Cuochi sull’orlo di una crisi di nervi: Viaggio in incognito fra tic e manie della ristorazione italiana – Valerio Massimo Visintin

SINTESI DEL LIBRO:
Prima, però, affrontiamo Expo. La bolla temporale che mi ha
tenuto in ostaggio per sei mesi: dal maggio all’ottobre del
2015. Se permettete, vi servo qualche riflessione semi-seria
su un evento del quale si parlerà ancora per molto tempo.
EXPO
Che cos’è l’Expo? La mattina del primo maggio, mi sono
presentato all’ingresso con questa domanda in tasca. Sotto un cielo
di nuvole umide e spesse, dal vastissimo catino del teatro all’aperto
rimbalzava l’eco della cerimonia inaugurale. Celebrità nostrane,
funzionari governativi di mezzo mondo, giornalisti e visitatori della
prim’ora indossavano un identico sguardo incerto ed emotivo, come
quei cani al guinzaglio che vedono il padrone in lontananza.
I colleghi, in attesa ai tornelli, sguainavano smartphone, tablet e
sospiri impazienti. I più disinvolti squittivano, come in gita scolastica,
mostrandosi l’un l’altro le foto dei pass; ambitissimi feticci, che a
novembre penderanno con artata nonchalance da qualche gomito di
mobile in salotto.
Cinguettii da cosmonauta di una cronista bionda appollaiata su
quei tacchi che a tarda sera avrà stramaledetto: “Ciao, cara, dove
sei? In Ecuador? Io sto per entrare. Ci vediamo in Olanda tra dieci
minuti”.
Che cos’è l’Expo? Al termine di quella prima giornata ho segnato
sul taccuino una sintesi rabbiosa: “Vesciche, pioggia, stanchezza
negli occhi e nelle gambe”.
Ma ancora oggi, a un anno di distanza dalle maratone su quel
tavoliere di cemento, non ho trovato una risposta. Tutt’al più, potrei
dire di aver raccolto un quadro scomposto di indizi.
Il boccone peggiore
Abalone! Chi è costui? È certamente, al netto delle stravaganze
più estreme, il boccone peggiore che abbia mangiato in Expo.
Sarebbe un mollusco marino. Ma, nella versione proposta dal
padiglione cileno, pareva una suola aromatizzata al petto di pollo.
La cultura
Più che il pianeta, l’Expo ha nutrito una natura circense. Non dico
che non abbia scintillato qualche barlume di cultura, tra cardo e
decumano. Ma non c’era spazio d’ascolto per temi pensanti. E il
pubblico stesso non era predisposto a percepirli. È come disquisire
di Proust in curva nord.
Decumano
Era quell’incubo infinito che tagliava il mondo in due come
Spaccanapoli o, meglio, come viale Ceccarini a Riccione. L’ho
percorso mille volte avanti e indietro. Nelle notti più buie, sogno di
attraversarlo forsennatamente in triciclo, come il bambino di Shining.
Il caldo
Forse credevano che la Lombardia fosse una regione del Grande
Nord. Errori che capitano. Si sono dimenticati di stendere ombre, di
piantare alberi, di creare oasi contro il deserto dell’estate più torrida
di sempre. Per scampare all’eritema, si cercava rifugio sotto la
cappa bollente del Decumano: dalla padella alla padella.
Foody
Mostruosa mascotte arcimboldiana. Scortata in quotidiane sfilate
orrorifiche da una tremenda pupazzopoli. Cito testualmente stralci
dell’anagrafe ufficiale: “Piera, fiera del fisico a pera”, “Arabella, la
dolce acidella”, “Rodolfo, il vero fico”, “Max Mais, il musicista popcorn”. Mi perdonerete se eviterò commenti.
Gastronomia
Ne è uscita sconfitta e umiliata. Nelle strade di Expo ha trionfato
il food, con tutte le sue contraddizioni, la sua deriva cialtrona e
volgare, il suo carico di consumismo spicciolo. Persino i templari
dell’alta cucina - ingaggiati dal Mangiafuoco Paolo Marchi, per far
brillare i fornelli di Identità Expo - non hanno inciso nella trama
generale dell’Esposizione. E nemmeno Slow Food, asserragliata in
un padiglione che sembrava Fort Alamo, ha avuto la forza di
imprimere una svolta qualitativa. Ed è rimasta in disparte, come un
convitato di pietra.
Cronista gastronomico
Ho assaggiato di tutto, per dovere professionale. Mi sono capitati
bocconi dignitosi, insignificanti, tremendi. In ogni caso, nulla di
memorabile, poiché (fatta salva qualche eccezione) è stata la fiera
della provvisorietà, del posticcio. I ristoranti non erano ristoranti. Ma
cucine da campo lasciate nelle mani di un popolo d’avventizi.
Expo e Milano
Entità che non hanno interagito. Un amore mai sbocciato, frutto
di un miraggio. Si pensava che la città avrebbe goduto del riflesso
dell’Esposizione; che sarebbe stata invasa dai turisti; che avrebbe
rilanciato il boccheggiante commercio milanese. Un cumulo di
aspettative che ha generato infornate di nuove insegne, scardinando
gli equilibri, polarizzando l’offerta in alcuni quartieri cittadini,
abbassando l’età dei fruitori, mettendo in fuorigioco il ceto medio
della nostra ristorazione. Ora sappiamo che l’Expo non si è svolta a
Milano, come abbiamo creduto. E nemmeno a Rho. Per sei mesi ha
avuto inizio e fine in se stessa, senza commistioni. Facile prevedere
che nei prossimi mesi, in città, conteremo i caduti di una battaglia
che molti hanno perduto ancora prima di cominciare.
Divertimento
Ma sarei disonesto se negassi che questa Disneyland dei popoli
uniti, questo pianeta in bottiglia era un luogo divertente, imbottito di
attrazioni, talmente avulso dalla realtà da riportare persino i cinici
cronisti come me a una dimensione ludica e medicale. Però, come
certa medicina alternativa, andava assunta in dosi omeopatiche.
Casa dolce casa
Naufragare finalmente a casa, masticato vivo da una giornata in
Expo, è stato un sollievo senza paragoni. Mi ricorda la barzelletta di
quel tale che calza scarpe di due numeri più piccole: “Perché lo
faccio? Vivo una vita d’inferno, ma sai che goduria quando mi tolgo
le scarpe.
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