Con i piedi ben piantati sulle nuvole. Viaggio sentimentale in un’Italia che resiste – Andrea Scanzi

SINTESI DEL LIBRO:
A volte viaggiamo per scoprire qualcosa di nuovo e altre volte perché
abbiamo solo bisogno di protezione. Ognuno ha la sua «Macondo», e
spesso una neanche basta.
Una delle mie Macondo sono le Langhe. Più che un luogo, è una forma
di ossigeno.
Non sono mai stato astemio, in Langa. Senz’altro è colpa mia.
Non ci sono mai stato male, in Langa. Senz’altro è merito suo.
In Langa si rinasce un sacco di volte. Ci sono stato, e quindi ci sono
rinato, universitario. Da solo, in coppia. Con amici. Da solo, in coppia (però
un’altra, e un’altra ancora). E con altri amici.
La mia Langa è quella che si allarga senza confini e senza che quei
ventitré giorni ad Alba abbiano mai avuto fine, perché la Langa è libera e
non può avere fine.
La mia Langa sa di nocciola nell’aria. È la Langa dimenticata del
Monregalese, come pure quella che sale su fino a Mombarcaro e a
puntellare il cammino ci sono le steli a memoria di chi è nato libero e morto
partigiano. Ancora più libero.
La mia Langa sono i vini concupiscenti di Ezio Cerruti, il Barolo di
«Citrico» Rinaldi, il Barbaresco di Paolo Veglio. E il Dolcetto lento e
silenzioso di Flavio Roddolo. Il quale, va da sé, è anche più lento e
silenzioso dei suoi vini.
La mia Langa sono le note di Mark Knopfler nella piazza di Barolo, e io
e lei arrivammo tardi perché prima avevamo bevuto e riso troppo. Sono le
zolle magiche che donano – solo loro – quel vino. Sono il Tanaro che
controlla tutto, sono l’Hotel Brezza e le Collisioni letterarie con le piazze
sempre piene. Anche per me. Persino per me, a conferma dell’infinita
misericordia di questi posti che conosco così bene da non riuscire a
perdermici neanche se voglio.
E a volte voglio.
Le mie Langhe sono i ristoranti provati: quasi tutti. Sono i vini bevuti:
quasi tutti. Sono le nottate a Cravanzana, a Mango e Valdivilla. Sono
quell’agriturismo in cui c’era un bovaro del bernese che mi parve ambire al
lusso d’essere immortale. Sono le viuzze che diventano vigne, le vigne che
diventano viuzze.
Le mie Langhe sono una sospensione deliberata. Resistenza, tempo che
passa e Bicerin dei golosi.
Le mie Langhe sono Beppe Fenoglio, ultimo passero sul ramo, col suo
nasone a strapiombo sulla collina e le parole scortecciate finché se ne
scorga unicamente il cuore.
Le mie Langhe sono questi grissini, sopra un tavolino apparentemente
anonimo nel centro di Alba, che cercano un abbinamento perfetto con
questo bicchiere di rosso e questo nostro presente.
E lo trovano.
Solo qui, ma lo trovano.
2
La follia del lago
«Vidi uno spacco cuneiforme tra le montagne sull’altra sponda e pensai che
doveva essere Luino.» Così scrive Ernest Hemingway in Addio alle armi.
Molto meno poeticamente, io associo Luino a un flop e a una strana
signora.
Ivano Fossati mi raccontò una volta come delle tournée si ricordasse
anzitutto la data meno fortunata. «C’è sempre una data, anche nel tour
perfetto, in cui non solo non fai il tutto esaurito ma neanche arrivi a metà
sala. Paradossalmente, col passare dei giorni, quella data diviene la più
amata. E non per masochismo: perché vorrai sempre particolarmente bene a
quei pochi che quella sera c’erano.» Ivano aveva in mente una data di
Modena, nella seconda metà degli Ottanta. Io, nel mio piccolo, penso a
Luino.
Durante una tournée in teatro in cui feci tutti sold out, a Luino non
funzionò quasi nulla. Qualcuno addusse motivazioni politiche: «Ci son
troppi leghisti, figurati se vengono a sentire un comunista grillino come te».
Non saprei dirvi. Di sicuro, a Luino, non feci neanche metà sala. Accadde
solo lì e me lo ricorderò per sempre. Come per sempre mi ricorderò chi
quella sera mi plaudì, sfidando la concorrenza che mi sparò contro il
centrodestra: una sorta di galà berlusconiano con Adriano Galliani ospite
d’onore. Capite bene che essere superati da Galliani un po’ di male lo fa.
Il secondo ricordo immediato che associo a Luino è quello di una strana
signora. Disse di chiamarsi Maria. Ero appena arrivato in città e guidava
Amanda, amica e tour manager. All’altezza della stazione – eravamo in
cerca dell’albergo –, la signora Maria si sbracciò in mezzo alla strada.
Amanda inchiodò. La donna, assai bizzarra e sulla settantina, ci disse di non
sentirsi bene e ci chiese di portarla in farmacia. Così facemmo. Lei si
sedette dietro di noi e, per l’intero tragitto, ci ricordò che saremmo morti
tutti ma che Dio – ciò nonostante – ci voleva bene. Avrei voluto risponderle:
«Mò me lo segno», come Massimo Troisi in Non ci resta che piangere, ma
preferii glissare. Poi la signora scese, e ieri come oggi penso che stesse
benissimo. Derive mistiche a parte, intendo dire.
Ci fu un altro strano evento, a dire il vero. Accadde poco dopo. Un
ragazzo mi portò a teatro e, prima di fermarsi, fece una sosta. Lo
accompagnai. Quando tornammo al parcheggio, una signora – no, non la
stessa di prima – cominciò a inveire a caso. Sosteneva che il ragazzo,
parcheggiando, avesse urtato la sua macchina, danneggiandola. Posso
giurarvi che non era vero niente, ma la signora recitava molto bene ed era
mossa da una pazzia calcolatissima.
Chiesi al ragazzo se gli fosse mai capitato. Lui mi rispose in maniera
sibillina: «A Luino siamo tutti un po’ strani. Sa, è il lago».
Mentre pensavo di essere su Scherzi a parte, rimasi poi travolto da uno
strale che mi recitò il barista quarantenne durante l’aperitivo prespettacolo.
Ce l’aveva con Enzo Iacchetti, nato in provincia di Cremona ma di casa a
Luino. Iacchetti, secondo lui, aveva denigrato la città tratteggiandola come
il luogo più triste del mondo o giù di lì. Cercai subito in rete
quell’intervista. Il barista alludeva a un servizio video pubblicato sul sito di
«Repubblica» nel 2017. Iacchetti aveva sostenuto questo: «Il lago? Luogo
di depressione, e forse è per questo che la risposta è andare via, qui non c’è
tanto da ridere». Massimo Boldi era stato ancora più duro: «Luino? Piove
sempre, è un po’ il pisciatoio d’Italia, forse è per questo che sono nate le
barzellette». Per la cronaca, Boldi era stato premiato Ambasciatore di Luino
nel mondo nel dicembre precedente. Al coro aveva partecipato anche
Francesco Salvi, pure lui luinese, che aveva parlato dei «tanti confini» di
Luino, delle Brigate Rosse e dei suoi passaggi più o meno segreti. Per poi
dire: «Quello che ci accomuna tutti è la follia del lago. Luino non offre
niente, anche per questo ci sono mille pulsioni che ti spingono ad andare
via».
Il risentimento del barista, più che giustificato, era condiviso da molti
suoi concittadini. Mi posi la più ovvia delle domande: avevano ragione tutti
quei comici famosi? Certo, dalla mia breve e non proprio fortunatissima
esperienza luinese potevo desumere una certa stranezza del contesto. Forse
dipendeva dal lago, dall’esser terra di confine e da quel senso inevitabile di
isolamento che ti viene se nasci e vivi in una città da cui non passi mai per
caso, ma che devi voler attraversare. La mia, però, era un’esperienza
oltremodo superficiale.
La domanda era tuttavia un’altra: erano davvero critiche le parole di quei
comici? O forse suggerivano, una volta superata la prima chiave di lettura (e
dunque la sgradevolezza che ne conseguiva), qualcos’altro?
Certo, anch’io quando sento parlare «male» di Arezzo nel mio piccolo mi
incazzo. Proviamo però ad andare oltre: come può plasmarci la realtà in cui
cresciamo? Può donarci palesemente tutte le sue caratteristiche, belle o
brutte che siano. Oppure – o magari contemporaneamente – può spingerci a
superare quelli che ci paiono limiti contingenti fino addirittura a rovesciarli.
In questo senso, la vera o presunta «depressione» di Luino ha indotto molti
ragazzi a reinventarsi comici per supplire a quell’assenza di ilarità dettata –
dicono loro – dal lago e dai tanti confini. Se Luino è la città dei comici, ed è
un dato di fatto, è perché ha spinto quei comici a divenire tali. Quindi non è
colpa, bensì merito di Luino.
Vista così, Luino assurge a madre severa che nulla o poco concede ai suoi
figli, ma che così facendo li induce a migliorarsi. A trarre il meglio da se
stessi. Magari, chi lo sa, se Luino avesse coccolato troppo i suoi figli,
avrebbe finito col non aiutarli. Magari, se Luino non fosse così, il
luinesissimo Piero Chiara non avrebbe mai scritto quel che ha scritto. Per
esempio questo, in Vedrò Singapore: «Cosa aspetta lei? La felicità? Allora,
della vita non ne capisce nulla».
Evidentemente, a Luino, la felicità esiste. Solo che devi fingere che non
esista. Così, quando arriva, appare ancora più bella.
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