Come un fulmine a ciel sereno – Keja Galli

SINTESI DEL LIBRO:
Una folata tiepida di vento mi scompiglia i capelli facendomeli
ricadere in modo disordinato sulla fronte e davanti agli occhi. Con un
gesto lento e pacato della mano li sistemo all’indietro, e riporto lo
sguardo sul libro che tengo in grembo. Ne accarezzo le pagine
aperte e, senza accorgermene, mi ritrovo a inspirarle. È un’abitudine
che ho sin da bambino: ogni libro nuovo che mi capita tra le mani
devo annusarlo, devo imprimerne l’odore nella mente, bearmi
dell’essenza che ricorderò anche a distanza di mesi. Ogni volume ha
la propria fragranza inconfondibile, un aroma unico.
Mi sistemo meglio sulla panchina sulla quale sono seduto
cercando di non disturbare Lysa, la cui testa è appoggiata sulle mie
gambe. Non sembra essersene nemmeno accorta e mi soffermo a
fissare il nero dei suoi capelli, quest’oggi legati in una coda alta
impreziosita da un fiocco di seta verde. Sono davvero fortunato ad
avere un’amica così. Dio solo sa quanto devo ringraziare il destino,
artefice, quel giorno, del nostro primo incontro.
Ci siamo conosciuti che eravamo piccolissimi, alla scuola
materna. Io ero un bambino cicciottello dalla pelle chiara e i capelli
finissimi color paglia; le mie guanciotte erano perennemente
arrossate e spiccavano come timbri impressi sul mio viso tondo,
sempre sorridente; gli occhi erano di un azzurro così brillante da
ricordare il cielo limpido dopo una notte tempestosa. Lei era il mio
yin, il mio opposto: aveva i capelli di un colore così scuro da
assomigliare al buio delle notti misteriose nei boschi, quelle senza la
luna a rischiarare i dintorni, quelle in cui si rischia di perdersi in
mancanza di un qualsiasi punto di riferimento. Ma erano i suoi occhi
il punto di riferimento, la bussola in grado di far rimanere sempre
sulla rotta perfetta: avevano il colore del miele d’acacia che cola
fluido dal cucchiaino in una tazza di the alle cinque del pomeriggio, e
impreziosivano l’ovale perfetto che era il suo piccolo viso. La sua
pelle, liscia come seta, era di una tonalità calda e seducente,
paragonabile al colore dell’ambra.
Lysa era arrivata a metà del secondo anno, in una giornata
apparentemente come tutte le altre. Al momento del suo ingresso in
aula, come consuetudine con un nuovo alunno, la maestra l’aveva
presa per mano per presentarla all’intera sezione.
«Bambini, questa è Lysa. Si è appena trasferita qui da noi da
molto, molto lontano. La vogliamo far sentire come a casa sua? Chi
è così carino da farla sedere al suo fianco?»
Nessun bambino alza la mano. La fissiamo a occhi sgranati, con
lo sguardo innocente che solo noi piccoli possiamo avere. Lysa non
è come noi, c’è qualcosa che la differenzia da tutti i presenti, e quel
qualcosa è il colore della sua pelle.
La maestra, sconcertata da quest’improvviso silenzio fatto di
espressioni stupite, inizia a sentirsi a disagio in questa strana
situazione quando, dal penultimo banco sulla destra, spunta una
manina paffuta: la mia.
«Può venire qui, maestra.»
La donna, sorridendo sollevata, annuisce in modo quasi
impercettibile, poi si rivolge a Lysa abbassandosi alla sua altezza e
le prende dolcemente le mani tra le proprie. «Ti va di sederti di
fianco a Marco? È un bambino molto simpatico ed educato.»
La bambina, timidamente, approva con un delicato cenno del
capo e l’insegnante la accompagna fino al mio banco, mentre io ho
già avvicinato una seconda sedia e sgombrato il piano per fare
spazio alla nuova arrivata.
«Ciao, Lysa, io sono Marco. Spero tanto di diventare il tuo
migliore amico, un giorno.»
