Édith Piaf e la canzone dell’amore – Michelle Marly

SINTESI DEL LIBRO:
La città ancora non brillava del fulgido splendore di prima della
guerra, ma le norme sull’oscuramento erano state ampiamente
cancellate. Una luce gialla cadeva sulle strade della capitale, dove
non marciavano più gli stivali militari di aggressori o difensori né
risuonavano più i colpi degli ultimi cecchini, e dove l’odore del
sangue e della morte si era dileguato nel vento primaverile. Gli unici
soldati che ora festeggiavano tra Montmartre e Montparnasse erano
francesi o Alleati, soprattutto gli americani della Quarta divisione di
fanteria che avevano liberato Parigi. Per questi nuovi clienti i locali
riaprivano uno dopo l’altro. Dalla maggior parte dei teatri musicali,
dei varietà e dei cabaret risuonavano le note delle big-band, con
sonorità alla Glenn Miller; mentre ultimamente la gioventù parigina
invece delle chansons canticchiava le hit americane, e nell’angolo
della bocca penzolavano ora sigarette bionde americane al posto
delle tipiche Gauloises francesi di tabacco scuro. All’ombra della
Tour Eiffel iniziava una nuova era.
In quell’istante per un giovane poco più che ventenne si alzò il
sipario dell’ABC. Stava sul bordo del palcoscenico, alla luce dei
riflettori, e sembrava la brutta copia di un cowboy. Sui suoi capelli
scuri era posato un cappello Panama troppo grande per il suo viso
sottile, così come camicia e pantaloni erano troppo ampi per il suo
corpo magrissimo ed esile. Durante l’esibizione l’interprete non se ne
stava ben eretto, come si addiceva a uno chansonnier di rango,
bensì si chinava in avanti con le spalle come un cantante da night
club di terza categoria, ammiccando al pubblico. Il suo largo sorriso
sembrava fuori luogo quanto quei gridolini «Yippie yippie yeah» con
cui infiorettava la canzone Dans les plaines du Far West.
«Mon Dieu!»
Édith sì drizzò sulla poltrona, si guardò attorno e si stupì che dal
pubblico non piovessero sul palco fischi o grida di scherno. Possibile
che i circa milleduecento spettatori del teatro strapieno gioissero di
quello spettacolo scandaloso? La gente se ne stava tranquilla al
proprio posto, e anzi nella penombra riconobbe, su qualche volto,
persino un sorriso compiaciuto. Stentava a credere di essere l’unica
tra tutta quella gente ad avere qualcosa da obiettare su
quell’esibizione. La gratitudine dei parigini verso tutto ciò che era
americano e la loro conseguente adorazione non potevano arrivare
a tanto! Non avrebbe mai potuto tributare alcun applauso a un
francese che sul palcoscenico del più prestigioso teatro musicale
della città si degradava a clown dell’hillbilly, seppur animata dalle
migliori intenzioni e nonostante il suo senso dell’umorismo.
«È un italiano.»
«Che cosa?» sobbalzò.
Aveva forse espresso la sua critica ad alta voce? E chi l’aveva
sentita, oltre ai suoi accompagnatori? Mai che si fosse preoccupata
di parlare sottovoce, o che le importasse qualcosa di ciò che gli altri
dicevano di lei. Ma ormai era evidente che aveva dei nemici che le
rendevano la vita difficile. Le mancava soltanto di leggere l’indomani
sui giornali i commenti su quel che Édith Piaf pensava del cosiddetto
talento di un cantante mieloso da quattro soldi. Ciò di cui in quel
momento non aveva affatto bisogno era che i quotidiani
sbandierassero le sue presunte idee antiamericane e quindi magari
anche antifrancesi. Senza volerlo si rinchiuse in se stessa, facendosi
ancora più piccola di quanto già non fosse.
«È un italiano» sussurrò di nuovo Louis Barrier. Il suo nuovo
impresario sedeva alla sua destra a uno dei tavoli al centro del
settore più avanzato del parterre, dove gli spettatori non erano
costretti nelle poltrone di fila e l’acustica e la vista erano
particolarmente buone.
«Questo non cambia nulla» rispose lei riluttante.
Come se non l’avesse sentita, Henri Contet, giornalista e autore
di testi, alla sua sinistra, le spiegò: «Yves Montand è uno
pseudonimo. Suo padre era fuggito dai fascisti a Marsiglia. Il vero
nome del nostro amico è Ivo Livi».
«Amico?» disse Édith inarcando le sopracciglia. I suoi occhi
facevano la spola tra il cantante e Henri. Con la migliore volontà del
mondo non capiva comunque che cosa ci trovasse in quell’Yves
Montand, Ivo Livi, o come si chiamasse.
