Acido solforico – Nothomb Amélie

SINTESI DEL LIBRO:
Venne il momento in cui la sofferenza altrui non li sfamò più: ne
pretesero lo spettacolo.
Per essere fermati non serviva alcun requisito. Le retate si
verificavano ovunque: chiunque veniva portato via, senza possibilità
di appello. L’unico criterio era l’appartenenza al genere umano.
Quella mattina Pannonique era uscita per fare una passeggiata al
Jardin des Plantes. Arrivarono gli organizzatori e setacciarono il
parco. La giovane si ritrovò su un camion.
Non era ancora andata in onda la prima puntata: la gente non aveva
idea di cosa gli sarebbe successo. Erano tutti indignati. Alla
stazione, li stiparono su un carro bestiame. Pannonique vide che li
stavano riprendendo: li scortavano numerose telecamere che non
perdevano una virgola della loro angoscia.
Comprese allora che ribellarsi non solo non avrebbe affatto giovato,
ma sarebbe risultato telegenico. Rimase dunque di marmo durante il
lungo viaggio. Intorno a lei i bambini piangevano, gli adulti
ringhiavano, i vecchi soffocavano.
Li scaricarono in un campo simile a quelli, non poi così remoti, di
deportazione nazista, con un’unica differenza: telecamere di
sorveglianza erano installate dappertutto.
Per entrare nell’organizzazione non serviva alcun requisito specifico.
I capi facevano sfilare i candidati e selezionavano quelli con “i volti
più interessanti”. Bisognava poi rispondere a una serie di questionari
comportamentali.
Zdena, che in vita sua non aveva mai superato un esame, venne
accettata. La cosa la riempì di orgoglio. Ormai, avrebbe potuto dire
che lavorava in televisione. Un primo impiego, a vent’anni, senza
alcun titolo di studio: amici e parenti avrebbero finalmente smesso di
prenderla in giro.
Le spiegarono le regole della trasmissione. Poi i responsabili le
chiesero se fosse rimasta scandalizzata.
– No. È un pugno nello stomaco – rispose.
Pensieroso, il cacciatore di teste le disse che era proprio così.
– È quello che vuole la gente – aggiunse. – È finita l’epoca della
finzione e del buonismo.
Superò altri test che dimostrarono la sua capacità di picchiare
sconosciuti, gridare insulti gratuiti, imporre la propria autorità, e
confermarono che non si sarebbe lasciata commuovere da alcun
genere di piagnisteo.
– Quello che conta è soltanto il rispetto del pubblico – disse uno dei
responsabili. – Nessuno spettatore merita il nostro disprezzo.
Zdena approvò.
Le fu assegnato il ruolo di kapò.
– La chiameremo kapò Zdena – le venne detto.
Quel termine militaresco le piacque.
– Hai del fegato, kapò Zdena – disse alla sua immagine riflessa nello
specchio.
Già non si accorgeva più che la stavano filmando.
I giornali non parlarono d’altro. Gli editoriali divamparono, gli
intellettuali tuonarono.
Il pubblico invece ne volle ancora, fin dalla prima puntata. Il
programma, che si chiamava sobriamente Concentramento, ottenne
ascolti record. Non si era mai visto l’orrore così in presa diretta.
“Sta succedendo qualcosa” diceva la gente.
La telecamera aveva parecchio lavoro. Con i suoi occhi multipli
monitorava le baracche dove erano confinati i prigionieri: latrine,
arredate con pagliericci uno sopra all’altro. Il conduttore evocava il
fetore di urina e la gelida umidità che la televisione, ahimè, non era
in grado di restituire.
A ciascun kapò fu concesso qualche minuto di presentazione.
Zdena non riusciva a crederci. Per più di cinquecento secondi la
telecamera avrebbe avuto occhi solo per lei. E quell’occhio sintetico
anticipava milioni di occhi di carne.
– Non perdete questa occasione per conquistarvi la loro simpatia –
disse uno degli organizzatori ai kapò. – Il pubblico vi considera dei
bruti decerebrati: mostrategli la vostra umanità.
– E non dimenticate: la televisione può essere un pulpito per quanti
di voi hanno idee e ideali – suggerì un altro con un sorriso perverso
che la diceva lunga sulle atrocità che sperava di sentir proferire ai
kapò.
Zdena se lo chiese, se aveva delle idee. Il frastuono dentro la sua
testa che chiamava pomposamente pensiero non la stordiva al punto
di rispondersi di sì. Ma pensò che non avrebbe avuto alcuna
difficoltà a ispirare simpatia.
È un’ingenuità piuttosto diffusa: la gente non si rende conto di
quanto la televisione la renda peggiore di come è realmente. Zdena
si preparò il discorso davanti allo specchio senza capire che la
telecamera non avrebbe avuto per lei la stessa indulgenza della sua
immagine riflessa.
Gli spettatori attendevano impazienti la sequenza dei kapò:
sapevano di poterli odiare, e che anzi era proprio quello il loro ruolo,
avrebbero addirittura fornito alla loro esecrazione un sovrappiù di
argomentazioni.
E non rimasero delusi. Quanto ad abiezione e mediocrità, le
dichiarazioni dei kapò superarono le loro aspettative.
Rimasero particolarmente turbati da una ragazza con il volto
irregolare, che rispondeva al nome di Zdena.
– Ho vent’anni, e cerco di accumulare esperienze – disse. – Non
bisogna avere preconcetti su Concentramento. D’altronde, penso
che non si debba mai giudicare, perché chi siamo noi per giudicare?
Quando saranno finite le riprese, tra un anno, allora esprimere la mia
opinione avrà un senso. Adesso no. Certo, ce n’è quanto basta per
dire che non è normale quello che si fa alla gente, qui. E allora, ecco
la mia domanda: che cos’è la normalità? Cos’è il bene, e cos’è il
male? È tutta una questione culturale.
– Ma, kapò Zdena – intervenne l’organizzatore – a lei piacerebbe
subire quello che sono costretti a subire i prigionieri?
– È una domanda trabocchetto. Innanzitutto, non si sa cosa pensino
i detenuti, perché gli organizzatori non glielo chiedono. Magari non
pensano proprio niente.
– Quando viene fatto a pezzi ancora vivo, un pesce non grida. La
sua conclusione è che non soffra, kapò Zdena?
– Buona questa, me la devo ricordare – disse con una risata crassa
che mirava a suscitare consenso. – Be’, io la vedo così: se sono in
prigione, qualcosa avranno fatto, no? Dite un po’ quello che vi pare,
ma forse non è un caso se sono finiti fra i deboli. Come mai io, che
non sono mai stata una smorfiosa, sto dalla parte dei forti? A scuola
era già così. In cortile c’era il gruppo delle ragazzine e dei fighetti, e
io me ne tenevo alla larga, io stavo con i duri. Non ho mai cercato di
impietosire nessuno, io.
– Pensa che i prigionieri cerchino di suscitare pietà?
– È chiaro. Fanno la parte dei buoni.
– Benissimo, kapò Zdena. Grazie per la sua sincerità.
La ragazza uscì dall’inquadratura, stupita per ciò che aveva detto.
Non lo sapeva neanche lei, di pensare tutte quelle cose. E si
compiacque dell’eccellente impressione che avrebbe fatto.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo