Adesso che lo sai – Kat Sherman

SINTESI DEL LIBRO:
La donna seduta accanto a me prende un lungo respiro tremante. Ha la
pelle della fronte lievemente imperlata di sudore e si torce le mani in
grembo come in una sala d’attesa ospedaliera. Non è esattamente quello che
si definirebbe un volo tranquillo: l’aereo ballonzola nell’aria come se fosse
appeso a fili giganteschi, nelle mani di un enorme burattinaio con l’animo
gentile di una guardia repubblicana irachena.
Sospiro e mi lascio scivolare sul sedile, spingendo lo sguardo sulla strana
distesa di nuvole che da questa prospettiva somiglia a una decorazione
pasticcera non proprio freschissima.
Sono felice di tornare a lavorare nella mia città. Beh, città d’adozione in
verità: le palme mi hanno accolta, non mi hanno cresciuta. Ma nel mio
cuore, ormai, quella lunga striscia di costa dorata che si srotola sul Pacifico,
da San Diego a Crescent City, è casa mia. Ed è stato amore a prima vista.
Come si può non amare un luogo dove gli impiegati appendono giacche e
cravatte agli specchietti delle macchine e vanno a fare surf, con le prime
luci dell’alba, prima di andare in ufficio? E come si fa a non andare pazzi
per un posto che quasi non conosce altro che estate e primavera e poi ancora
estate e ancora primavera?
«Oh buon Dio!» esclama la donna seduta accanto a me, ghermendo i
braccioli della poltrona con una tale forza che le sue nocche emergono
bianchissime, sottopelle, come biglie di gesso. «Moriremo tutti quanti!»
«Signora, è solo un vuoto d’aria. L’aereo non precipiterà.»
«È esattamente quello che dicono le hostess prima che l’aereo si schianti
contro una montagna.»
In ef etti, non ha tutti i torti.
«Per via del mio lavoro, ho sempre il sedere su una di queste poltrone e
le garantisco che non succede mai niente. Faccia un profondo respiro zen o,
ancora meglio, si faccia portare una bella tequila anti-panico.»
La donna strizza gli occhi, arriccia le labbra e sussurra tra i denti:
«Continui a parlarmi, per favore. Non si fermi. La sua voce mi calma. È una
terapista?»
Sollevo un sopracciglio. «Non mi sognerei mai di rovistare nella torbida
coscienza della gente. Non ne so molto sull’argomento, ma immagino che
non sia così diverso dal cercare di recuperare una moneta in una piscina di
melma ed escrementi. Una moneta rivelatrice.»
La donna inspira ed espira come a un corso preparto.
Le ali dell’aereo virano leggermente e il comandante, dotato come al
solito di una voce crudelmente sexy, informa i passeggeri che il velivolo sta
per prepararsi all’atterraggio.
«E di cosa si occupa?» farfuglia la signora.
«Mi occupo di scrittura. Biografie per l’esattezza. Torno ora dalla Florida
dove ho passato due mesi a lavorare con un uomo molto famoso. Vuole
indovinare chi era per ammazzare il tempo?»
«Oh, di sicuro era Austin Greenwall. Non c’è bisogno che me lo dica.»
Chi cavolo è Austin Greenwall?
Sfodero un sorrisetto perplesso e proseguo: «Adesso, invece, mi toccherà
lavorare con uno chef. Sa, quei tizi che si credono super affascinanti e che
maneggiano la cipolla come se avessero le mani sulla... sul fiore di una
donna.» Svuoto i polmoni lentamente. «Ma sa che le dico? Sono felice, per
una volta, di disfare la valigia e lavorare proprio a Long Beach, perciò,
credo che in fin dei conti mi sforzerò di cogliere il lato positivo. E prometto
di non rivelare mai a quel tipo la mia passione ossessiva per il cibo
spazzatura e per tutto quello che può essere cotto in un microonde in tre
minuti. E mi impegnerò con slancio a non commentare mai il modo
libidinoso in cui palpa uno scalogno.»
