Alla fine di ogni cosa – Mauro Garofalo

SINTESI DEL LIBRO:
Hannover, Associazione sportiva dei lavoratori BC Sparta Linden, luglio
1929
Si stava allenando al sacco quando i due uomini erano entrati. Teneva
l’asciugamano in testa quasi fosse un cappuccio.
Il sacco oscillava a ogni diretto. I pantaloncini gialli che aveva indosso
sembravano di una taglia più larghi, sulla maglietta una chiazza di sudore al
centro del petto.
Anche gli altri pugili si allenavano eppure il ragazzo nell’ombra non li
vedeva, non li sentiva. Rimaneva nascosto dal pilone centrale.
Per un istante soltanto sembrò scomparire, poi d’improvviso la figura
riemerse dal buio. Scartò a destra con una torsione, il pugno che partiva
allineato alla spalla.
Il secondo dei due uomini, quello che stava dietro, si fermò. Fissò bene
quel pugile che continuava a colpire il vuoto di fronte a sé neanche fosse un
muro da abbattere. Colpire. E ancora colpire. Colpire cosa, si chiese. Il tempo
forse, fino a farlo scomparire.
L’uomo che veniva da Berlino notò che il ragazzo teneva la testa bassa, il
collo incassato, ma gli occhi no. La linea diretta dello sguardo puntava in
alto. Sembrava sfidare una platea invisibile.
Il pugile martellava il sacco, i diretti correvano su binari prestabiliti,
traiettorie precise, cadenzate. Cambiava guardia in continuazione, come
volesse togliersi la terra sotto i piedi.
Quando il gong suonò, tutti si fermarono. Ma non il ragazzo tra le ombre.
«Vedrai, non rimarrai deluso.» La voce dell’uomo davanti lo distrasse.
L’allenatore dell’associazione Sparta Linden, un uomo tarchiato sulla
cinquantina, aveva i capelli bianchi; portava gli occhiali scostati dal naso che
sembrava sempre stessero cadendo. Con un gesto disattento scrollò la brace
della sigaretta a terra, le dita ruvide ingiallite dalla nicotina.
L’uomo che veniva da Berlino era Ernst Zirzow, baffi scuri, il corpo,
tenuto in forma da una costante attività fisica, tradiva una pancia tesa da
bevitore. Lo sguardo torvo non lo aveva perso, però, così come le spalle
larghe che da professionista, molti anni prima, gli avevano fruttato più di una
vittoria.
Cercò di concentrarsi sui pugili che, a torso nudo, infilavano i caschetti di
protezione.
Al tavolo vicino il giudice Wermer, grassoccio, le mani inanellate,
schiacciò per la seconda volta la leva della campanella. Il suono riecheggiò
nell’aria satura della palestra.
Gocce di sudore, corpi ossuti, essenziali, la pelle che fumava. Sguardi
persi. Erano tutti poco più che adolescenti, considerò Zirzow.
Un ragazzo con l’occhio gonfio, l’acne che martoriava il naso e le guance,
si sistemò accanto a lui.
Intanto i pugili al centro del ring si erano avvicinati, pronti per i round. Il
primo era alto, rasato, la faccia lunga, pantaloncini blu, fisico possente ma
agile, tipico dei pesi massimi sulle centottanta libbre. Ma lo sguardo, pensò
Zirzow, in fondo a quegli occhi potevi vedere il bambino che era stato.
L’altro pugile era tozzo, il collo incassato buono per non accusare pugni,
capelli biondi corti, pantaloncini rossi e bianchi; si colpì con foga il petto,
fissò l’ostacolo davanti a sé.
«Voglio un incontro pulito, chiaro? E adesso toccatevi i guanti.» I due
pugili ai rispettivi angoli, infine arrivò il segnale: «Boxe!»
Zirzow era venuto apposta da Berlino nella Bassa Sassonia. Non aveva
particolare simpatia per gli evangelici, campagnoli troppo industriosi, con le
loro chiese a mattoni rossi e i tetti a punta. Ma uno dei suoi gli aveva detto
che in quella palestra c’era un ragazzo che picchiava così veloce che neanche
lo vedevi.
Alla terza ripresa, il pugile più tozzo stava vincendo ma era scomposto,
attaccava a testa bassa, sfruttando la corta distanza, facendo valere la
differenza di peso.
Il suo avversario però era forte, incassava rispondendo con le leve lunghe,
poco prima aveva doppiato un jab ed era entrato allo sterno. Quel jab aveva
un peso ora, alla quarta ripresa.
Zirzow se ne accorse mentre il biondino, cadendo in avanti per il troppo
slancio, offriva la testa a un gancio d’incontro che lo abbatté al pavimento.
«Che ti avevo detto?» L’allenatore della palestra indicava il peso
massimo: «È un piacere allenarlo, uno così!»
Il pugile alto con gli occhi buoni sembrava poco affannato. Il biondo era in
piedi: «Sto bene», ripeteva, ma aveva il tono di un marinaio che rientrasse
ubriaco da un bordello.
«Sì, è vero...» A Zirzow il peso massimo era piaciuto, era ordinato e saldo.
Avrebbe potuto allenarlo. Era bravo. E a Zirzow piacevano quelli come lui,
se l’avesse preso avrebbe raggiunto buoni risultati. Ma non era lui il
campione.
Ci furono altri tre o quattro incontri: in alcuni casi, le fasi di studio
avevano lasciato il posto alle risse, uno dei pugili era persino caduto sul
tavolo dei giudici, fracassandolo.
Era una grande occasione. Quasi tutti erano di Hannover, in parecchi casi
le famiglie erano così numerose che i figli venivano spediti da qualche parte,
magari un parente che potesse dargli da mangiare in cambio di braccia per i
campi, ragazzini di nove anni a mungere. Così a quindici eri uomo, e non
volevi andare più via.
Poi l’arbitro chiamò: «Trollmann e Ripke».
Zirzow vide l’ombra di prima materializzarsi alla sua destra, riemergeva
dalle onde scure del silenzio. L’asciugamano in testa, la maglia scura sudata.
I pantaloncini lunghi gialli appena laceri sulle cuciture. Salì sul ring senza
toccare le corde.
Lo sfidante era un medio-massimo, ventisette, ventotto anni. Il suo
secondo stava finendo di calzargli i guantoni da dodici once: «Lui è Markus
Ripke», gli fece il vecchio. «Gran lavoratore, dodici incontri a Hannover, otto
K.O., quattro ai punti. Non lo butti giù neanche a cannonate.»
Ripke era massiccio, uno di quei pugili rapidi sul tronco. Ossi duri,
avversari da cui aspettarsi una lotta sfiancante.
«L’altro?»
L’allenatore della Sparta Linden spense l’ennesima sigaretta sul bordo del
ring: «L’anno scorso, c’erano le qualificazioni per le Olimpiadi», iniziò a
raccontare. «Ha battuto uno in semifinale come se niente fosse, gli ha girato
intorno per un po’ poi... pam! Gli assesta un uno-due che quell’altro neanche
lo vede e va giù.»
Zirzow si grattò l’orecchio.
Ora il ragazzo era al suo angolo. In piedi, stava finendo di stringersi da
solo le fasciature bianche: addominali scolpiti, le vene sulle braccia ispessite
dall’allenamento. Le ossa della colonna vertebrale curvavano su una schiena
compatta. Era agile sugli spostamenti, scommise Zirzow con se stesso.
«Be’, ci credi, dopo qualche settimana», continuò il vecchio «la
Commissione manda l’altro alle Olimpiadi invece del ragazzo», scosse la
testa sospirando, tirò fuori un fazzoletto bianco e si soffiò forte il naso. Con
la stessa pezzuola ripulì gli occhiali e la rimise nel taschino. «Ma che ci vuoi
fare? È lo sport, e poi uno così non ti tiene la disciplina, qui ci viene perché
gli sta bene l’allenamento, ma mica combatte per vincere: lui si diverte», ci
pensò su un attimo: «Be’! In realtà per quello e i soldi...» Gli fece
l’occhiolino: «Ha la fissa delle moto».
L’uomo di Berlino guardò il pugile alzarsi in piedi e girarsi. Ricci neri,
occhi neri, il taglio famelico dei lupi.
«Per questo non lo hanno mandato alle Olimpiadi?»
«Ma no. È che quella è gente scomoda.»
«Che vuoi dire?» chiese Zirzow.
«Che è sinti.»
«...»
«Uno zingaro!»
Lo sguardo di Zirzow si fermò sul ragazzo che, in quel momento, andava a
piazzarsi davanti al suo avversario, masticando il paradenti.
Ripke era il tipico figlio di agricoltori. Uno di quei bambini allevati nei
campi, a tenere l’aratro dietro i grandi frisoni che, da secoli, zoccolo dopo
zoccolo, aiutavano l’uomo a coltivare grano, patate e barbabietole da
zucchero.
Lo zingaro aveva l’aria di chi non aveva mai avuto niente da custodire;
uno che era cresciuto all’ombra dei palazzi, tra le fessure delle pietre e
l’acqua piovana delle grondaie, assieme ai residui di ferro e polvere, nell’aria
di primavera che asciugava i panni. Uno che per trovare appoggio doveva
spostarsi di continuo.
