27 ossa- Diana Lama

SINTESI DEL LIBRO:
Il rumore è come un ronzio. Barbara lo sente dentro e fuori le
orecchie e non riesce a identificarne la provenienza.
Forse sono vespe. Uno sciame di vespe impazzite che si sta
avvicinando. Si avventeranno sul suo corpo, sul viso, sulla carne
tenera delle guance, sul collo vulnerabile e i seni scoperti.
È nuda. Lo capisce mentre pensa alle vespe e abbassa lo
sguardo. Incredula, si fissa i capezzoli rosa, turgidi per il freddo. La
peluria sulle braccia è ritta, sembra quasi di stare in un frigorifero.
Si rende conto di essere accoccolata per terra e si alza in piedi.
Per un attimo le gira la testa, e con la mano si appoggia alla parete
gelida. Il ronzio è tutto attorno a lei, un pulsare continuo e
sommesso, proprio come quello di una grande ghiacciaia. O come
un grosso animale nascosto da qualche parte. Ma è tutto bianco,
non ci sono posti dove una bestia feroce può nascondersi e questo
per un istante la rassicura.
Tutto bianco.
Il pavimento sotto di lei è candido. Come le pareti che può toccare
allargando le braccia. Si perdono lontano in un chiarore abbacinante.
Il bianco accecante e luminoso del latte, di una distesa di neve
appena prima di essere squarciata dai solchi degli sci.
Di una sala operatoria.
«Cosa è successo?», mormora. Dopo il primo pensiero lucido le
affluiscono alla mente una miriade di informazioni, frammenti
incoerenti di immagini, voci, ricordi e ancora domande, domande,
domande.
«C’è qualcuno? Dove sono? Aiuto». Le parole le escono di bocca
mentre si guarda attorno con gli occhi abbagliati.
È nuda in un luogo tutto bianco e l’unica cosa che riesce a fare è
piagnucolare.
«Cosa è questo posto?», sussurra di nuovo, e rabbrividisce
ascoltando la voce incerta e miagolante. Non è lei quella! Che razza
di sogno idiota. Gira su se stessa in cerca di orientamento.
Davanti si stende un corridoio largo che sembra senza fine. Dietro,
lo stesso.
Dove è finita? Come ci è arrivata? Quando si sveglierà? Ha solo il
vago ricordo del sapore di un liquore dolce, forse Baileys. Non le
viene in mente altro. Ha bevuto in un bar dopo essere uscita
dall’ufficio?
Cerca una spiegazione razionale. È il suo lavoro trovare risposte,
dopotutto. Fa l’avvocato, un avvocato giovane e rampante e tutto
questo non sta capitando a lei.
È nuda, stordita, in un posto estraneo e inquietante.
No, non è possibile, eppure con ogni evidenza qualcuno l’ha
drogata, spogliata, violentata e abbandonata in quel corridoio
lattescente.
O forse è solo un incubo troppo realistico.
Si tasta il corpo snello con entrambe le mani, e non trova lividi né
escoriazioni. Con cautela tasta il pube ben rasato, serrando le
palpebre per l’angoscia.
No, nessuna traccia di sperma. Sospira per il sollievo. Nessuno
l’ha violentata. Non ancora, almeno.
Il ronzio diventa più forte, le sembra di percepire la vibrazione
delle onde sonore sulla pelle. Fa qualche passo in avanti, esitando. Il
soffitto è basso, meno di un metro sopra la sua testa, e il ronzio
proviene da lì.
Anche la luce arriva da lì. Se ne rende conto quando si spegne di
colpo, lasciandola nel buio.
2
Quando cala la notte il condominio assume un aspetto inquietante.
Torreggia come una creatura di pietra sui giardini che lo circondano
e sulle siepi di confine. Le luci giallastre dei lampioni sulla strada
sembrano molto lontane, come le strie rosse delle macchine in
movimento. Dietro il palazzo si estendono i prati del Bosco di
Capodimonte, incastonandolo in uno spazio oscuro. Gli alberi neri si
stagliano contro il cielo come remote barriere al confine con la città.
La facciata è interamente rivestita in bugne di pietra vesuviana,
che lo rendono al tempo stesso grigio e luminoso, come se ogni
sfaccettatura della pietra fosse in grado di rifrangere la luce della
luna.
Anche quando di luna non ce n’è, come questa notte. Palazzo
Badenmajer sembra sospeso in un chiarore indefinito. Se qualcuno
facesse scorrere lo sguardo oltre il basso corpo centrale, lungo i
contrafforti ottagonali e su per le tre torri di sette piani ciascuna,
potrebbe scorgere ombre fuggevoli inseguirsi lungo la facciata a
salienti, insinuarsi nelle finestre a sesto acuto, strisciare sotto i
montanti dei bovindi, fino a rapprendersi in forme più dense.
Nessuno si trattiene troppo a lungo là fuori, al calar della notte. Chi
l’ha fatto in passato ora è pronto a giurare di sagome buie in
movimento. Sagome che hanno cercato di ghermirlo sporgendosi
dalle mura.
Fantasie dovute all’alcool, senza dubbio.
Comunque non c’è anima viva che dopo il tramonto si soffermi
vicino alle basi delle torri. Lì non ci sono finestre, e la parete sale
vertiginosamente per decine e decine di metri, fino a perdersi nel
velluto della notte.
Non c’è anima viva, anche adesso. L’alba è lontana ed Ecate
ancora percorre con i suoi cani ululanti le vie della notte.
Nessuno che passeggi nelle aiuole ben curate del giardino,
nessuno che si affacci dalle ampie finestre ogivali dell’atrio, che pure
irradiano una luce calda e all’apparenza confortevole. Nessuno che
scruti dai vetri che come centinaia di occhi spenti costeggiano la
facciata.
