Borgo Propizio – Laini Taylor

SINTESI DEL LIBRO:
«Mah!»
Perplessità. Disapprovazione. Meraviglia.
Indifferentemente l’una o l’altra sensazione, oppure tutte e tre
assieme, sorgevano nei pochi che, passando di là, vedevano operai
al lavoro. Tuttavia, sebbene a Borgo Propizio non succedesse mai
nulla di nuovo, la cosa non destò particolare curiosità fra gli abitanti.
Piuttosto si diffuse un certo distacco, ovvero si eresse un muro di
freddezza intorno alla novità. Per chi avesse voluto saperlo, in realtà
non si trattava di operai al lavoro, ma di uno solo, singolo. Però uno
che racchiudeva in sé tutto lo scibile della muratura, della
piastrellatura, della carpenteria, dell’idraulica, dell’imbiancatura. Ma
questo, anche a causa della carta di giornale che celava l’interno, i
rari passanti non potevano immaginarlo.
La sola a conoscere qualcosa sul futuro dell’immobile era Mariolina,
responsabile dell’ufficio tributi del Comune e, dopo i vari
pensionamenti che si erano succeduti, ormai l’unica addetta.
Educata ai drastici dogmi della deontologia professionale, si sarebbe
tagliata la lingua piuttosto che rivelare a chicchessia la destinazione
del negozio. Proprio di quel negozio, poi. Figurarsi!
Eccezion fatta, naturalmente, per Marietta, la sorella con cui
divideva tutto, a cominciare dalla vecchia casa natia, dato che
entrambe in gioventù avevano perso qualche treno. Forse non lo
avevano neppure visto passare.
Non che fossero brutte, anche se fisicamente erano agli antipodi.
Come il papà, di pelle e capelli e occhi chiari, e lineamenti delicati,
Mariolina, la maggiore; bruna, occhi nocciola e tratti pronunciati
come la mamma, Marietta, la minore. Minuta l’una; robusta l’altra.
Grazie alle (sarebbe meglio dire per colpa delle) nonne – Maria
Angela Onorata, la materna; Maria Nora Ermelinda, la paterna – le
due sorelle erano state battezzate entrambe Maria con l’aggiunta,
poiché la loro adorata mamma amava i fiori, di un secondo nome
floreale: Viola per la prima e Dalia per la seconda. Dunque, Maria
Viola e Maria Dalia, nomi con cui però non furono mai chiamate.
La differenza d’età delle due sorelle era di nove mesi giusti giusti.
Non per un caso, ma per le impellenti e improcrastinabili esigenze
fisiche del papà, cui la mamma aveva dovuto giocoforza
sottomettersi, nonostante le parti intime le dolessero per il taglio del
primo parto. La probabilità, troppo spesso ventilata, che lui se ne
andasse, la terrorizzava.
Mariolina e Marietta furono ugualmente abbandonate
all’improvviso, alle soglie della pubertà, dal loro immaturo e
impetuoso genitore che si era involato dietro una seducente icona,
l’ennesima della sua collezione.
Capovolgendo i ruoli, nonostante fossero solo due bambine, da
quel momento si presero cura della madre con la sporadica
supervisione delle nonne: anche quella paterna, che un po’ di colpa
ce l’aveva pure lei.
In seguito all’umiliazione e alla vergogna, stordita per essere stata
abbandonata pur avendo sopportato il ruolo di orinatoio e cornuta in
geometrica progressione, la poverina, profondamente depressa, era
entrata nel già talamo nuziale dove, strato a strato, si era sfogliata
come una cipolla. Per uscirne solo vent’anni dopo, dentro una bara
ricoperta di dalie multicolori e bianche viole del pensiero, in
occasione dell’estremo viaggio verso il Paradiso. Sicuramente
Paradiso. Mariolina e Marietta ne erano più che certe.
La mamma aveva trasmesso grandi valori alle figlie. La verginità,
innanzi tutto. Poi l’onestà, il senso della pulizia e del dovere. E il
rispetto dei dieci comandamenti (restava in dubbio se in merito al
quarto dovessero onorare entrambi i genitori oppure il padre fosse
escluso, ma poco importava, non si sapeva che fine avesse fatto).
L’onore, ripeteva sempre, il decoro, la purezza e la moralità stavano
al di sopra di tutto. E il matrimonio era solo un grande inganno. Altro
non aveva da insegnare alle sue bambine, le quali si erano adeguate
al punto che, all’età di quarantacinque e quarantasei anni, erano
ancora come lei le aveva fatte.
Volenti o nolenti, anzi volenti o dolenti. Non tanto Marietta, ma
Mariolina era alquanto nolente e piuttosto dolente, e si sarebbe
certamente ribellata se la paura di causare un nuovo schianto alla
madre non l’avesse bloccata. Questo però le fece crescere dentro
una repressa voglia di ebbrezze sessuali.
A differenza di Mariolina, che con il diploma conseguito presso
l’istituto tecnico femminile si era impiegata in Comune salendo tutta
la scala della gavetta mentre sopportava gomitate a destra e a
manca, Marietta lavorava in casa. All’uncinetto. Eredità di una delle
nonne, quella materna, che le aveva insegnato l’arte, suggerendole
di metterla da parte. La ragazza, invece, ci aveva preso gusto e,
visto che era pure brava (mentre a scuola si era rivelata una capra,
arrivata a stento e per pietà degli insegnanti alla licenza media a
quindici anni), aveva iniziato a fare centrini che regalava, in segno di
ringraziamento, a tutte le signore che andavano in visita alla sua
depressa mamma per cercare, invano, di tirarle su il morale.
