Una domanda di matrimonio – Saul Bellow

SINTESI DEL LIBRO:
È abbastanza facile comprendere quali sono le intenzioni della
gente. E
non è difficile intuire, se si ha un briciolo di buonsenso, di che cosa è
veramente capace. Non vale davvero la pena di esaminare i soliti
repertori di stratagemmi, sotterfugi, disturbi della personalità, con le
loro mille variazioni sul tema dell'astuzia criminale. Molti anni sono
passati dall'ultima volta che ho trovato un certo interesse nella
Psicopatologia della vita quotidiana e nella sua - allora fresca - storia
segreta. Non abbiamo più bisogno di provare che un lapsus
riconduce alle malizie dell'Es. Ammetto che Freud fu uno degli
uomini più ingegnosi che siano mai vissuti, ma il suo sistema non mi
serve più di quanto mi serva l'orologio di Paley - metafora
dell'universo, caricato all'inizio, poi ticchettante per miliardi di anni.
Finché ci sarà qualcosa da supporre, qualcuno (in questo caso un
ecclesiastico inglese del Settecento) sicuramente la supporrà. Non
ho mai avuto un particolare desiderio di diventare famoso. E non
credo che un buon osservatore stenterebbe a riconoscermi per
quello che sono. Quando me lo chiedono, dico che vivo a Chicago e
che sono un mezzo pensionato, ma non mi curo mai di specificare il
mio mestiere. Non che ci sia molto da nascondere. Ma qualcosa in
me ne fa sospettare l'esistenza. Fisicamente, somiglio un po' a un
cinese. Dopo la guerra in Corea, mi mandarono a studiare il cinese
in una scuola speciale. Forse i miei esoterici talenti, con un processo
di segreta suggestione,
conferirono
al
mio
viso
un'espressione
da
asiatico
orientale. A scuola, i ragazzi non mi hanno mai chiamato
"Occhistorti"; mentre avrebbero potuto farlo, perché mi trovavo in
una categoria ambigua: ero un estraneo, un orfano. Ma anche
questo era fuorviante. I miei genitori, infatti, erano vivi. Ero stato
messo in un orfanotrofio perché mia madre aveva una malattia alle
articolazioni che la faceva passare da una casa di cura all'altra, per
lo più all'estero. Mio padre era un semplice carpentiere. I conti
venivano pagati dalla famiglia di mia madre, perché i suoi fratelli
erano dei ricchi produttori di salsicce e potevano permettersi le cure
che lei faceva a Bad Nauheim o a Hot Springs, nell'Arkansas.
A scuola si dava per scontato che io fossi uno dei bambini
dell'orfanotrofio.
Non
ebbi
mai
l'occasione
di
spiegare
le
mie
particolari circostanze, e tutte le peculiarità di queste circostanze
furono assorbite dalla struttura del mio viso: una testa rotonda,
capelli della misura consentita dall'orfanotrofio, un paio di grandi
occhi neri, una bocca larga con un labbro di considerevoli
dimensioni. Splendidi materiali per l'aspetto insidioso da Fu Manchu.
Il ritorno di un uomo a se stesso è un ritorno dal suo esilio spirituale,
poiché il significato di una storia privata è tutto qui: un esilio. Non mi
permisi di dare troppa importanza al mio labbro cinese.
Avevo deciso, pare, che occuparsi dell'immagine che uno ha di se
stesso, aggiustarla, rivederla, adulterarla, era una perdita di tempo.
Nei giorni in cui passavo in rivista le mie opzioni, credevo di potere
- di potere soltanto - effettuare un trasferimento a un'altra civiltà. I
cinesi non mi avrebbero mai notato in Cina, mentre nel mio paese
avere un'aria vagamente cinese non sarebbe bastato a impedire la
scoperta...
Forse intendo dire lo smascheramento.
Ma in Estremo Oriente resistetti solo cinque anni, gli ultimi due dei
quali passati in Birmania, dove strinsi importanti relazioni,
scoprendo, mentre ero immerso in un'altra civiltà, di avere un certo
fiuto per gli affari. Potendo ormai contare su una rendita derivante
dall'operazione birmana, che aveva un prolungamento
guatemalteco, ritornai a Chicago, dov'erano le mie radici spirituali.
Rinunciai
a
essere
un
cinese.
Certi
occidentali,
naturalmente,
preferivano trasformarsi in orientali. C'era il famoso eremita inglese
di Pechino descritto così brillantemente da Trevor-Roper; c'era
anche Cohen Due Pistole, il gangster di Montreal assoldato come
guardia del corpo da Sun Yat-sen, che a quanto sembra non volle
tornare mai più in Canada.
