Bambole perverse – Mariuccia Ciotta

SINTESI DEL LIBRO:
Piccola donna
Mary Pickford, il potere dell’innocenza
Capelli castani, trecce o una cascata di riccioli. Veste con gonne a balze,
grembiuli di flanella a quadrei, collei bianchi, fiocchi, fermagli, volant,
orecchini minuscoli, cappelli fioriti. Beve cocktail analcolici a base di
ginger ale.
La baby forever, caduta dalla carrozzella quando la balia guardava da
un’altra parte, torna in ogni stagione per far ruggire la specie delle piccole
rivoluzionarie, catalogate imprudentemente come innocue bambine.
Monelle micidiali, fanno saltare convenzioni e canoni, sgretolano
stereotipi e soffiano l’eccentrico e il folle sui generi cinematografici e
sessuali.
Oggi si chiama Emma Watson
Mary, Frances, Shirley, Margaret, Deanna, Hayley, Sandra… si chiamavano
così nel cinema del secolo scorso, ma adesso il suo nome è Emma. Emma
Watson, l’allieva più intelligente e diligente della (immaginaria) Scuola di
magia e stregoneria di Hogwarts, Scozia, che ha solo undici anni sul set
del primo Harry Poer e la pietra filosofale (Harry Poer and the
Philosopher’s Stone, 2001) e ventuno nell’ultimo capitolo della saga, Harry
Poer e i Doni della Morte (Harry Poer and the Deathly Hallows, 2011).
Stesso stupore, aria da alchimista bambina che studia metamorfosi,
apparizioni e fenomeni non differenti dalle prime scoperte infantili,
Hermione Granger.
Emma è la Mary Pickford di oggi, la pioniera degli anni Dieci e Venti
che conservò se stessa bambina dall’esordio diciasseenne fino all’età di
trentasee anni, a fine carriera. Emma è un’aivista sul fronte dei dirii
civili e per la parità di genere (nel 2014 ha promosso la campagna
HeForShe), ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite. Modella
per “Teen Vogue”, ha coniato un marchio di moda “equo e solidale”, e non
tollera ipocrisie e moralismi. “Non vedo cosa c’entrino le mie tee con il
mio impegno politico,” rispose alle militanti che l’aaccavano per una sua
foto a seno semiscoperto sulla copertina di “Vanity Fair”. “Il femminismo
non è un bastone con il quale baere altre donne, ma riguarda la libertà, la
liberazione e l’uguaglianza.”
Hermione Granger nei primi anni di Harry Poer ha un po’ la funzione
di Shirley Temple (la discepola anni Trenta di Mary Pickford) disegnata
come una pupaola riccioluta per la gioia degli adulti, una bambina
all’apparenza dolcificata tua mossee, il massimo della donnina
decorativa, quando invece la piccola peste elerizzava l’America della
Grande crisi, districava intrighi criminali, convertiva vecchiacci avari alla
Scrooge, impediva il suicidio di artisti disoccupati, e si faceva beffe perfino
dei pedofili. Shirley condivideva con Mary ed Emma l’impegno
diplomatico (sarà delegata dell’ONU) ed era una perfea “prima della
classe” con il suo altezzoso ditino puntato.
Anche Hermione/Emma Watson è una “saputella” che ostenta
sicurezza e superiorità, ma lo fa solo perché è insicura di sé come tui i
“saggi e gli audaci”, secondo la sua creatrice, J.K. Rowling. Coraggiosa,
leale, nobile d’animo e con una “fiera coscienza politica”, Hermione è in
simbiosi con l’arice che l’interpreta e ne perfeziona l’immagine. Occhi
marroni, folti capelli castani, denti davanti piuosto grandi, Hermione è la
forza propulsiva del trio, strea tra il goffo Ron Weasley e il predestinato
Harry. Per i suoi esperimenti magici usa una bacchea di legno di vite, il
suo “patronus” è una lontra, simbolo di curiosità e potere femminile.
Oltre a uno sguardo stupefao, chi vuole imitarla, dovrà indossare:
cravaa a strisce oblique giallo-rosse; maglioncino con decorazioni a
collana; T-shirt bianche, rosse, a righe; jeans; felpa arancione con
cappuccio; magliee sovrapposte; abito con volant rosa trasparenti oppure
viola con balze di chiffon, ma anche bianco stampato a fiori e foglie;
maniche corte a campana. Un abbigliamento anti Lolita uscito dalle catene
americane Anthropologie e Banana Republic dove però non vendono
ancora la “borsa di Hermione”, stile Mary Poppins, capace di contenere più
di un intero armadio, cui basta pronunciare la formula “Adduco maxima”
con l’effeo di trasformarla in “estendibile-irriconoscibile”.
Nella versione live di La bella e la bestia (Beauty and the Beast, 2017),
Emma ha già compiuto ventisee anni, eppure sembra la copia del cartoon
Disney, una teenager amante dei libri e indisponibile al bellimbusto del
villaggio Gaston. “ella ragazza così strana,” cantano in coro al suo
passaggio, e in effei Emma si misura con la mutazione degli oggei del
castello in un musical di sgabelli-cane, piumini-donna, tazze-bambini…
nell’eco surreale della versione di Jean Cocteau con le braccia-candelabro
protese nel buio. In Bling Ring (e Bling Ring, 2013) di Sofia Coppola fa la
ladra di abiti e gioielli nelle ville di lusso delle dive di Bel Air e preferisce
allo stile sciantosa di Paris Hilton quello sofferto di Lindsay Lohan,
modella a tre anni.
