A casa- Toni Morrison

SINTESI DEL LIBRO:
Si drizzavano come uomini. Li abbiamo visti. Come uomini, stavano in piedi.
Non ci saremmo dovuti nemmeno avvicinare a quel posto. Come quasi tutti i
terreni agricoli attorno a Lotus, in Georgia, anche questo aveva tanti cartelli
minacciosi. Gli avvertimenti erano appesi alla recinzione di rete metallica
sostenuta da pali di legno ogni quindici metri circa. Ma quando abbiamo visto il
cunicolo scavato da qualche animale – un coyote, forse, o un cane per la caccia ai
procioni – non siamo riusciti a resistere. Eravamo solo bambini. L’erba arrivava
alle spalle a lei e alla vita a me, così, stando attenti ai serpenti, abbiamo strisciato
sulla pancia. Ci bruciavano gli occhi per colpa della linfa dell’erba e delle nuvole di
moscerini ma ne è valsa la pena, perché lì davanti a noi, a meno di cinquanta
metri, loro stavano in piedi come uomini. Gli zoccoli sollevati picchiavano e
colpivano, le criniere ondeggiavano su occhi bianchi e spiritati. Si mordevano a
vicenda come cani ma quando si alzavano sulle zampe dietro, buttando quelle
davanti attorno al collo dell’altro, noi trattenevamo il fiato dalla meraviglia. Uno
era color ruggine, l’altro nero pece, entrambi scintillanti di sudore. I nitriti
facevano meno paura del silenzio che seguiva un calcio assestato con le zampe
dietro sulle labbra schiuse dell’avversario. Vicino, giumente e puledri, indif erenti,
brucavano l’erba o guardavano da un’altra parte. Poi è finito tutto. Quello color
ruggine ha abbassato la testa battendo gli zoccoli sul terreno mentre il vincitore si è
allontanato disegnando un arco, spingendo le giumente davanti a sé.
Nel tornare indietro strisciando sui gomiti tra l’erba in cerca del varco sotto la
rete, sforzandoci di evitare la fila di camioncini parcheggiati più avanti, ci siamo
persi. Anche se ci abbiamo messo un’eternità per riavvistare la recinzione, non ci
ha preso il panico finché non abbiamo sentito delle voci, concitate ma basse. Le ho
stretto il braccio e mi sono portato un dito alle labbra. Senza mai alzare la testa,
sbirciando solo tra l’erba, li abbiamo visti prendere un corpo da una carriola e
gettarlo in una buca che avevano scavato. Un piede sporgeva dal bordo e tremava,
come se potesse uscire, come se con un piccolo sforzo potesse liberarsi dalla terra
che gli stavano buttando sopra. Non vedevamo le facce degli uomini intenti a
seppellirlo, solo i calzoni; però abbiamo visto il bordo di una pala che spingeva giù
il piede ribelle per farlo riunire al resto del corpo. Quando lei ha visto quel piede
nero, con la pianta rosa pallido striata di fango, ricacciato a forza nella fossa, ha
incominciato a rabbrividire tutta. Io le ho stretto forte le spalle cercando di
assorbire il tremito nelle ossa perché, come fratello maggiore di quattro anni,
pensavo di poterlo sopportare. Gli uomini se n’erano andati da tempo e la luna era
ormai un melone quando ci siamo azzardati a muovere anche un solo filo d’erba e
a strisciare sulla pancia in cerca dello spazio sotto la recinzione. Tornando a casa
pensavamo che ci avrebbero picchiato o almeno sgridato perché eravamo rimasti
fuori troppo, invece i grandi non hanno badato a noi. Un certo trambusto
assorbiva la loro attenzione.
Visto che hai deciso di raccontare la mia storia, qualsiasi cosa tu pensi e
qualsiasi cosa scriverai, sappi questo: mi ero davvero dimenticato della sepoltura.
Ricordavo solo i cavalli. Erano così belli. Così brutali. E stavano in piedi come
uomini.
2
Respirare. Come farlo perché nessuno si accorgesse che era sveglio. Fingere
un russare profondo e ritmato, rilassare il labbro inferiore. Soprattutto, le
palpebre non dovevano muoversi e bisognava avere un battito cardiaco regolare
e mani inerti. Alle due di notte, quando sarebbero venuti a controllare per
stabilire se servisse un’altra dose di sedativi, avrebbero visto il paziente nella
stanza 17 al primo piano sprofondato in un sonno di morfina. Se li avesse
convinti, forse gli avrebbero risparmiato l’iniezione e allentato i lacci ai polsi, in
modo da lasciare circolare un po’ il sangue nelle mani. Per imitare uno stato
semicomatoso, come per fingersi morti a faccia in giù nel fango di un campo di
battaglia, il trucco stava nel concentrarsi su un unico oggetto neutro. Qualcosa
che soffocasse anche il minimo accenno di vita. Il ghiaccio, pensò, un cubetto, un
ghiacciolo, una pozza ghiacciata, un paesaggio ammantato di brina. No. Troppe
emozioni legate a colline ricoperte dal gelo. Il fuoco, allora? Mai. Troppo attivo.
