25 grammi di felicità Come un piccolo riccio può cambiarti la vita- Massimo Vacchetta

SINTESI DEL LIBRO:
MAGGIO 2013. Imperversava una primavera piena. Che però mi
passava accanto. O, un poco sbiadita nei colori e nei profumi,
sembrava camminare altrove. Non la vedevo, preso dalle mie
inquietudini.
Dentro di me, bruciava un’urgenza di cambiamento. La voglia di
rincorrere sogni, ancora non era spenta. Nonostante tutto. Malgrado
le ferite ricevute e le battaglie perse.
Scostai i capelli dalla fronte, come per scacciare quei pensieri
severi, e mi infilai nella stanza guardaroba. Scelsi, abbinando i colori
con meticolosa cura, un paio di pantaloni, un pullover leggero a collo
alto, una giacca sfoderata, scarpe, calze. Aggiunsi un orologio
piuttosto vistoso. Vestito di tutto punto, controllai allo specchio.
Quello grande. Tutto ok, fin nei minimi dettagli. Entrai nel soggiorno.
Lei, Greta, era lì. Raggomitolata sul divano. Alzò gli occhi dal tablet.
«Stai bene vestito così», esclamò compiaciuta.
Mentre mi guardava si spense quella sua espressione leggera. «I
tuoi occhi però sono sempre sfumati di malinconia. Anche quando
sorridi…» continuò quasi in un sussurro.
Accennai un mezzo sospiro, in risposta.
«Torno presto», le dissi e, prese le chiavi dell’auto, uscii. Guidai
piano nel traffico, mentre di nuovo nella mente si alternavano e si
aggrovigliavano sensazioni e riflessioni. Ero insoddisfatto del mio
lavoro, e della mia vita. Mi sembrava di brancolare in una oscurità
vuota, senza alcun orientamento. Avevo bisogno di qualcosa che mi
entusiasmasse. Che mi desse quella voglia di vivere di cui avevo
sete. Greta mi spingeva, credendo di aiutarmi. Ma io non volevo
prendere le direzioni che lei mi suggeriva. Erano sue. Non mie.
Quando finii il liceo – a quei tempi non la conoscevo ancora –
decisi di diventare veterinario. Sembrò a tutte le persone che mi
stavano intorno – anche a me – una scelta casuale. Ma non lo fu.
Realizzai solo più tardi che aveva radici lontane. Nella mia infanzia.
O forse il desiderio di aiutare gli animali era nato con me. Chissà.
Tuttavia, dopo anni di quel lavoro mi trovavo lì, con qualcosa che
non mi andava più bene. Con qualcosa che mi mancava. Una
grossa assenza di cui avvertivo il peso senza conoscerne il nome.
Greta, pragmatica, insisteva: «Prova a fare altro. Per esempio
potresti interessarti di piccoli animali. Cani, gatti. Tutti quelli da
compagnia. Sai che guadagneresti un sacco di più? E devi pensare
alla pensione. Una pensione integrativa. O una assicurazione». Mi
sembrava di avere accanto mio padre: fai questo, fai quello. Ma io
non ero e non sono così. Sono l’opposto di uno che si programma la
vita. Non era il mio stile. Non mi ci vedevo chiuso in un ambulatorio
tra vaccinazioni e microchip. Ero abituato a situazioni diverse,
senz’altro più estreme.
Eppure.
Eppure, pressato anche da lei, avevo cominciato a lavorare in due
ambulatori per piccoli animali. Solo un paio di volte alla settimana.
Ne stavo giusto raggiungendo uno. Dovevo sostituire Andrea, il
titolare, per tutto il week-end. Quando arrivai, dopo i saluti, lui diede
avvio alle consegne. Mi spiegò ogni cosa da fare, mentre ci
scambiavamo battute scherzose su di noi e sul lavoro. Prima che ci
congedassimo mi mostrò una scatola. All’interno c’era un animaletto.
Era molto piccolo.
«È un cucciolo di riccio», mi disse.
