Baci immortali – Laini Taylor

SINTESI DEL LIBRO:
C'è un tipo particolare di ragazza
che i goblin desiderano
ardentemente. Attraversando il
cortile di una scuola superiore ci
vuole poco a individuarla: quella no,
quella nemmeno... quella. La
ragazza carina e disinvolta col
tatuaggio a forma di farfalla in un
punto nascosto, seduta sulle
ginocchia del suo ragazzo? No, non
è lei. La ragazza che guarda quella
carina seduta sulle ginocchia del suo
ragazzo? Sì.
Quella.
I goblin vogliono le ragazze che
sognano così tanto di essere carine,
che il loro desiderio lascia una scia
palpabile, un odore che un goblin è
in grado di seguire come lo squalo
segue il tenue profumo del sangue.
Le ragazze con gli occhi smaniosi
che ogni notte pregano di
risvegliarsi nel corpo di
qualcun'altra. Le ragazze smaniose,
insoddisfatte, mai baciate.
Come Kizzy.
I
Kizzy
La famiglia di Kizzy viveva nella
strana casa fuori città con tutte
quelle incudini nel cortile e il
caprone pieno di zecche che
picchiava ferocemente contro la
staccionata ogni volta che passava
qualcuno. Il postino si rifiutava di
arrivare fino alla porta, il che non
era comunque un problema, perché
nessuno spediva loro mai niente.
Non ricevevano mai neppure le
offerte per le carte di credito o le
stampe pubblicitarie come la gente
normale.
La famiglia di Kizzy non era
normale.
Non avevano la Tv, ma conoscevano
centinaia di canzoni, tutte in una
lingua che gli insegnanti di Kizzy
non avevano mai sentito, e si
sedevano in cortile su sedie
traballanti e le cantavano insieme, le
voci malinconiche come quelle di
lupi che ululano alla luna. C'erano
un mucchio di zii pelosi e dagli
occhi azzurri che strimpellavano
vecchie e bellissime chitarre, e
robuste zie che essiccavano i fiori
per fumarli nelle loro pipe. Anche i
cugini erano numerosi. Piccoli e
lesti, erano sempre lì a correre tra le
gonne delle donne o a schivare il
caprone come minuscoli e vocianti
toreri. La madre di Kizzy portava un
fazzoletto in testa come una
contadina di un film straniero e suo
padre aveva perso due dita per colpa
di un lupo, laggiù nella Madrepatria.
L'aveva ucciso per riprendersi le sue
dita e da allora teneva gli ossicini in
un sacchetto intorno al collo,
insieme con i denti del lupo che le
aveva ingoiate.
Le donne della famiglia si
occupavano del giardino e gli
uomini cacciavano qualunque cosa
di cui fosse stagione (o anche di cui
non lo fosse). E facevano cose, nei
loro traballanti capanni di caccia
sparsi qua e là nei boschi, che la
maggior parte dei bambini di città
avrebbe potuto vedere solo nei
documentari in Tv o magari in una
missione in un paese del terzo
mondo. Cose che avevano a che fare
con accette e interiora, e con
un'intima conoscenza di come
trasformare un animale in un pasto.
Kizzy odiava tutto questo e in parte
odiava anche se stessa, per
associazione. Odiava gli specchi,
odiava le proprie caviglie, odiava i
propri capelli. Avrebbe voluto
sgusciare fuori dalla propria vita
come fosse stata una conchiglia da
abbandonare sulla spiaggia per poi
andarsene via, nuda. Nessun altro in
tutto il continente nord-americano
aveva una vita tanto stupida quanto
la sua, ne era certa.
Oltre alle incudini e al caprone, in
cortile c'era tutta una serie di gatti
senza nome, sempre lì ad aggirarsi
furtivi lungo i margini delle cose, e
poi c'erano i polli, un pavone che
gridava «Aaaiuto!» come fanno tutti
i pavoni e auto senza pneumatici su
blocchi di cemento. I fantasmi
facevano chilometri per venire lì
a sussurrare, a lamentarsi e a
nutrirsi, e a volte degli sconosciuti
passavano di là in grosse auto
malridotte piene di tutti i loro averi e
restavano per qualche giorno a
suonare l'armonica, a tracannare
whisky fatto in casa e a cantare
ballate i cui versi non avevano mai
visto un pezzo di carta, ma vivevano
solo nel roco gracchiare delle loro
voci. A Kizzy i fantasmi piacevano,
ma gli sconosciuti no, perché suo
padre la costringeva a cedere loro la
sua stanza e quando se ne andavano
c'era sempre una gran puzza di
piedi.
Kizzy aveva sedici anni. Era una
ragazza intelligente ma priva di
entusiasmo, studentessa del terzo
anno alla scuola superiore pubblica,
che si divertiva a definire «il
Collegio per Cannibali di San
Butterato».