Anche se quella sera avrebbe di certo preferito andare a
ubriacarsi in un bar di Montmartre, aveva seguito controvoglia l’invito
di Henri, che poi aveva scoperto essere stato combinato con Louis.
Diceva quasi sempre di sì agli amici, era una sua debolezza. A volte
litigava, perché spesso quel che le veniva richiesto non le andava a
genio, ma di regola alla fine cedeva lo stesso. In quel caso non era
tanto in gioco l’aspetto economico, quanto la sua imminente
esibizione in occasione della riapertura del leggendario Moulin
Rouge. La sua prima scelta di un partner che le facesse da spalla
era stata Roger Dann, che però non poteva recarsi a Parigi. Perciò i
due accompagnatori volevano presentarle quella sera un cantante
che non era soltanto un rimpiazzo, ma molto di più. Questo almeno
era ciò che avevano sostenuto. Tuttavia l’idea di stare sullo stesso
palcoscenico con quel giovanotto privo di talento a Édith apparve
grottesca. Un’apertura con quel tipo non si addiceva al suo
programma, e per essere sinceri nemmeno all’ABC. Più assisteva alla
sua esibizione, più il rifiuto che provava si faceva deciso. Anche il
cambio dell’abito di scena non migliorò la situazione. Il cantante
aveva indossato sopra alla camicia bianca una stupida giacca a
quadri e così ora non soltanto faceva l’effetto di un clown, ma lo
sembrava anche, pur continuando a recitare la parte del seduttore
imitando il grandissimo Charles Trenet e cantando la sua Swing
Troubadour. Come se il suo aspetto non fosse abbastanza penoso,
adesso quel sempliciotto cercava anche di ballare il tip-tap come
Fred Astaire. Ma nel ballo era negato almeno al pari del canto.
L’esibizione non si limitò a far arrabbiare Édith: le sembrò addirittura
un affronto personale.
L’ABC era pur sempre il più rinomato teatro musicale di Parigi. La
sua fama era sopravvissuta al cambio della direzione,
all’occupazione e alla guerra, e tutte le grandi star nel corso degli
anni avevano continuato a celebrare lì i loro trionfi. Ma soprattutto
era il palco sul quale aveva avuto luogo il suo debutto come
chanteuse, proprio come in quell’occasione tentava di fare
quell’Yves Montand. A lei all’epoca furono concessi trenta minuti,
molto meno di lui. Era salita sul palco a sipario abbassato, come
spalla, e ne era scesa come una nuova star. Una piccola persona
con una grande voce, a ventun anni appena compiuti, e in un
semplice abito nero, con un colletto bianco di pizzo, per nulla
pretenzioso. Al termine del suo primo grande esordio il pubblico le
aveva chiesto un bis dopo l’altro, e i critici musicali il giorno dopo
l’avevano sommersa di elogi. Per arrivarci aveva lavorato duro, per
settimane non aveva quasi dormito, imparando cosa vuol dire
diventare un personaggio, una celebrità.
Ne era valsa la pena, perché dopo quel memorabile 26 marzo
1937 a Parigi tutti conoscevano il nome di Édith Piaf. Non era più La
Môme Piaf, la curiosa monella, bensì una donna adulta che sapeva
comportarsi ed esprimersi. Quante cose erano cambiate nella sua
vita da allora! Non soltanto ora era capace di maneggiare forchetta e
coltello in modo corretto e aveva smesso di vestirsi come una
principessina da circo: ormai era a tutti gli effetti una giovane donna
colta, un vero topo di biblioteca, che sapeva apprezzare le
discussioni intellettuali e utilizzava un linguaggio che non rivelava più
le sue umili origini. Un personaggio che aveva creato Raymond
Asso. Proprio come il professor Higgins nel dramma di George
Bernard Shaw ispirato all’antica storia di Ovidio, Raymond era stato
il suo Pigmalione. E come l’eroe letterario, pur non avendo sbagliato
un colpo, alla fine l’aveva persa.
Con sollievo Édith constatò che l’applauso per il debuttante di
quella serata era moderato. È vero che nell’aria c’era una certa
benevolenza, forse addirittura dell’entusiasmo da parte di qualche
signora, ma chi apprezzava quel cantante mieloso da quattro soldi
non era la maggioranza, e l’isolata richiesta di bis risuonò senza
avere seguito.
Allora non ho perduto il mio istinto, penso Édith mentre le luci
della sala riprendevano lentamente a rischiararla, dando inizio al
consueto trambusto dell’intervallo.
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