Si vedrà abbastanza presto che io avevo valide ragioni per
ristabilirmi a Chicago. Avrei potuto recarmi altrove - a Baltimora o a
Boston - ma la differenza tra una città e l'altra non è grande, sotto la
maschera superficiale. A Chicago avevo storie sentimentali non
concluse. A Boston o a Baltimora avrei continuato a pensare, ogni
giorno e con regolarità, alla stessa donna: a ciò che io avrei potuto
dirle, a ciò che lei avrebbe potuto rispondere. Gli "oggetti d'amore",
come li ha chiamati la psichiatria, non si trovano spesso e non si
mettono da parte facilmente.
La "distanza" è solo una formalità. La mente non ne tiene il minimo
conto.
Tornai a Chicago e aprii un ufficio in Van Buren Street. Insegnai ai
miei dipendenti a dirigerlo per me, e poi fui libero di riempire la mia
vita di attività più interessanti. Con una certa sorpresa da parte mia,
mi trovai a frequentare un gruppo di persone curiose. In un posto
come Chicago, la minaccia principale è il vuoto: lacune e brecce
umane, una specie di ozono spirituale che ha lo stesso odore della
candeggina. Una volta, erano i tram di Chicago a mandare un odore
simile. L'ozono è il prodotto di una combinazione tra l'ossigeno e i
raggi ultravioletti negli strati più alti dell'atmosfera.
Trovai dei sistemi per difendermi da questa minaccia liminare (il
pericolo di essere risucchiato nello spazio). Abbastanza
stranamente, cominciai a essere invitato come persona che sapeva
molte cose dell'Oriente. Questo, almeno, era ciò che credevano le
padrone di casa: non ero io a pretenderlo. Comunque, non c'era
bisogno di molte parole.
Mi sistemai in un appartamento ai margini di Lincoln Park, e ben
presto ebbi un colpo di fortuna. A un dinner party conobbi il vecchio
Sigmund Adletsky e sua moglie. Adletsky è un nome noto
dappertutto, come quello del Principe Carlo o di Donald Trump;
oppure, in tempi più remoti, lo Scià di Persia o Basii Zaharoff.
Adletsky, sì, il vecchio Capo in persona, il colosso fondatore, l'uomo
sotto il quale era stato costruito il complesso alberghiero
incomparabilmente lussuoso che adorna la costa caraibica del
Messico - uno dei tanti centri di vacanze che sorgono sulle spiagge
subtropicali di molti continenti. Il vecchio Adletsky aveva ormai
ceduto il proprio impero ai figli e ai nipoti. Non avrebbe mai degnato
di un'occhiata le persone come me, se fosse stato ancora alla testa
della sua catena di alberghi, compagnie aeree, miniere, laboratori di
elettronica.
La cena alla quale ci incontrammo era stata offerta da Frances
Jellicoe. Un Jellicoe aveva comandato la grande flotta britannica
nella Battaglia dello Jutland (1916). La famiglia aveva un ramo
americano (così dicevano i Jellicoe americani), che era ricchissimo.
Frances, erede di una fortuna, aveva ereditato anche una collezione
di dipinti che comprendeva un Bosch, un Botticelli e diversi ritratti di
Goya, oltre ad alcuni Picasso del mio genere preferito: occhi e nasi
multipli. Avevo una grande ammirazione (una grande stima) per
Frances. Fritz Rourke, suo marito e padre dei suoi due figli, aveva
divorziato da lei, ma lei continuava ad amarlo, e non astrattamente.
Quella sera Rourke era presente, ubriaco e rumoroso, e la cosa più
cospicua di quell'uomo fu la qualità o il grado dell'amore visibile nella
sua exmoglie quando lei si alzò per lui. Massiccia e corpulenta,
Frances non era mai stata bella.
Quella sera, nella sala da pranzo di Gold Coast, il suo viso era in
fiamme, e il labbro inferiore le scopriva i denti. Rourke si era
sbronzato in fretta; e ben presto sfuggì a ogni controllo, mettendosi a
spaccare
bicchieri.
Andando
a
piazzarsi
dietro
la
sedia
di
quell'incontrollabile ex-marito, Frances fece una muta dichiarazione
di sconforto, militanza, fedeltà. Ebbene, per me quella era una
donna preziosa. Non per i milioni del suo fedecommesso
testamentario, ma per il suo carattere: un carattere di gran pregio.
Il vecchio Adletsky era seduto al mio tavolo, e anche lui stava
osservando tutto. La mia ipotesi è che poche cose di questo genere
accadessero in presenza di un uomo così ricco. Per lui, ciò che
accadde durante la cena può essere stato un po' come un ritorno ai
primi tempi dell'immigrazione. Essere miliardario è come vivere in un
ambiente protetto, immagino. Era un uomo piccolino, rinsecchito da
un gran carico d'anni. Non molto robusto, tanto per cominciare. Nel
Nuovo Mondo, la sua generazione di immigrati rachitici e denutriti
piovuti nel melting pot aveva prodotto figli di un metro e novanta, e
figlie grandi e prolifiche.
Io stesso ero più grosso e pesante dei miei genitori, anche se
intimamente più fragile, forse.
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