Serviva qualcosa che non evocasse nessun sentimento, che non destasse nessun
ricordo – dolce o vergognoso. La sola ricerca dell’elemento giusto lo agitava.
Tutto gli ricordava qualche episodio carico di dolore. Visualizzare un foglio di
carta bianca gli fece venire in mente la lettera che aveva ricevuto – quella che gli
aveva procurato un nodo in gola: «Venga subito. Se ritarda, lei morirà».
Finalmente, scelse come oggetto neutro la sedia nell’angolo della stanza. Legno.
Quercia. Laccato o tinto. Quante assicelle sullo schienale? La seduta era piana o
sagomata? Fatta a mano o lavorata a macchina? Se fatta a mano, chi era il
falegname e dove si era procurato il legno? Inutile. La sedia suscitava domande,
non totale indifferenza. Perché non l’oceano in una giornata nuvolosa, visto dal
ponte di una nave per il trasporto truppe – nessun orizzonte e nemmeno la
speranza di scorgerlo? No. Quello no, perché tra i cadaveri tenuti in fresco nella
stiva potevano forse esserci quelli dei suoi compaesani. Doveva concentrarsi su
qualcos’altro – il cielo notturno, senza stelle, o meglio ancora le rotaie. Nessun
paesaggio, nessun treno, solo infinite, infinite rotaie.
Gli avevano portato via la camicia e gli scarponi stringati, ma la giubba e i
calzoni militari (entrambi inutilizzabili per suicidarsi) erano appesi
nell’armadietto. Doveva solo arrivare in fondo al corridoio, all’uscita di
emergenza che non veniva più tenuta chiusa da quando era scoppiato un
incendio ed erano morti un’infermiera e due pazienti. Era quella la storia che gli
aveva raccontato Crane, l’inserviente chiacchierone, masticando gomma con
grande energia mentre gli lavava le ascelle, ma lui era convinto che fosse solo una
scusa per giustificare le pause sigaretta del personale. Il suo primo piano di fuga
prevedeva di mettere k.o. Crane la volta successiva in cui fosse venuto a pulirgli il
sedere. Ma avrebbe dovuto allentare i lacci ai polsi, e l’esito sarebbe stato troppo
incerto, perciò aveva scelto un’altra strategia.
Due giorni prima, mentre era ammanettato sul sedile dietro dell’auto di
pattuglia, aveva continuato a girare freneticamente la testa per vedere dove fosse
e dove lo stessero portando. Non era mai stato in questa zona. Il suo territorio
era il centro città. Niente in particolare balzava agli occhi, se non l’intensa luce al
neon dell’insegna di un diner e un cartello enorme davanti a una chiesa
minuscola: AME Zion.
1 Se ce l’avesse fatta a infilare l’uscita antincendio si
sarebbe diretto lì: alla Zion. Però, prima di fuggire, avrebbe dovuto procurarsi un
paio di scarpe. Se lo avessero sorpreso a camminare per strada senza scarpe
d’inverno, lo avrebbero di certo arrestato e riportato in ospedale, in attesa di farlo
condannare per vagabondaggio. Concetto interessante, quello di vagabondaggio:
per la legge significava stare o camminare all’aperto senza un evidente proposito.
Avere con sé un libro poteva essere utile, ma i piedi nudi avrebbero contraddetto
il «proposito» e stare fermi poteva far scattare una denuncia per non avere «fissa
dimora». E lui sapeva meglio di tanti altri che non era nemmeno necessario
trovarsi all’aperto per venire disturbati, legalmente o illegalmente. Uno poteva
starsene al chiuso, vivere in casa propria da anni, e tutt’a un tratto uomini con o
senza distintivo, ma sempre armati, potevano costringere lui, la sua famiglia e i
suoi vicini a fare i bagagli e andarsene da un’altra parte – con o senza scarpe.
Vent’anni fa, a quattro anni, lui ne aveva un paio, anche se la suola staccata di
una sbatteva a ogni passo. Gli abitanti di quindici case avevano ricevuto l’ordine
di lasciare il loro piccolo quartiere al limitare del paese. Ventiquattro ore,
avevano detto, altrimenti… «Altrimenti» voleva dire «morte». L’avvertimento
era giunto di primo mattino, così il bilancio della giornata era stato di
confusione, rabbia e preparativi. Al tramonto quasi tutti erano in partenza – a
bordo di qualche mezzo se possibile, altrimenti a piedi. Eppure, nonostante le
minacce degli uomini, incappucciati e no, e le suppliche dei vicini, un vecchio di
nome Crawford si era seduto sui gradini del portico, rifiutandosi di andare via. I
gomiti sulle ginocchia, le mani intrecciate, aveva aspettato per tutta la notte
masticando tabacco. Poco dopo l’alba, ventiquattro ore più tardi, lo avevano
picchiato a morte con spranghe di ferro e calci di fucile e legato alla magnolia più
antica della contea – quella che cresceva nel suo giardino. Forse era stato l’amore
per quell’albero che, si vantava, aveva piantato la sua bisnonna, a renderlo così
testardo. A notte fonda, alcuni vicini in fuga erano tornati indietro di nascosto
per slegarlo e seppellirlo sotto la sua amata magnolia. Uno di quelli che avevano
scavato la fossa aveva raccontato a chiunque volesse ascoltarlo che a Mr
Crawford avevano cavato gli occhi.