Guardavo con curiosità quell’esserino.
«L’ha trovato una signora. Nel suo giardino. È un orfanello. Me
l’ha portato perché non sapeva come prendersene cura», continuò
Andrea.
Il riccetto aveva gli occhi ancora chiusi. E tutta la pelle rosa,
senza peli. Gli aculei erano bianchi e morbidi, un po’ scomposti. Si
alzavano giusto dietro le sue piccolissime orecchie e proseguivano
rivestendo tutto il dorso.
«È nato forse da due o tre giorni, pesa solo venticinque grammi»,
precisò ancora Andrea.
«Venticinque grammi sono proprio un nonnulla…» commentai.
«Già… Dovrai dargli da mangiare diverse volte.»
«Quale latte è meglio usare in sostituzione di quello materno?»
«Mi hanno consigliato il latte di capra. Quello vaccino non va per
niente bene perché ha un contenuto molto elevato di lattosio, uno
zucchero che i ricci non tollerano. Glielo devi dare con una siringa da
insulina. Goccia a goccia.»
«Situazione piuttosto singolare!»
Presi il riccetto e lo appoggiai sul palmo della mano, per
osservarlo meglio. Fermai lo sguardo per un istante sui piedini
anteriori: le dita sottili li facevano somigliare a delle piccolissime
mani. Mi colpì quella similitudine, ma ricacciato il filo di emozione
che si stava facendo strada, proposi ad Andrea sorridendo:
«Facciamoci qualche foto con lui, poi le postiamo su Facebook».
Ci scattammo diversi selfie con gli smartphone. Io, lui e il riccetto.
Io e il riccetto. Lui e il riccetto. Scegliemmo le migliori da pubblicare.
Ci salutammo. E tornai verso casa, dove mi aspettava Greta.
La mattina dopo mi preparai con la solita minuziosa cura. Indossai
un paio di jeans e una camicia blu di lino. Passai in rassegna le
giacche e ne scelsi una casual, ma dal taglio impeccabile. Color
avana chiaro. Abbinai scarpe sportive. Controllai accuratamente
davanti allo specchio. Ci tenevo al mio aspetto fisico, ero conscio di
avere una certa avvenenza e ci puntavo.
Come d’accordo con Andrea, andai nel suo ambulatorio. Per
prima cosa volevo occuparmi del riccio. Quel curioso animaletto,
tutto sommato, mi aveva fatto una certa tenerezza, il giorno prima.
Aprii la porta e lì rimasi, impietrito. Avevo sentito un lamento. Un
pianto piccolo, sottile. Come di un pulcino. O di un uccellino. Gemiti
minuscoli e continui, intervallati da piccole pause. Arrivavano dritti al
cuore. A pungerlo. Mi facevano male. Suoni esili eppure acuti, a
forma di lacrima.
Il riccetto chiedeva aiuto.
Mi avvicinai alla scatola, piena di trucioli, che lo conteneva. Presi
quella bestiola e l’adagiai sul tavolo accanto.
Il riccio era freddo. Il gelo della vita che scivola via, per lasciare il
posto alla morte. Provai una pena infinita per quel piccolo animale.
Fui assalito da emozioni note eppure nuove, come risvegliate da un
torpore che le aveva tenute nascoste, o prigioniere, a lungo. Ero
avvezzo al dolore degli animali, purtroppo. Avevo creato uno scudo
che mi permetteva un certo distacco. Uno scudo che in un attimo
andò in frantumi davanti a quella creaturina.
Guardai il cucciolo con occhi diversi. Vidi il suo essere orfano.
Farneticai sulla sua mamma investita da un’auto, mentre cercava
cibo. Forse spiaccicata sull’asfalto. O comunque impossibilitata a
tornare nella tana. Immaginai lui, che aspettava invano. E la sua
paura. Probabilmente, disperato, era uscito dal suo nido. Per cercare
la madre. E in un istante, come una folgore, sentii la sua solitudine.
Tutta. Abissale. La riconobbi. Era come la mia, come la mia da
bambino.
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