Andreotti – Il Papa nero – Antibiografia del divo Giulio – Michele Gambino

SINTESI DEL LIBRO:
Tutti coloro che per lavoro o passione si sono occupati di misteri
italiani a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, hanno provato
ad un certo punto la vertiginosa sensazione di trovarsi sull’orlo di un
buco nero, una materia così spaventosa da poter essere descritta
solo a costo di correre il rischio di apparire folli. Dentro quel buco, ciò
che altrove può essere solo immaginato si manifesta con evidenza:
la politica come lotta per il potere tra oligarchie massoniche, il
crimine come strumento estremo della politica, il male camuffato
dentro il doppiopetto, la toga, la tonaca o l’uniforme carica di
stellette, il denaro sporco mescolato in modo inestricabile a quello
pulito, una trama di sangue e soldi intessuta senza riposo dentro
palazzi di specchiata reputazione. Un sistema di gerarchie
capovolte, dove personaggi oscuri esercitano poteri di indirizzo e di
veto su uomini all’apparenza mille volte più influenti, dove i centri del
potere visibile sono eterodiretti da luoghi periferici e nascosti, e il
potere visibile, a sua volta, si rivolge in caso di necessità a strutture
segrete che si attivano a comando. Chi ha gli strumenti giusti, può
vedere nel corso dei decenni una casta di highlanders muoversi
dentro un’architettura di stanze comunicanti in cui a vari livelli e con
compiti diversi tutti si dedicano ad officiare un solo rito, quello del
potere “con ogni mezzo”.
In un bel libro scritto con Saverio Lodato, Il ritorno del principe,
Roberto Scarpinato, componente del pool antimafia di Palermo, ha
raccontato che Giovanni Falcone teneva in ufficio un televisore
sempre sintonizzato sul Televideo: “Talora, al comparire di una
notizia apparentemente priva di ogni connessione col suo lavoro di
giudice, si faceva pensoso. Era come se quell’evento – la
quotazione in Borsa di una nuova società, la nomina di un ministro –
andasse velocemente decodificato per comprenderne la cifra
segreta e per calcolarne le possibili reazioni a catena nel quadro
complessivo della realtà”.
Falcone cerca di prevedere le mosse delle “menti raffinatissime”
di cui lui stesso ha parlato dopo il primo fallito attentato all’Addaura
del giugno 1989, perché possiede occhiali che gli permettono di
leggere la realtà al di là delle apparenze; lo stesso vale per Paolo
Borsellino, che quegli occhiali li usa per prevedere la propria morte
dopo quella dell’amico: quei drammatici segnali Borsellino li coglie
non tra i mafiosi, ma nei corridoi del ministero dell’Interno, dove vede
muoversi ombre che lo inquietano. E d’altra parte non è un mafioso
a portare via l’agenda rossa in cui Borsellino ha scritto quel che
vede, ma un insospettabile “comandato” in quel luogo di morte. Anni
d’indagine hanno solo accertato che quell’uomo esiste, ma non
come si chiami. La sua figura ricorda sinistramente quel colonnello
del Sismi che molti anni prima, 1978, si trova a due passi dal luogo
in cui Moro viene sequestrato e la sua scorta massacrata. Che ci
faceva, chiedono i magistrati? Andavo a pranzo da un amico, è la
risposta. Solo che erano le 9 del mattino, e l’amico non era stato
informato. Questo episodio s’inserisce nella storia di una certa
branca dei servizi segreti di cui più avanti parleremo a fondo. Qui lo
cito solo per ricordare che ogni tragica vicenda italiana ha come
corollario una quota d’indicibile, che ha radici nella parte non emersa
del potere.
Non si contano le volte in cui noi giornalisti detti “pistaioli” ci siamo
imbattuti – come nei film – nelle storie di uomini coraggiosi o
fortunati che poco prima di essere uccisi confidano a parenti o intimi
amici di aver scoperto qualcosa di eccezionalmente importante, e di
temere per la propria vita. Nessuno di loro, riferiscono i depositari
delle confidenze, pensa a criminali comuni, quando pronuncia quelle
frasi. Si tratta di persone che hanno visto dentro il buco nero
qualcosa di nitido e afferrabile, con un’acutezza dello sguardo che è
costata loro la vita. È ciò che accade a Borsellino, quando il giorno
prima di essere ucciso, passeggiando con la moglie sul lungomare di
Carini, le confida: “Non sarà la mafia ad uccidermi, di loro non ho
paura. Saranno i miei colleghi e altri a permettere che accada”.