Anche se le scarpe erano essenziali per questa fuga, il paziente non ne aveva.
Alle quattro di notte, prima dell’alba, riuscì ad allentare i lacci ai polsi, a liberarsi
e a strapparsi di dosso il camice. Si infilò la giubba e i calzoni militari e a piedi
nudi sgattaiolò in corridoio. A parte il pianto che proveniva dalla stanza vicina
all’uscita antincendio, tutto taceva – nessuno scricchiolio delle scarpe di un
inserviente, né risatine soffocate, nessun odore di fumo di sigaretta. Quando aprì
la porta i cardini cigolarono e il freddo lo colpì come un martello.
Il ferro gelido della scala antincendio faceva così male che scavalcò la
ringhiera con un balzo per affondare i piedi nella neve più calda sul terreno.
Prendendo il posto delle stelle assenti, una luna matta rivaleggiava con la sua
disperata frenesia, illuminandogli le spalle curve e le impronte che lasciava nella
neve. In tasca aveva la medaglia dell’esercito ma non denaro, così non pensò
nemmeno di cercare una cabina telefonica per chiamare Lily. Non lo avrebbe
fatto comunque, non solo perché si erano lasciati freddamente, ma anche perché
si sarebbe vergognato ad avere bisogno di lei adesso – un poveraccio a piedi nudi
scappato dal manicomio. Stringendosi i risvolti della giubba intorno al collo,
preferendo ai marciapiedi spalati la neve ammucchiata sul ciglio delle strade,
corse per sei isolati, ancora un po’ intontito dai residui del sedativo, e raggiunse
la canonica della AME Zion, una casetta di legno a due piani. I gradini del
portico erano stati ripuliti con cura dalla neve, ma la casa era buia. Bussò – forte,
pensò, considerando quant’erano intirizzite le mani, ma non in modo
minaccioso come il bam-bam di una squadra di guardie civiche, di una folla
infuriata o della polizia. L’insistenza venne premiata: si accese una luce e la porta
si schiuse appena, poi si aprì, rivelando un uomo dai capelli grigi con una
vestaglia di flanella, che si reggeva gli occhiali sul naso, seccato dall’impudenza di
quella visita prima dell’alba.
Lui avrebbe voluto dirgli: «Buongiorno», o «Mi scusi», ma tremava tutto come
in preda al ballo di san Vito e batteva i denti in modo incontrollabile, tanto che
non riuscì ad aprire bocca. L’uomo sulla soglia squadrò ben bene il visitatore
infreddolito, poi fece un passo indietro per lasciarlo entrare.
«Jean! Jean!» Si voltò per indirizzare la voce sulle scale prima di fare segno al
visitatore di venire avanti. «Santo cielo», bofonchiò chiudendo la porta. «È
proprio ridotto male.»
Lui cercò di sorridere, invano.
«Mi chiamo Locke, reverendo John Locke. E lei?»
«Frank, signore. Frank Money.»
«Viene dall’ospedale in fondo alla strada?»
Frank annuì, battendo i piedi e sfregandosi le mani per riattivare la
circolazione.
Il reverendo Locke borbottò: «Si accomodi». Poi, scuotendo la testa,
soggiunse: «Lei è fortunato, Mr Money. Vendono parecchi corpi là dentro».
«Corpi?» Frank sprofondò sul divano, distratto, chiedendosi solo vagamente
di cosa stesse parlando.
«Eh già. Alla facoltà di medicina.»
«Vendono i cadaveri? Per farne cosa?»
«Be’, sa, i dottori devono esercitarsi sui poveracci morti per poter aiutare i
ricchi vivi.»
«John, basta.» Jean Locke scese le scale, stringendosi la cintura della vestaglia.
«Sono solo sciocchezze.»
«Lei è mia moglie», disse Locke. «E anche se è dolce come il miele, spesso si
sbaglia.»
«Salve, signora. Mi scusi se…» Ancora tremante, Frank si alzò.
Lei lo interruppe. «Non si disturbi. Stia seduto», disse e scomparve in cucina.
Frank obbedì. A parte l’assenza di vento, in casa faceva quasi freddo come
fuori, e la fodera di plastica sul divano non migliorava le cose.
«Scusi se la casa è troppo gelida per lei.» Locke notò le labbra tremolanti di
Frank. «Qui siamo abituati alla pioggia, non alla neve. Da dove arriva,
comunque?»
«Dal centro città.»
Locke mugugnò, come se quello spiegasse tutto. «E vorrebbe tornarci?»
«No, signore. Sono diretto a sud.»
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