Non tutti gli appartamenti sono occupati, e l’unica finestra aperta
da quel lato è al quinto piano, in una casa che non è più abitata da
tempo.
Non c’è stato nessuno quindi, che si accorgesse della figura che è
germinata da uno dei grandi olmi che circondano il giardino. Una
strana creatura fornita di troppe zampe, che si è trascinata in silenzio
e si è confusa tra gli alberi.
Se qualcuno guardasse distrattamente giù non vedrebbe altro che
ombre, grandi ombre che si muovono lievi al soffiare del vento.
Nessuna traccia di vita, nessun lamento, solo una forma più densa
che a contatto con le mura si fonde nell’ombra.
La luna lontana nel cielo è appena un’unghia confusa tra i cirri,
che si inseguono trascinati dal maestrale.
Intere schiere di demoni della notte corrono lungo le bugne grigie
seguendo il ritmo del vento.
Nessuno lo guarda. È al sicuro, ma è l’ultima volta che ne cattura
una all’esterno.
Ha tanto spazio per giocare, dentro.
3
Capece
Capece faceva il portiere di notte da talmente tanto tempo che a
volte pensava gli stessero spuntando i denti da vampiro. Il weekend
era appena cominciato, e come al solito lui lo avrebbe passato dietro
a quel bancone, sveglio, mentre gli inquilini dormivano o
gozzovigliavano, maledetti loro.
Era cominciato per caso. Un lavoretto al Condominio Badenmajer,
giusto il tempo per dimostrare di avere un’occupazione onesta. In
quel periodo si trovava nella necessità di togliersi dalla circolazione
per un po’. Era sempre stato mingherlino, e la prospettiva di finire nel
carcere di Poggioreale, in cella con undici delinquenti molto più
grossi e cattivi di lui, lo aveva reso frenetico di arraffare al volo la
prima buona occasione. All’inizio era stato contento, il lavoro era
leggero e stare sveglio la notte non gli pesava. Oltre allo stipendio
aveva anche vitto e alloggio, e così gli anni erano passati senza che
si cercasse un impiego migliore. Ormai però era stufo di dormire di
giorno, perfino in quello libero, per alzarsi al calar della sera. Prima o
poi avrebbe dovuto darsi davvero una controllata ai canini.
Fuori al portone qualcuno stava trafficando con la chiave.
La luce sulla scalinata era fioca e non riusciva a vedere chi fosse,
ma premette ugualmente il pulsante di apertura e una folata di vento
trascinò dentro un po’ di foglie secche mentre l’inquilino entrava.
Capece riabbassò la testa sulla rivista che stava leggendo. Era
passata la mezzanotte, gli premevano addosso le prime ore di uno
schifoso sabato di lavoro. Non aveva certo intenzione di aiutare pure
qualcuno a portare pacchi pesanti. Non era compito suo.
Mantenne il capo piegato sui fogli continuando a guardare la
stessa pagina, mentre l’inquietudine gli montava dentro. Si sentiva
fissato, come se gli occhi dell’inquilino gli stessero perforando la
calotta cranica e l’uomo stesse spiando i suoi pensieri più reconditi.
Alzò la testa di scatto, per sorprenderlo, ma il tizio era indaffarato a
sfogliare il materiale di una cartellina, che reggeva insieme a un
pacchetto dall’aria pesante. Un altro pacco oblungo e ingombrante
stava per cadere a terra. L’uomo si girò e lo salutò. Nel sorriso i suoi
denti grandi e bianchi balenarono incorniciati da una barbetta rada e
nerissima. Capece si sentì obbligato a sorridere suo malgrado. Non
si era mai accorto che avesse occhi così neri, profondi e magnetici.
«Mi dà una mano con questa roba, per piacere?». Il tono era
come sempre affabile, con quel tanto di arroganza da dargli fastidio,
ma era un inquilino che dava sempre buone mance. Si precipitò a
levargli di mano il pacco più ingombrante. Sapeva benissimo che era
anche il più leggero.
«Ancora tele, dottore? Si vede che dipingere vi piace proprio». Lo
disse con la giusta dose di deferenza, e il tipo sorrise. In quella città
erano tutti dottori, a dare un titolo non si sbagliava mai.
«Hai ragione, Capece, mi piace e mi rilassa».
Era sempre contento quando gli inquilini ricordavano il suo nome,
per cui lo accompagnò fino all’ascensore, ma si ricordò di bloccare la
serratura del portone prima di allontanarsi dal suo posto. La notte
poteva essere lunga, talvolta, e se c’era vento le chiome degli alberi
bussavano con insistenza sui vetri dei battenti. Lui preferiva avere la
certezza di essere ben serrato all’interno.
Il tizio che dipingeva aveva circa la sua età, sulla quarantina, ma
più alto di lui, e con una bella chioma di capelli ricci, neri e ancora
folti che quasi gli copriva il collo del cappotto costoso. A Capece gli
uomini con i capelli lunghi in genere non piacevano. A lui si stavano
già diradando da un pezzo, ma quello era veramente un signore,
non solo nel portamento, ma anche nei modi. Per quei pochi passi
con un pacco leggero in mano gli diede una mancia consistente e lo
ringraziò pure.
Tornò soddisfatto al bancone della portineria. Soldi guadagnati col
duro e onesto lavoro, ogni tanto faceva piacere. Si guardò attorno
con sospetto. Nell’aria c’era qualcosa di diverso, come la traccia di
una presenza, come se un inquilino fosse appena entrato o uscito.
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