Chi si trova, ad un certo punto della propria esistenza, ad aver
acquisito anche solo in parte la capacità di guardare nel buco nero,
si trova d’improvviso in una surreale condizione: depositario di fronte
ai fatti di uno speciale sguardo in grado di decodificarli e coglierne i
nessi segreti, e tuttavia condannato a non poter condividere se non
in piccola parte le conoscenze acquisite. Concorrono all’isolamento
molti umani motivi: la paura di non essere creduti, quella peggiore di
essere ammazzati; o semplicemente l’incapacità di dare dello
sfuggente e inverosimile buco nero una lettura unitaria e
comprensibile, accettabile nonostante la sua enormità.
Si resta quindi soli in una terra di nessuno, e si avverte l’istintiva
pulsione a ritrarsi dall’orlo del buco, per ricongiungersi agli altri,
tornare a calcare un terreno più solido e rassicurante. È allora che i
sacerdoti del mistero vincono: quando quel che nascondono non è
più invisibile, ma viceversa tanto accecante da rendere impossibile il
guardarlo. Quando le cose vere entrano nella categoria
dell’inverosimile e non possono essere credute.
L’Italia è tra i Paesi occidentali quello che più di ogni altro ha
lasciato crescere al suo interno una speciale geografia del mistero:
ragioni sociopolitiche e geografiche hanno reso facile più che altrove
lo sviluppo di mafie e consorterie, favorite e coperte da apparati dello
Stato in cui la selezione del personale si è stratificata per fedeltà,
caste e interessi particolari.
L’esercito delle tarme
L’immagine usata e abusata è quella del cancro che aggredisce
la parte sana dell’organismo Paese. A chi scrive sembra che la
verità sia diversa e per certi versi peggiore: il cancro è un corpo
estraneo rispetto al quale entro un certo lasso di tempo un
organismo si libera o soccombe; nel caso italiano, invece, il Paese
visibile e quello segreto convivono ormai da molti decenni, avendo
attraversato insieme modernizzazioni, sconvolgimenti, il collasso di
intere classi politiche e il passaggio da una Repubblica all’altra.
Allora forse la metafora più appropriata per avvicinare i profani a ciò
di cui stiamo parlando è quella di un esercito di tarme che
aggredisce un armadio e lo divora dall’interno, lentamente,
invisibilmente. Vista da fuori la struttura appare intatta, ma il suo
interno svuotato e indebolito scricchiola e s’incrina, al punto che una
sola spallata potrebbe farla crollare. Quella spallata, in certi momenti
strategicamente minacciata, temuta, evocata, non è mai arrivata,
perché sarebbe la fine dell’armadio, ma anche delle tarme.
In Italia molte tracce del lavorio tarmesco sono visibili ad occhio
nudo: negli Usa i dietrologi si appassionano ancora senza prove
dietro un episodio del 1963, l’omicidio Kennedy, o si arrampicano
sugli specchi per dimostrare che ci fu una cospirazione dietro
l’attacco dell’11 settembre; da noi per 13 anni ha funzionato una
apposita commissione: tu telefonavi agli uffici di San Macuto e una
voce squillante rispondeva “Stragi...?”. I componenti di
quell’organismo accumularono una mole incredibile di materali, ma
non produssero nessun documento finale, perché avrebbero dovuto
sviluppare concetti incompatibili con l’esistenza stessa della
Repubblica.
La verità è che questo Paese ha accumulato una così vasta
processione di misteri da dover ragionare per categorie o addirittura
per fattispecie giuridiche: i delitti di Stato, gli omicidi eccellenti, la
strategia della tensione, la strage di Stato, lo Stato parallelo, i servizi
deviati, il concorso esterno, i colletti bianchi, persino le logge segrete
denominate per ordine di apparizione, P2, P3, P4… Per ultima è
arrivata la trattativa con la mafia, condotta da alti ufficiali e sostenuta
da coloro che, avendo brigato con le cosche, ne hanno temuto la
vendetta. La geografia dei misteri italiani è così vasta e articolata da
coincidere quasi – come la fantastica mappa del mondo immaginata
da Borges – con il Paese stesso.
Non si capisce nulla delle trame italiane se non si parte da un
semplice dato, noto ai più ma che forse è utile ricordare per i più
giovani: l’Italia è stato il Paese europeo al di qua della cortina di ferro
che dal dopoguerra fino al crollo del muro ha avuto il più importante
e più organizzato partito comunista dell’Occidente. L’esigenza degli
“atlantisti” di impedire che i “rossi” raggiungessero il potere entrando
nell’orbita sovietica ha segnato la storia del Paese: dalla strage di
Portella della Ginestra a piazza Fontana, dalla costante minaccia dei
golpe alla P2, dall’uso “politico” della mafia alla creazione delle varie
“Gladio” più o meno presentabili in società, la violenza, o lo
spauracchio della violenza, sono stati alcuni degli strumenti della
lotta politica finalizzata a mantenere il Paese sotto l’ombrello della
Nato.
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