Invano, sì. La poverina era in uno stato tale di afflizione che nulla
serviva. Ma il piacere di vedersi offrire un buon tè aromatico o una
fumante tazza di cioccolata guarnita con panna, insieme a gustosi
biscottini di pasta frolla o una fetta di soffice torta casalinga,
arricchito dalla possibilità di scroccare un centrino – a scelta bianco,
rosa o écru – fatto a mano come non se ne trovano più, cara
Marietta, spingeva le signore del paese a fare sistematicamente la
doverosa visita.
A trasformare il lavoro all’uncinetto in vera e propria occupazione fu
l’improvvisa richiesta di una copertina per culla che una benestante
del paese, presto nonna, ordinò per la nipotina in arrivo, contro
pagamento. Marietta, inconsapevole del valore di quanto le era stato
richiesto, non voleva accettare ricompense. Per lei sarebbe bastato
che la signora le portasse il cotone. Ma la cliente (strano suono,
quella parola!) non solo pagò profumatamente, o forse appena il
giusto, le fece anche pervenire altre commissioni da parte di amiche
che abitavano fuori del paese. In poco tempo la voce si sparse e
Marietta, benché fosse molto svelta e dotata di una spiccata
manualità, quasi non riusciva a star dietro a tutto. Erano copriletti,
copricuscini, tovaglie, bomboniere, scialli, liseuse, tende e persino
eleganti presine da teiera, gli articoli ai quali lavorava nella
penombra della camera da letto materna, al capezzale della sempre
più inconsolabile malata, seduta su una sedia di paglia di Vienna che
aveva visto tempi migliori. Di gran lunga migliori.
Diverse creazioni di Marietta avevano fatto bella mostra nelle
vetrine del prestigioso negozio Fili fatati dal 1888 che si trovava sul
corso principale del vicino capoluogo. Una volta l’aveva addirittura
contattata uno stilista, uno affermato, che però la richiedeva fissa nel
suo atelier e lei, che avrebbe dovuto trasferirsi lontano, aveva
rifiutato. Non solo perché la mamma era ancora in vita (sarebbe
volata via proprio il mese successivo), non avrebbe mai lasciato
nemmeno l’amata sorella, la vecchia casa e il borgo dov’era nata e
cresciuta.
E dove stava invecchiando.
Purtroppo, dopo le vacche grasse arrivano sempre le vacche magre
e con gli anni la richiesta di lavori all’uncinetto, pezzi unici fatti a
mano, diminuì. I corredi non contemplavano più simili manufatti
perché le giovani spose preferivano moderni capi colorati da mettere
in lavatrice e, se possibile, da non stirare; come bomboniere per i
battesimi, le comunioni e i matrimoni, si sceglievano oggetti spesso
inutili nei negozi dei numerosi centri commerciali spuntati un po’
dovunque come funghi. Velenosi, però.
Era finita – o comunque era sempre più in declino – la generazione
di chi amava la tradizione. Il progresso, mostro ingordo, si stava
mangiando tutto. Dilagavano, inoltre, i notevolmente più economici
prodotti della Cina, la cui popolazione, si temeva, avrebbe invaso
tutto il mondo. Lo diceva anche la televisione, che Marietta seguiva
fedelmente.
Ecco perché, quando Mariolina, confidando nella riservatezza della
sorella, la informò del negozio, Marietta mostrò grande meraviglia.
«Mah!» esclamò, prima di rimuginare tra sé e sé, cercando di non
perdere i punti di un cruciale nodo d’amore per una tenda che
sarebbe stato impossibile non ammirare nella vetrina di Fili fatati dal
1888 e che di certo le avrebbe portato nuovo lavoro.
Ah, se le cose fossero andate diversamente, se la mamma non si
fosse ammalata, se ci fosse stata una spinta al turismo, se la
congiuntura economica (forse non c’entrava nulla, ma l’aveva sentita
in tivù e le sembrava ci stesse bene)... Se così, se cosà, avrebbe
potuto farlo lei, quel passo. Forse ci sarebbe voluto solo un po’ di
coraggio. E un piccolo capitale, restituibile alla banca.
Ah, no, la banca no! Nemmeno a parlarne! Quegli strozzini! Di
recente un poveraccio era stato portato al suicidio: gli avevano preso
perfino la casa. Senza cuore, le banche, meglio non averci nulla a
che fare! Però... vicino al Municipio, in pieno borgo. D’accordo, un
borgo decaduto. Tra un po’ sarebbe diventato un paese di anziani,
per non dire di vecchi. E di fantasmi.
L’appellativo Propizio, per una qualche derivazione latina, si riferiva
al fatto che i principi che lo avevano governato con gran fasto nei
secoli passati, copiando gli antichi usi romani, consultavano il volo
degli uccelli prima d’intraprendere qualcosa d’importante, e il
puntuale arrivo dei volatili da oriente era considerato propiziatorio.
Ma, da che Marietta aveva memoria, sarebbe stato meglio chiamarlo
Borgo Impropizio o Borgo Infausto, o come peggio si preferiva, tanto
il paese era vittima della superstizione. Anche se in effetti niente
aveva dimostrato che fosse vero. Qualche coincidenza, forse. Ma
proprio se ci si voleva credere. Fantasmi...
Mah!
E invece le sue creazioni... le sue creature... tutti pezzi unici fatti a
mano. Materiale pregiato.
Roba raffinata. Altro che latte e derivati.
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