San Butterato era il soprannome che
aveva affibbiato al preside dal volto
segnato dall'acne, per il quale ogni
scusa era buona per parlare del
tempo trascorso tra i cannibali
quando era missionario nel Borneo,
dove da giovane aveva sopportato
parassiti e funghi al servizio del
Signore. Le sue labbra sottili lo
diventavano ancora di più ogni volta
che Kizzy veniva portata nel suo
ufficio per aver marinato la scuola, e
lei provava un piacere perverso a
inventare immaginarie feste
religiose per giustificare le sue
assenze. Sapeva che il preside
avrebbe preferito di gran lunga
stringere i denti e bersi le sue storie
piuttosto che chiamare i suoi
genitori, che gridavano dentro la
cornetta del telefono come fosse
stato un aggeggio futuristico e
lanciavano esclamazioni nella loro
lingua che Kizzy era quasi riuscita a
far passare per maledizioni gitane.
Ancor più della maggioranza degli
adolescenti, Kizzy odiava essere
vista in pubblico con un qualunque
membro della propria famiglia, e
preferiva andare a scuola a piedi
anche nei giorni di gelida pioggia o
sotto le rare nevicate. Congelare era
molto meglio dei vecchi catorci
arrugginiti e degli zii che si
grattavano la pancia. Kizzy era
tremendamente suscettibile alle
umiliazioni: facile da mettere in
imbarazzo, difficilmente però
provava disgusto per qualcosa. A
casa sbrigava tutti i lavori domestici
più sgradevoli che avrebbero dovuto
essere scomparsi ai Bei Tempi
Andati, come preparare lo strutto o
tagliare le teste
ai polli.
Beveva troppo caffè, fumava, aveva
una voce stupenda quando veniva
convinta a usarla per cantare e a
scuola le era stato appioppato un
soprannome terribile che temeva si
sarebbe portata dietro per tutta la
vita. Aveva due amiche: Evie, che
era grassa, e Cactus, che era un
tipetto tutto sarcasmo e che in realtà
non si chiamava Cactus, ma Mary.
«Ma sta' zitta, Kizzy. Tu non hai mai
tagliato la testa a un cigno in vita
tua» dichiarò Evie mentre le ragazze
tornavano a casa dalla scuola un
venerdì pomeriggio, fumando.
«E invece sì» replicò Kizzy. «Ci
serviva una delle
sue ali da mettere nella bara della
nonna.»
«Uh! Oddio! Che schifo!»
«Ma per favore! Quel cigno era
davvero un gran bastardo.»
«Sul serio gli hai tagliato la testa? È
una cosa troppo crudele...»
«Crudele? Taglio le teste ai polli
continuamente. Non è crudele. È,
tipo... cibo. Tu lo sapevi che il cibo
non nasce avvolto nella plastica,
vero Evie?»
«Cioè, te lo sei mangiato?! Glielo
dico a Mick Crespain che ti mangi i
cigni!»
«Non me lo sono mangiato! E ti ci
vedo proprio ad andare da Mick
Crespain a parlargli delle mie
abitudini alimentari... Lui farebbe
"Ehi, e tu chi sei?"»
«No, farebbe "Kizzy chi?"»
«Guarda che lo sa come mi chiamo!
Sto seduta proprio dietro di lui a
Trigonometria. Mi sono imparata a
memoria la sua nuca... Potrei
riconoscerla in un confronto di
nuche alla polizia!»
Cactus nel frattempo stava espirando
lunghi pennacchi di fumo, ma a quel
punto si interruppe e disse: «Non me
ne frega una mazza della nuca di
Crespain. Quello che voglio sapere
è: perché dovresti mettere un'ala di
cigno nella bara di tua nonna?».
Dal tono di Kizzy sembrava che la
risposta fosse ovvia. «Così la sua
anima può volare via, no?»
Cactus rise e si strozzò col fumo. «E
che ci hai fatto con l'altra ala?»
«La stiamo conservando per il
prossimo che muore» disse Kizzy,
ridendo anche lei. «Le ali dei cigni
non crescono sugli alberi, sai?
Oppure» aggiunse, lanciando
un'occhiata a Evie «magari non lo
sai».
«Magari non m'importa.»
Cactus stava ancora tossendo. Riuscì
a dire: «Dio, Kizzy. Se avessi una
famiglia di schizzati come la tua, mi
prenderei tipo una benda da mettere
sull'occhio e scriverei libri patetici
sulla mia infanzia, e poi andrei in Tv
a raccontare di come ho dovuto
decapitare un cigno per mettere la
sua ala nella bara di mia nonna».
«Così che la sua anima potesse
volare» aggiunse Evie.
«Ovviamente.»
«Ehi, dateci un taglio!» esclamò
Kizzy, colpendole debolmente con i
pugni. «Cactus, puoi prenderti la
mia famiglia quando vuoi. Prenditeli
pure tutti. E dammi la tua cara
mammina col suo bel taglio di
capelli e il tuo vecchio che russa sul
divano e niente da decapitare, mai
più. Ti lascio in eredità la mia
ascia.»
«Grazie. Accetto la tua generosa
offerta» disse Cactus in tono
formale. «Dubito che potrei uccidere
un cigno, però. Neppure se fosse un
grosso bastardo. Non ho la rabbia
che hai dentro tu, Kiz.
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