Sul ring, il ragazzo delle ombre saltellava sul posto, agile sulle punte,
scaricando il peso del corpo prima su una gamba poi sull’altra.
Zirzow rammentò le parole del suo informatore. Chiese: «E tu c’eri
all’incontro?»
«Ci puoi scommettere.»
«E li hai visti i colpi?»
«L’uno-due, intendi?»
«Sì.»
«La verità è che non li ha visti nessuno, Zirzow», fece l’allenatore della
Sparta grattandosi la testa. «Forse nemmeno lui.»
L’arbitro stava controllando i guantoni.
«E come si chiama?»
«Johann Trollmann, ma tutti lo chiamano col suo soprannome.»
«E qual è?»
Il vecchio tirò su l’indice: «Rukeli».
Poi, ci fu il suono della campana. Ed Ernst Zirzow, osservando
l’impercettibile movimento laterale – un intero corpo che si spostava, fulcro
su un unico punto, una variazione di appena cinque centimetri, forse meno –,
rivedendo bene la schivata nella sua testa abituata a registrare anche i più
piccoli spostamenti, ripassò a rallentatore la facilità con cui Trollmann schivò
il primo, micidiale, destro di Ripke. In quell’istante l’uomo che era venuto da
Berlino seppe, con evidente certezza, che la boxe, da quel momento in poi,
non solo sarebbe cambiata. Non sarebbe mai più stata la stessa.
Dentro la testa, Johann vedeva ogni colpo. Lo vedeva prima. Era una dote
che aveva fin da bambino e faceva a pugni con Radu, che era più basso di lui
ma anche più cattivo. E maggiore di quasi due anni.
All’inizio le immagini erano arrivate in bianco e nero, poi con gli anni lo
avevano portato a schivare i pugni di quelli più grandi, e il morso dei cani
magri in cerca di cibo che scavavano tra i rifiuti del campo.
Nel tempo, poi, il bianco e nero aveva lasciato il posto ai colori. Duravano
un niente, un millesimo di secondo appena. Eppure, lì dentro, Johann
guardava accadere ciò che sarebbe stato. Era una dote a breve, mica valeva
per tutto, il suo cervello registrava in anticipo le mosse dell’avversario, il
modo per neutralizzarle. Lui ci aveva solo dovuto mettere velocità, potenza e
fiato.
Ripke accennò un diretto destro. Risposta: lieve rotazione del tronco sulla
sinistra.
Jab sinistro di Ripke, montante al fegato, diretto destro: schivò la sequenza
con solo due movimenti delle gambe.
Johann sentiva il respiro nel torace. L’aria che gonfiava il petto, circolava
nelle braccia e poi fluiva alle mani, sotto i guantoni, dentro le bende che lui
stesso lavava al fiume.
Si mosse leggero sul tappeto morbido. Movimento in esterno. Ripke provò
a intercettarlo, andò a vuoto un’altra volta.
Prese distanza. Si isolò dalle grida e dall’immagine del giudice che
scriveva sul suo taccuino. La mosca che sopra la sua testa stava volando
verso le luci in alto.
Serrò gli occhi per non essere abbagliato. Guardò appena Zirzow al lato
del ring. Percepì le gocce di sudore scendergli dietro la schiena, il calore sullo
zigomo, poco sopra la cicatrice a forma di mezza luna sotto l’occhio.
Ripke sferrò un doppio gancio: Johann parò col destro, assorbì il colpo col
dorso dell’avambraccio, fintò un colpo di sinistro, a guardia bassa,
molleggiando le spalle, prima a destra poi indietro.
Allora la vide. La fessura. Un punto preciso nella guardia di Ripke. La
spalla che cedeva quando preparava il gancio destro dopo lo studio col
sinistro.
Per un istante, scopriva l’attaccatura del collo, sopra l’orecchio.
Lo zingaro fece due passi in avanti, laterale. Ripke colse la traiettoria.
Mirò a tagliare il movimento, preparò il gancio in uscita, duecento libbre
pronte ad abbattersi sul ragazzo che mirava alle ombre. Partì.
Rukeli passò sotto il gancio con una schivata circolare. Entrò sotto la
guardia di Ripke, esplose in sequenza gancio destro, diretto sinistro, gancio
destro dall’alto in basso.
Si tirò indietro mentre il figlio dei contadini, le gambe molli, cadeva
all’indietro, con nelle orecchie il fischio del treno che da bambino guardava
sempre passare dai campi di grano giallo.
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