Un vestituccio scamiciato azzurro, l’ampio abito giallo da sera per il
ballo fatale con la Bestia, Bella resiste allo stereotipo della “dolce cara
piccina” e rivela un certo fremito sensuale. Emma Watson, ventitré anni,
risulta l’arice più sexy del mondo in un sondaggio britannico, dove bae
Scarle Johansson e Jennifer Lawrence. È “testurbante”, sentenzia il
“cappello parlante” di Harry Poer, non si sa in quale classe smistarla,
troppo creativa, brillante e micidiale Hermione con i suoi giochi pericolosi,
polvere volante, pietra della resurrezione, calice di fuoco.
Mary Pickford, la fidanzata d’America
Non aveva un nome, era solo “la ragazza della Biograph”. E diventerà la
prima diva di Hollywood, passata alla storia come “la fidanzata d’America”
dai riccioli d’oro, seduta su sedie rese giganti in modo che non toccasse
terra con i piedi, piccola anche quando aveva trent’anni, icona di un’eterna
infanzia. Mary Pickford è la figura che nei primi anni del ventesimo secolo
tragheò l’ideale vioriano verso la working girl, fuori dai saloi e
dall’immaginario borghese. Eppure resta soo accusa per la sua immagine
antimoderna, prigioniera di un’età indecifrabile e inamovibile.
Personalità poliedrica, grande forza rinnovatrice della scena e dello
schermo americani, ancora subalterni alla tradizione leeraria e teatrale
europea, Pickford inizia lo smontaggio sistematico compiuto dal cinema
sugli archetipi femminili, primo segno di una rivolta nascosta da busti e
ricami.
Non solo scoprì l’America, il West, la frontiera, convertì rudi cowboy,
insegnò l’etica a sceriffi sanguinari, sventò rapine, annientò trafficanti di
bambini, ma coniò un metodo di recitazione “naturale” senza l’enfasi e le
pose del palcoscenico, contribuì a ridurre le didascalie ridondanti del film
muto e fondò, dopo la Famous Players Company, la prima compagnia
indipendente di artisti contro le major, ma altreanto potente, la United
Artists.
Pioniera di qua e di là dello schermo, Mary, già una veterana del teatro
di strada a oo anni, fiancheggiò le suffragee, si circondò di collaboratori
di prim’ordine, scelse registi, fiutò talenti ovunque, scrisse copioni, e si
distinse per l’impegno in diverse baaglie sociali. Uno dei suoi famosi
riccioli d’oro fu bauto all’asta per 15.000 dollari a favore della raccolta
fondi durante la Grande guerra contro gli assolutismi europei, e in tour di
speacoli-comizi arrivò a vendere 15 milioni di buoni del tesoro davanti a
Wall Street assediata da migliaia di persone. L’esercito la baezzò “Lile
Sister” e come ringraziamento la nominò “colonnello onorario”.
Considerata ostaggio di una visione antiquata, modello virginale per le
riviste di moda, è stata relegata in fondo alla lista delle “caive maestre”.
“Il suo mito era un insulto: detestando l’età e reprimendo la sessualità
aveva creato un fenomeno che negava, rendendolo ripugnante, tuo ciò
che era inevitabile aributo della femminilità” (Marjorie Rosen in Popcorn
Venus). L’ingenua sciocca “non avrebbe mai alterato l’ordine sociale
civeando con immoralità e trasudando sessualità. Che, in una parola, non
si sarebbe mai trasformata in un’autentica donna”.
L’irritazione del suo sorarsi alla categoria “autentica donna” dea la
formula che ribalta il senso del personaggio: “Mary Pickford venne senza
dubbio aiutata a diventare diva dall’idolatria per la ragazzina prepubere
che è una persistente, e a volte preoccupante, tendenza del sentimento
popolare vioriano,” scrive l’influente critico britannico Alexander Walker
in e Celluloid Sacrifice, senza spiegare come mai “i suoi fan andavano
ricercati tra la classe lavoratrice”. O perché il suo stile venisse studiato,
adorato e reincorporato oltreoceano, nel decennio delle suffragee in loa,
da tante “sosia”. Alexia Ventura in Spagna (che però era una bambina vera
in La secta de los misteriosos, 1917), la svedese Sigrid Holmquist, il cui
esordio americano del 1921 fu direo da Frances Marion (Just around the
Corner) e la tedesca Ossi Oswalda, non a caso spesso al fianco, in
Germania, di Ernst Lubitsch.
In Italia si contrappose alle dannunziane drastiche, perennemente
avvinghiate alle tende e alle loro passioni fatali floreali – “cuori infranti e
robusti divani”, mani a dita aperte soo il mento –, la più colta e
intelligente tra le nostre dive del muto, la nobile romana Maria Jacobini
(1892-1944) interprete nel 1913 di un primo biopic su Giovanna d’Arco
che, nonostante la strea parentela con papa Benedeo XV (il pacifista che
santificò Giovanna d’Arco e istituì nel 1915 la Giornata mondiale del
Migrante e del Rifugiato), venne equiparata da qualche critico dell’epoca
addiriura a Mary, la “fidanzata di tui”. O in Francia ad Andrée Brabant
(1901-1989), esordio a quindici anni, direa da Abel Gance, Germaine
Dulac e Julien Duvivier, molti amanti, soprauo tra re e uomini politici,
un lungo soggiorno in Egio, nessun marito, senza figli, e un cane di nome
Totti.
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