Non appena smetto di parlare, la donna mi agguanta una mano
strizzandola come una spugna. «Mi racconti qualche altra cosa o mi assalirà
di nuovo il panico. Ho una brutta ernia del disco e sono terrorizzata dagli
atterraggi. Ce l’ha un fidanzato?»
Fidanzato.
Sento scivolare via qualcosa, mentre fisso il sedile davanti al mio,
affondando i denti nell’interno della guancia.
«Oh, ha il cuore spezzato...»
Riderei se ne avessi il coraggio.
Spezzato?
Graf iato. Incrinato. Crepato. Carbonizzato.
Polverizzato!
Torno a fissare con ostinazione quello che offre il finestrino. Spingo lo
sguardo lontano, sulla distesa di azzurro trasparente solcata dal Boeing. Le
nuvole sono tornate al loro posto naturale. E io vorrei teletrasportarmi nel
punto più lontano che i miei occhi riescono a lambire: quella piccola
strisciolina color oro, accarezzata dalle onde spumose, dove non molto
distante sorge il vecchio palazzo che ospita l’appartamento formatofazzoletto che divido con la mia migliore amica Imogen.
Sminuzzato. Calpestato. Gettato.
Scomparso.
Mayday!
«Suvvia, lei è giovanissima! Non avrà più di ventitré o ventiquattro anni.
Un giovanotto degno del suo cuore e del suo tempo la incrocerà prima che
sia uscita dall’aeroporto di Los Angeles.»
Un sorriso tiepido mi stiracchia un po’ le labbra. «Spero per lui che non
sia così. Nessuno comprerebbe volentieri un appezzamento di terra vista
rottami. E per trovare un tizio degno del mio cuore, come minimo, dovrei
prima ritrovarlo il mio cuore.»
***
Il taxi scivola sull’asfalto assolato, fiancheggiato da colonnati di
washingtonie immerse nel blu.
Con un’occhiata all’orologio, realizzo che a causa del ritardo del volo
Orlando-L.A., non avrò mai il tempo materiale di tornare a casa, posare i
bagagli, e togliermi di dosso la mappa disordinata di pieghe che il viaggio
di cinque ore e mezza ha contribuito a stampare sui miei vestiti.
Andrò dritta all’appuntamento con il cliente e, dato che non amo gli
indugi, comincerò subito a inquadrare il tipo, organizzerò un piano mentale,
mi complimenterò per aver scelto la fiorente agenzia di ghostwriting e
giornalismo di Saul Levi e chiuderò la bocca su tutto ciò che significa
venerare un set di coltelli giapponesi come fossero un gruppo di ninnoli
sacri.
Dato che dovrò portare al seguito il mio bagaglio, è una fortuna che
viaggi molto leggera. Ho sempre creduto che, con la giusta organizzazione,
un piccolo spazio possa contenere con efficacia tutto il necessario per
fronteggiare un discreto numero d’imprevisti. L’anno scorso, per esempio,
ho infilzato una forchetta nella mano di un cliente, con l’intenzione di
inchiodargliela al tavolo, e la mia borsa era provvista di un validissimo kit
di primo soccorso.
Trascino il piccolo trolley verde pistacchio sul mattonato abbacinante e
adocchio l’unico tavolino vuoto della caffetteria. Mezza Long Beach sta
divorando pancakes e salsicce su questi tavoli, ma del mio uomo non c’è
neanche il fantasma dell’ombra.
Sono sempre stata affascinata dalle scuse che le persone inventano per
giustificare un ritardo. Mi chiedo quale sarà quella di questo tizio. Il cane ti
ha mangiato il grembiule? Eri occupato a lucidare il tuo ego smisurato? Eri
a una manifestazione contro la maionese industriale?
Nonostante l’intoppo col mio volo, io sono qui. E lui invece no.
