Beat hippie yippie – Fernanda Pivano

SINTESI DEL LIBRO:
Neal Cassady e Jack Kerouac “ritornati puro spirito”, Allen
Ginsberg nomade con armonium, cimbali e quintali di posta in arrivo
tra un centro di meditazione tibetano e una dimostrazione di protesta
non violenta, Gregory Corso in giro per New York a fotografare con
una minox tutto il fotografabile e chissà perché a riposarsi nella sala
totocorse dell’inventore dei fili di plastica per stendere la biancheria,
William Burroughs a Londra con Brion Gysin a parlare per
l’ennesima volta della riduzione cinematografica di Naked Lunch,
Lawrence Ferlinghetti sopraffatto a San Francisco dalla sua fama di
poeta superbestseller e di editore superdavanguardia, Gary Snyder
nella solitudine della Sierra Nevada a veder crescere la sua
sofisticata reputazione di orientalista e la sua raffinata influenza di
poeta, Philip Whalen reduce a San Francisco dal Giappone e
attaccato a New York (picchetti di protesta per il prezzo delle sue
raccolte di poesie in edizioni “rilegate’’) da poeti che vivono adesso
la sua antica sorte di non venire, ostinatamente, pubblicati, Mike
McClure a San Francisco col suo profilo da medaglione preraffaellita
e i nervi provati dai processi, uno dietro l’altro, grane a non finire per
aver osato scoperchiare sui palcoscenici i sepolcri imbiancati del
sesso, Peter Orlovsky a New York dopo mesi di angoscia a
Bellevue, Speed Kills o dolci amici di quindici anni fa, non più
ragazzi, coi capelli appena un poco più sbiaditi, gli occhi appena un
poco più perplessi, le mani appena un poco più stanche.
Everybody grew a belly, tutti hanno messo su pancia, mi ha detto
Peter giorni fa, maggio 1972, all’aeroporto, con l’antica irriverenza
addolcita dalla nuova pietà; ma non giurerei troppo su questo tipo di
pancia dopo aver sentito le loro voci ridotte a calma sapiente e la
loro ansietà domata con ore di meditazione in un’America che
propone Nixon per il Premio Nobel per la Pace e rade al suolo in
questo o quel “programma di abbellimento” i teatri di gesta e gli
environments segreti di una proposta ostinata e irriducibile, araba
fenice risorta inalterata da napalm e fiamme di repressioni e
imbavagliamenti, purezza mentale immune nel Bardo da avidità e
fagocitamenti dei Fantasmi Affamati, speranza sempre più attonita
nel mondo drogato di capelli corti, biro nel taschino della camicia,
scatti di stipendio, automobili automobili automobili per la distruzione
del pianeta e delle anime del pianeta.
Where are the flowers gone, dove sono finiti i fiori di questo
Underground il cui nome è diventato insopportabile per l’uso e
l’abuso di quelli che nei fiori non hanno creduto; ma chi nei fiori ha
creduto continua a vederli, nelle consapevolezze rinnovate o rinate
di leaders partitici che hanno cancellato la violenza – profetica o
d’accatto – in ore quotidiane di meditazione verso la calma, o nelle
consapevolezze rinnovate o rinate di impieghi che cominciano a
mettere in dubbio l’Assoluto Supertrascendente della Carriera con
tutte le maiuscole, o nelle consapevolezze rinnovate o rinate di
studenti che hanno rinunciato all’attivismo politico per rientrare nella
lettura mistica della maturazione dell’io, o forse si dice per
raggiungere la totalità dell’io, è così?
La Totalità dell’Io ultima Tule forse dalle origini dell’uomo, certo da
vent’anni nella proposta di una frangia pacifica superminoritaria
spesso non capita – non voluta capire – in un Nuovo Stile di Vita
destinato a diventare una Nuova Cultura, inaccessibile per alcuni,
accusatore per molti, scomodo per troppi; ora che tutti sono convinti
di sapere tutto, l’ultima Tule proposta vent’anni fa come autodifesa
dalla burocrazia e dalla competizione, dalla violenza e dall’abulia,
dall’alienazione e dal materialismo è appannata nel tempo, capelli
lunghi-esperanto del rock-nomadismo-non-consumismo-tribalismo-
comunitarismo-internazionalismo-interrazzialismo-antimilitarismodisobbedienza civile non violenta, e dunque marijuana, oh questa
marijuana che ha visto in prigione tanti ragazzi sognanti, giudicati da
spacciatori di dogmi in attesa di una legalizzazione sempre più
imminente, con l’imminenza del dubbio per la severità dei dogmi e
l’imminenza dell’orrore per la severità delle condanne, tutto nel nome
di una Società che permette l’autodistruzione alcoolica e la
distruzione nucleare, l’annientamento psichico dell’alienazione e
l’automatismo morale delle abitudini, l’inquinamento del pianeta e la
disintegrazione ecologica dell’aria, della terra, delle acque.
Forse lì sono finiti i fiori, miei dolci amici di quindici anni fa. Chi
sarà a farli rinascere al di là dell’ignoranza?
Alcool e Droga:
protesta e disubbidienza civile
È stato un alchimista arabo, il cui nome avventuroso Jabir Ibn
Haiyan è stato ridotto in Occidente in quello più addomesticato di
Geber, a distillare per la prima volta l’alcool, più o meno ai tempi di
Carlo Magno: per questo la parola deriva dall’arabo, forse da Alkuhl
(che vuol dire qualsiasi sostanza ridotta in polvere, proprio come il
cosmetico nero per gli occhi) o forse da Alghul (che significa “spirito
cattivo”). Poi, nel 1200, un professore dell’Università di Montpellier lo
fece diventare la pietra filosofale, la panacea universale,
chiamandolo “l’acqua della vita” (era più o meno il nostro brandy,
una parola che deriva dall’olandese e significa “vino bruciato” o
“distillato”); e quattro secoli dopo Franciscus Sylvius ne aumentò la
distillazione: nel 1672, prima della sua morte, la sua “aqua vitae” in
Olanda si chiamava già junever (in attesa che gli Inglesi lo
chiamassero “gin”) e in Russia si chiamava vodka, o “piccola acqua”.
Ma questa è, molto all’ingrosso, la nascita dell’alcool moderno.
Prima di venire distillato, o sia pure quando veniva distillato con
minore raffinatezza, l’alcool aveva già una lunga vita, una vita di 200
milioni di anni: pare che sia “comparso” verso la fine dell’Era
Paleozoica, prima in forma di idromele, che si ricavava dal miele
fermentato, poi in forma di vino e infine in forma di birra, quando
invece di far fermentare l’uva si fece fermentare il grano. Durante
l’Età della Pietra a non conoscere l’uso dell’alcool erano soltanto i
popoli delle zone polari, gli aborigeni australiani e gli abitanti della
Terra del Fuoco; o così affermano gli studiosi dell’argomento.
Nell’Arca di Noè insieme all’olio vennero immagazzinati birra e vino
(di Noè si dice nella Bibbia che beveva e si ubriacava); una tavoletta
di Ninive del 2300 A.C. parla di una Bit Sikari o osteria; i Polinesiani
usavano (e usano tutt’ora) la Kava, prodotta dalla fermentazione
delle radici di una specie di pepe; nel 650 A.C. il Sbu Ching o
Canone di Storia Cinese disse che non si può fare a meno del Kiu,
una specie di birra fatta di miglio o riso. Anche dopo la raffinatezza
della distillazione araba continuò l’uso di varie piante soltanto
fermentate: i Messicani di Cortez nel 1518 bevevano il vino Pulque,
ricavato dalla fermentazione di una specie di agave chiamata
Maguey (quello che, distillato, produce la tequila e la cui
preparazione era circondata da rituali e tabù: per quattro giorni prima
non si dovevano avere rapporti sessuali con una donna, e questa
proibizione valeva anche fra i Masai del Kenya quando preparavano
il loro vino di miele); i Mandigos del Sudan nel 1795 usavano già una
specie di birra fermentata dal frumento; gli Indiani d’America all’inizio
dell’Ottocento usavano il Toddy di palma (un estratto di olio di cocco
che comincia a diventare intossicante dopo una giornata di
fermentazione spontanea). Ai tempi dei Romani l’alcool era così
diffuso che Plinio il Vecchio discusse in un libro le varie qualità di vini
e di idromeli esistenti concludendo che in nessuna parte del mondo
l’ubriachezza era in pericolo.
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