Diario di un’eternità Io e Theo Angelopoulos – Petros Markaris

SINTESI DEL LIBRO:
Una domanda antica e persistente.
Come nasce un’idea? E in particolare l’idea di un film?
Chi risponderà che l’idea gli è venuta mentre guardava un albero dirà
una verità e una menzogna.
Verità, nella misura in cui durante una passeggiata si è fermato a
guardare un albero, senza una ragione precisa, mentre nulla sembrava
costringerlo a farlo. Né la forma dell’albero, né il colore, né la vecchia ferita
sul suo tronco conducevano a un’idea.
Menzogna, nella misura in cui quando si è fermato a guardare l’albero,
qualcosa – una frase ascoltata per caso in strada, tempo addietro, oppure
letta in un libro, una notizia irrilevante comparsa sui giornali, un’immagine,
intorpidita o dormiente in fondo al magazzino delle immagini che ognuno
possiede – dopo un lavorio sotterraneo, di giorni, di mesi o di anni che si
compiva segretamente dentro di lui – in quel preciso momento gli si è
ripresentato, trasformato. Quel momento è diventato così, in modo inatteso,
un incontro privilegiato con l’indicibile.
L’albero non c’entrava proprio niente. Era innocente.
In questo senso, tra verità e menzogna, potrei dire che l’idea delle nozze
sul fiume nel Passo sospeso della cicogna è nata sull’autobus che mi portava
da Broadway al Bronx, mentre attraversavo Harlem in una strana primavera
del 1987.
Ma cos’è che si è risvegliato in quel momento, trasformato e reso quasi
irriconoscibile dall’oblio?
E perché?
Una lettura, probabilmente su un giornale del 1958.
La lettura potrebbe essere la storia della sepoltura di un pastore, in
un’isoletta a qualche decina di metri da Creta ma ancora nella sua ombra,
dalla parte meridionale, verso il mar Libico. Inverno, mare in tempesta:
impossibile fare la traversata in barca e un pastore morto aspetta di essere
seppellito.
Il papàs del paese più vicino a Creta era stato avvertito con delle
segnalazioni. Venne, salì su una roccia, con l’abito che garriva al vento e si
mise a dir messa al mare, mentre i pastori, dall’altra parte, sull’isoletta,
seppellivano il morto.
Ma era proprio questo? O c’era qualcos’altro? In quel momento quale
associazione di idee si completava nel silenzio, eppure in modo tanto
decisivo, da sovrapporsi a quel che vedevo dal finestrino dell’autobus?
(Harlem, nel sole del pomeriggio, magica e terribile al tempo stesso.) Come
ha interferito (proprio come un altro canale interferisce improvvisamente
con quello che stavamo guardando in televisione) l’immagine fantastica di
un fiume, che fa da confine tra due Stati, con la bianca figura della sposa da
una parte e dello sposo dall’altra?
Il periodo che precede la realizzazione di una sceneggiatura è un periodo
di umidità, con strane variabili, strane percezioni apparentemente
irragionevoli. Un’alternanza di astrazione e acutezza. È un periodo di doppia
vita. La parte rumorosa di te vive la quotidianità come sempre, mentre
quella silenziosa tesse in segreto, con materiali invisibili, ciò che, a un certo
punto, maturerà e uscirà in superficie, quando meno te l’aspetti,
attraversando con stupefacente facilità tutti i filtri della quotidianità.
Chi dirà che l’idea di un film è nata guardando un albero dirà la verità.
Diario di un’eternità
Sabato 9 marzo 1996
C’è un nevischio sottile e si gela. La strada verso Mati è bagnata e vuota.
Persino a Ghèrakas, che in estate è impraticabile quasi ventiquattr’ore su
ventiquattro, le auto si muovono con agio, come fossero su una strada
provinciale. Mi piacciono queste strade, fuori Atene, nel vuoto dell’inverno.
Mi ricordano Chalki, la terza delle isole dei Prìncipi, dove sono nato e ho
vissuto gran parte della mia gioventù; quando, in autunno, se ne andavano i
villeggianti, vagavo da solo per le spiagge deserte. Questa sensazione di
solitudine, la porto ancora con me come una dolce nostalgia.
Ogni volta che vado a casa di Angelopoulos perdo la strada. L’ultima
volta ho deciso di prendere come punto di riferimento la taverna di Vassilis,
dato che via Trìtonos comincia proprio lì. Trovo facilmente la strada, ma poi
non riesco a ricordarmi la casa. Per fortuna il conducente del taxi ha il
cellulare. Dispositivi che sono entrati nella nostra vita come i souvlakia,
questa volta si dimostrano utili. Chiamo Angelopoulos che mi dice che la
casa è al numero 7; l’avevamo appena superata salendo.
Angelopoulos scende fino al cancello del giardino per aprirmi. Indossa un
giaccone pesante e una coppola.
“Com’è che vai in giro così, a testa scoperta, con questo gelo?” mi chiede.
“E io che pensavo che portassi la coppola solo sul set.”
Ride come un bambino che ti ha fatto uno scherzo. Passiamo tra gli
operai e i loro attrezzi e saliamo sul soppalco dove si trova lo studio di Theo.
Phoebe sta sempre a trafficare in casa. Sono certo che se fosse per Theo, lui
non farebbe niente, vivrebbe come in quel buco due metri per due, a
Dafnomili, quando lavoravamo alla sceneggiatura di Alessandro il Grande,
senza luce, perché non pagava le bollette.
Ora il soppalco dove lavora è tutto di legno con il tetto inclinato,
anch’esso di legno. Dalla finestra si vede il giardino e, oltre, il golfo
dell’Eubea. Se non fosse per i pini marittimi che hanno un colore greco,
potrei pensare di trovarmi in una di quelle case austriache che avevo
conosciuto in gioventù, con il mare trasformato in lago, magari quello di
Neusiedl.
Gli ho portato la recensione di Philip French allo Sguardo di Ulisse uscita
sul “Nouvel Observateur” e il libro Adieu di Danièle Sallenave, e glieli
consegno. Come sempre accade con le nostre conversazioni, cominciamo
dalla politica. Un tempo la nostra conversazione era fatta di punti di vista e
soluzioni alternative, disaccordi, contrasti. Ora ci limitiamo a confermare a
vicenda e a sottolineare il nostro pessimismo: tutto è senza valore,
frantumato, come una casa che cade a pezzi senza però crollare del tutto,
impedendoti così di ricostruirla – un Paese senza orizzonte, una visione
senza l’ampiezza del sogno. Come sempre, anche questa volta, non sono io a
interrompere la conversazione per entrare in argomento. Lascio a lui
l’iniziativa. So che, dentro di lui, deve maturare il momento in cui abbia
voglia di cominciare a parlare.
“Dai, lascia stare e cominciamo a parlare delle nostre cose,” mi dice poco
dopo. Non se ne rende conto, ma le nostre conversazioni cominciano
sempre così.
Mi racconta di una discussione che aveva avuto con Tonino Guerra a
Mosca. “Non devi continuare a costruire castelli,” gli aveva detto Tonino.
“Puoi anche fare qualcosa di più modesto, tanto per riprendere fiato.”
Mentre me lo dice, non sembra crederci troppo. Forse non ha tutti i torti. A
un certo punto arrivi a un’idea che ti stimola. Come fai a sapere in anticipo
se diventerà un castello o una villetta monofamiliare?
Comincia a raccontarmi la storia dell’uomo che sta morendo. Me l’aveva
già raccontata tre settimane fa, mentre pranzavamo in una tavernetta nel
quartiere Exàrchia: un uomo, divorziato, è andato in pensione anticipata e si
è trasferito nel suo paese natale. Un giorno, i medici gli dicono che ha il
cancro. Lui si ribella, non vuole credere che morirà. Continua la sua vita e si
lega a un ragazzino – forse il figlio di una vicina di casa, forse un nipotino
venuto dalla città – e lo porta con sé a vedere il mare. L’ultima scena che
Theo ha in testa è quella di un uomo davanti a casa sua, con una valigetta,
in attesa dell’ambulanza. È piovuto, l’uomo nota che l’asfalto è scivoloso e si
augura che non abbia un incidente mentre va in ospedale.
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