Dieci minuti dopo, cedo all’insistenza del cameriere e ordino un
coloratissimo cocktail analcolico che ha il sapore di un frullato di caramelle
allungato con acqua e zucchero, e infilo la mia pazienza in una vergine di
ferro.
Guardo l’ora, mi guardo intorno, assisto al viavai di gente che si alza dai
tavoli con un cono gelato stretto nelle dita e s’incammina pigramente lungo
il pontile di cemento frustato dal corposo vento di luglio.
Non mi piace restare ferma in un punto. L’attesa cristallizza l’azione e
spalanca le porte a qualcos’altro. Ti fa pensare.
Pensare, pensare, pensare.
Pensare, pensare...
Dillon!
Non riesco a frenare un piccolo, odioso, sussulto.
È solo un nome, mica un dardo infuocato!
Ci sono migliaia di Dillon che in questo momento stanno calpestando la
superficie terrestre. Ma nonostante il razionale distacco, non posso fare a
meno di domandarmi se ci sia una strana scienza che dimostri che l’esercito
dei Dillon sia il focolaio del male, geneticamente predisposto alla
menzogna sfrenata e alla viscida bastardaggine.
Senza dubbio, quello che è toccato a me era il maestro, il guru di tutta la
congrega. Un abilissimo bugiardo prodigiosamente ingegnoso. Uno che
vincerebbe le olimpiadi della frottola, semmai fossero previste dalla
Federazione; e la cosa peggiore è che verrebbe fastidiosamente a meraviglia
nei manifesti della vittoria. Il podio, la sua collezione di imposture e quel
maledetto sorriso incantatore.
Smettere di pensare, smettere di pensare, smettere di pensare.
SMETTERE DI PENSARE!
Dillon!
Afferro il telefono con urgenza e chiamo il boss. Mentre gli squilli si
susseguono atoni, raggiungendo New York, osservo la spiaggia che
lambisce la strada, sparpagliando un alone aureo e impalpabile sull’asfalto.
Sottraggo una ciocca di capelli alla brezza, fissandola dietro l’orecchio, e
con gli occhi seguo il volo in picchiata di un gabbiano che plana fiducioso
verso il suo pranzo.
È senza dubbio un bel posto, uno di quelli che sa come stimolare
l’immaginazione. È a questo che dovrei pensare. È su questo che la mia
mente dovrebbe soffermarsi: luce, bellezza, scoperte, possibilità.
«Saul?»
«Rain, come va? Hai incontrato West?»
Mando giù un altro micro-sorso di sciroppo di favole e folletti e, per la
milionesima volta, passo in rassegna tutti gli uomini che riesco a infilare nel
campo visivo. «Negativo. Sono nel posto che mi hai indicato ma lui non
c’è. Ti confesso, Saul, che dopo un viaggio snervante con annesso ritardo e
tre ore di sonno in tutto, nelle ultime ventiquattro, essere bidonata è l’ultima
cosa che riesco a digerire.»
Saul medita in silenzio per qualche istante, infine mi domanda: «Sei al
bar con la tua valigia verde, vero?»
Adesso sì che mi guardo intorno.
«Ti conosco, Rain» sospira. «E ti dico che devi rilassarti. Il cliente
arriverà. Gli ho spiegato che detesti lavorare da remoto e lui ha accettato di
incontrarti di persona, nonostante tutti i suoi impegni. Piuttosto, sei sicura
di riconoscerlo? Hai visto le foto che ti ho mandato? Ti sei informata su
internet?»
«Alto, capelli scuri, sbaffi di inchiostro, e un’aria più da rockstar in sella
a una moto che da chef stellato. Mi basterebbe sapere questo, ma nel caso in
cui giungesse alla caffetteria un esercito di buttafuori, la tua nuova
segretaria, Michelle, mi ha parlato dell’aspetto di questo tizio per venti
minuti filati. Praticamente tutto il tempo che ha impiegato a far ripartire la
fotocopiatrice inceppata. Vedrai che lo riconoscerò meglio di sua madre
senza dover ricorrere alla giungla virtuale.
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