione di uno strato
abbondante di copri occhiaie.
«Passato l’esame?», domandò
stizzita incrociando le braccia al
seno.
Ma chi cavolo era questo? Un
possibile cliente? Un tecnico?
No, abbigliamento troppo
elegante per essere un operaio.
Indossava un completo blu, con
camicia gessata e cravatta abbinata
che gli dava un’aria imponente.
Quell’uomo trasudava testosterone.
«Niente male per una ragazzina
che vuole fare l’adulta».
Cosa?
Oh accidenti! Perché la gente
quando la vedeva pensava che
avesse meno dei suoi anni?
Le tornarono in mente le parole
che era stata solita ripeterle mamma
ogni volta che si era lamentava:
“Tesoro, è il tuo aspetto a farti
apparire più giovane. Il fatto che non
superi un metro e sessanta e hai un
fisico snello con un bel seno, ti fa
sembrare una Lolita di altri tempi”.
Senza più degnarla di uno
sguardo, il tipo si avvicinò alla
macchina e gli piantò una manata
sul fianco. Gertrude, la traditrice, si
mise in funzione.
Allungò la mano per afferrare il
bicchiere. Lo stesso fece lui.
Sabrina avvertì una scarica
elettrica passarle per il braccio.
Istintivamente lasciò andare la presa.
Idem lo sconosciuto. Il liquido scuro
le saltò sul polso, poi si sparse sul
pavimento.
«Cazzo», esclamò Sabrina.
«Le bambine non dovrebbero
parlare in questo modo» fece
l’uomo.
Ma tu guarda se doveva sorbirsi
una ramanzina. Il caffè l’aveva
ustionata e a mali estremi, estreme
parole.
«Mi dispiace se ho offeso le sue
orecchie sensibili», si affrettò a dire
in tono irritato e con voce
aggressiva. Poi afferrò un rotolone
di carta e si chinò a pulire alla buona
il pavimento. «Che male! Ma che
cavolo mi è preso?», proseguì in
tono più basso, parlando a se stessa.
«Forse sono io la causa del tuo
nervosismo».
Sabrina sollevò la testa a
guardarlo. Da lì sotto le sembrò
ancora più gigantesco. E
affascinante. Era accovacciata sotto
di lui, a pochi centimetri dal suo
organo genitale da cui fu
involontariamente attratta.
Oh Mio dio! Perché aveva
l’impressione che stesse crescendo
davanti ai suoi occhi?
Una sensazione di calore le
infiammò il corpo. Conosceva quelle
emozioni ma erano rimaste sepolte
in lei così a lungo che non pensava
sarebbero tornate a tormentarla.
Chiuse gli occhi, trasportata in un
altro mondo. Un universo parallelo
di ricordi. Le sembrò che un
incendio la stesse consumando.
Senza accorgersene gemette.
«Ragazzina, devi imparare a non
giocare con il fuoco. Un altro al mio
posto avrebbe approfittato della
situazione».
Il tono duro dell’uomo la fece
tornare con i piedi per terra. Si alzò
in fretta e buttò la carta nel cestino.
Che cosa le prendeva? Arrossì di
vergogna.
«Non so di che parla».
Avvertì la sua figura alle spalle.
Fu circondata dal profumo intenso
che indossava. Un’altra scarica
elettrica la scosse.
«Sono bravo a leggere i segnali
che mi lancia il corpo di una
persona. So cosa sta provando il tuo.
Sarebbe carino vedere dove
potrebbe portarci la cosa, peccato
che potrei essere tuo padre».
Nonostante lo
scombussolamento, Sabrina trovò
divertente che lui continuasse a
considerarla una ragazzina. Dalle
rughe di espressione intorno ai suoi
occhi aveva capito che avesse più di
trent’anni ma da qui ad essere suo
padre ne passava di acqua. Sospirò
per ritrovare la calma, poi si girò ad
affrontarlo.
Non aveva previsto, però, che
fosse così vicino. Le iridi verdi dei
suoi occhi non la lasciarono per un
istante. Fu attratta dalle sue labbra.
Una piega dura. Nessun sorriso. Si
chiese se un bacio le avrebbe
ammorbidite.
Ma cosa stava pensando?
Poggiò il palmo sul suo petto e
lo spinse via.
Un dolore lieve le fece storcere
la bocca.
Presa dal vulcano che era dentro
di lei, non si era resa conto che il
caffè avesse lasciato ombra del suo
passaggio.
Cavolo, se bruciava.
«Fa vedere, ragazzina».
Lui le afferrò la mano e la
guardò.
«Non è niente di grave. E
dovrebbe esserci l’occorrente per
guarire questa lieve bruciatura»,
disse trascinandola verso il
lavandino.
Sabrina finse di non sentire il
battito irregolare del suo cuore e di
ignorare tutte le endorfine che dal
cervello si stavano irradiando su
tutto il corpo.
Si sentiva andare in fiamme e
non per la scottatura.
Non seppe cosa rispondere. Era
completamente andata.
Il contatto con l’acqua gelida le
provocò sollievo alla mano ma non
al cervello. Per quello sarebbe stato
necessaria una doccia fredda. E
forse neanche.
Mentre l’acqua scorreva sul
polso, lo guardò. Osservò le sue
mani. Erano grandi con dita lunghe e
affusolate. Un’altra scomoda
immagine si sovrappose alla realtà.
Le immaginò farsi strada dentro di
lei. Chiuse di nuovo gli occhi, rapita
ancora da un mondo di ricordi
mescolati con la presenza virile
dello sconosciuto. Perse il controllo
sul suo respiro e ansimò.
«Ragazzina».
Aprì gli occhi e si perse nel suo
sguardo.
C’era una luce ombrosa in esso.
Anche lei sapeva cogliere certe
sfumature.
«Sei una tentatrice. Devi
imparare a tenere nascoste le
emozioni o rimarrai scottata».
Sabrina non rispose. Era
frastornata. Ubriaca di sensazioni.
Ricordi. Emozioni dimenticate.
Come in trance lo vide afferrare
una patata da una scodella. Con
tenerezza ne applicò una sulla ferita.
Poi lui prese dal taschino un
fazzoletto e lo avvolse attorno al suo
polso.
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