Sono trascorsi quattordici anni da quel giorno, e noi siamo
cambiati parecchio: non sono più il bambino cicciottello della scuola
materna, sono diventato un bel ragazzo alto poco meno di un metro
e ottanta; i capelli si sono scuriti quel tanto che basta per non essere
più definiti biondi, ma castano chiaro, e non ho più le guanciotte
rosse, bensì un viso da diciottenne con la mascella squadrata e i
tratti spigolosi. Identico è rimasto il colore particolare dei miei occhi:
azzurro cielo, come la carta delle caramelle alla panna.
A Lysa, invece, i capelli sono rimasti neri e boccolosi: li ha lunghi
fino alla vita, ma li tiene spesso legati o acconciati, specialmente nei
mesi più caldi dell’anno. Il suo perfetto viso ovale è rimasto
pressoché immutato, cresciuto in proporzione con il corpo, divenuto
snello e tonico. Se all’inizio il colore della sua pelle per lei era stato
un problema, non lo è più da qualche tempo: sa che ci sarà sempre
qualcuno che l’amerà così com’è, indipendentemente dal fatto che la
sua pelle sia ambrata, bianca o marrone, e il primo sono io, il suo
migliore amico. È bella e ne è consapevole, ma non lo dà a vedere.
L’essere stata adottata da una famiglia benestante non le ha mai
tolto l’umiltà e il rispetto verso gli altri.
Solo ora mi accorgo di fissare Lysa dall’alto, ma lei sembra non
averci fatto caso: sta leggendo un libro su Wattpad, e scrive
commenti in linea a ogni paragrafo. Le sorrido, spostando lo sguardo
davanti a me, verso le alte siepi di rose che circondano questo
piccolo pezzo di terra che adesso è inebriato dal tipico, dolce
profumo di questo fiore delicato. Alzo gli occhi al cielo, ma il mio
sguardo si scontra con le fronde mosse dal vento dell’abete rosso
piantato a poca distanza da noi. È romantico questo posto e il nome
che gli è stato affibbiato nel corso degli anni non può essere più
azzeccato: il rifugio degli innamorati.
«Oh, guarda! Qui è stato disegnato un cuore nuovo» esclama
Lysa, lasciando perdere la lettura sul cellulare e indicando un punto
appena scorto sullo schienale della panchina. «A+J. Andrea+Jake?
O Arianna+Jimmy? Oppure Andromeda+Jared?» Tira indietro la
testa quel tanto che basta per incontrare il mio sguardo confuso.
«Come?» chiedo, incrociando i suoi meravigliosi occhi.
«Terra chiama Marco! Qui, non vedi?» Indica di nuovo lo stesso
punto di poco fa, dove un cuore colorato completamente di nero
racchiude due lettere scarlatte scalfite sul legno. «A+J. Sicuramente
li conosciamo, come la maggior parte dei ragazzi che hanno inciso
un cuore su questa panchina. C’è anche il nostro, proprio qui.» Lysa
si alza in un attimo, fa il giro, e punta l’indice verso un cuore
stilizzato sul retro dello schienale con all’interno le lettere M e L, di
almeno cinque centimetri di altezza. «Nessuno, ancora, ne ha inciso
uno più grande di questo!» Sorride, e si china verso di me per
schioccarmi un sonoro bacio sulla fronte.
La panchina è piena di incisioni e disegni di cuori di ogni forma,
colore e dimensione, con all’interno le lettere degli innamorati, del
passato e del presente. Abbiamo iniziato proprio noi due questa
tradizione, quando frequentavamo le scuole medie, e da allora ne
sono apparsi a centinaia: sovrapposti, scarabocchiati, appena
accennati, tant’è che non si riesce nemmeno più a capire di che
colore fosse in origine la panchina. Il custode del parco non ha mai
fatto nulla per coprirli, sono belli e colorati, e danno quel minimo di
speranza anche a chi, con l’amore, ci ha fatto a pugni più e più volte.
Quello che siamo Lysa ed io è qualcosa di più di un’amicizia, e
l’ho scoperto quando ci siamo scambiati il primo, dolce, bacio.
Stiamo frequentando il quinto grado della scuola primaria, ultimo
anno di svaghi e giochi prima di entrare ufficialmente nell’età
adolescenziale. È una calda mattina di fine maggio a scuola e,
durante l’intervallo, Lysa ed io stiamo giocando a nascondino nel
cortile che circonda interamente l’edificio scolastico. Quest’ultimo è
delineato tutt’intorno da un’alta ringhiera nera e, addossata a essa,
si erge per l’intero perimetro una siepe sempreverde interrotta da
arbusti più bassi situati nei quattro angoli. Uno di questi arbusti,
quello che dà sul davanti della scuola, è sempre stato preso
d’assalto dai bambini, poiché è tuttora un luogo adatto per potersi
nascondere o per stare in pace per qualche minuto. Pian piano,
rompendo un ramo qui, strappando una foglia là, si è creato nel suo
interno una specie di anfratto, quasi del tutto buio.
Questa mattina sono di turno a contare. Mi sono addossato
all’albero più basso, quello posto di fronte all’ingresso principale
della scuola, appoggiando il braccio al ruvido tronco. Mentre la
corteccia mi graffia la pelle inizio la sequenza dei numeri.
«Non sbirciare, eh!» mi urla qualcuno dei miei compagni. Non
sono riuscito a identificare se si trattasse di Ben o Paul, non per
nulla sono gemelli.
Sento correre i miei amici in tutte le direzioni e tento di affinare
l’udito per capire da che parte stiano andando, visto che non posso
vederli. Non ci metto molto a contare fino a settanta: sono diventato
davvero veloce. Mi volto strizzando gli occhi per riabituarli alla luce.
Non posso allontanarmi più di tanto dalla tana: i miei compagni
nascosti potrebbero saltare fuori da un momento all’altro e salvarsi
semplicemente toccando la corteccia dell’albero.
So già dove si trova la mia migliore amica, è il suo posto preferito:
dentro l’arbusto. Decido, quindi, di tenerla per ultima: sono vicino alla
tana e so che lei non uscirà se non alla fine; di solito, infatti, è Lysa
la salvatrice del gruppo, perché è una scheggia a correre,
specialmente contro di me.
Non ci vuole molto per trovare tre dei miei compagni: Sophia,
Andromeda e Ben. Loro, non molto furbamente, si sono nascosti tutti
insieme. Mentre cerco gli altri bambini, dal suo nascondiglio sbuca
Paul. Non provo a fermarlo, è troppo vicino alla tana e io troppo
distante, sprecherei fiato per nulla. Invece trovo Lorenzo. La nostra è
una bella corsa, anche se vince il mio rivale per soli due passi.
Infine, e con il fiatone, mi incammino verso il nascondiglio in cui so di
trovare Lysa; gli altri bambini, addossati alla tana, iniziano a incitare
la nostra amica.
«Forza, Lysa! Altrimenti dopo tocca a me contare» urla Sophia.
«La prossima volta corri più veloce» la rimbecca Lorenzo, ancora
con il fiato corto, mentre è piegato in avanti e ha le mani sulle
ginocchia.
«Fatti un po’ i cavoli tuoi, Lore, okay? Io incito la mia amica come
e quando mi pare» risponde lei, fulminandolo con lo sguardo. Poi
torna a fissare l’arbusto, urlando: «Lysa. Lysa. Lysa!»
Nel frattempo ho raggiunto la siepe. «Lysa, so che sei qui» le
dico, entrando.
Nessun rumore.
«Lysa?» Circondato tutt’intorno dalla penombra, non vedo né
percepisco nulla. Che mi sia sbagliato? Strizzo nuovamente gli
occhi, questa volta per abituarli alla semi oscurità. Improvvisamente
avverto un leggerissimo tocco sulla mano e, abbassando lo sguardo,
intravedo quella di Lysa che sfiora la mia. Rialzo gli occhi,
ritrovandomi la mia amica di fronte che mi fissa con uno sguardo
divertito e la bocca piegata in un sorriso dolce.
«Marco, lo sai vero che non hai speranze contro di me? Avresti
dovuto cercarmi subito» sussurra a pochi centimetri dal mio viso.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo