Un perfetto bastardo – Vi Keeland

SINTESI DEL LIBRO:
Misi il piede destro sul terzo vagone della metropolitana e mi immobilizzai
individuando lui già lì dentro. Merda! Era seduto proprio di fronte al mio
solito posto. Feci retromarcia.
«Ehi, guarda dove vai!». Un tale che indossava un completo per poco non si
rovesciò il caffè addosso quando mi precipitai fuori dalla carrozza senza
guardare e gli andai a sbattere contro. «Ma che diavolo…?»
«Mi scusi!», farfugliai, e proseguii. Mi abbassai sotto il finestrino della
metropolitana percorrendo il binario per qualche vagone. Le luci accanto a
ogni porta si accesero di rosso e un forte segnale acustico risuonò per
avvisare che il treno era in partenza. Saltai sulla carrozza numero sette
proprio mentre le porte stavano iniziando a chiudersi.
Mi ci volle un intero minuto per riprendere fiato, dopo aver corso l’intera
lunghezza di quattro vagoni.
Ho decisamente bisogno di tornare in palestra.
Trovai un sedile vuoto, rivolto verso la direzione di marcia, accanto a un
uomo, e mi sedetti lì anziché nell’altra mezza dozzina di posti liberi girati nel
senso opposto. Il tizio abbassò il giornale quando mi sistemai accanto a lui.
«Mi perdoni», dissi. «Non riesco a viaggiare all’indietro».
I due sedili di fronte a noi erano vuoti. L’etichetta suggeriva di occupare
uno di quelli, ma immaginai che l’uomo preferisse la scomodità al mio
vomito.
Lui sorrise. «Neanch’io».
Infilai le cuffie, feci un sospiro di sollievo e chiusi gli occhi mentre il treno
iniziava a muoversi. Un minuto dopo, sentii un lieve colpetto sulla spalla. Il
passeggero accanto a me mi indicò un uomo in piedi nel corridoio.
Mi sfilai con riluttanza un auricolare.
«Soraya. Mi sembrava di averti vista, e infatti eccoti qui».
Quella voce.
«Ehm… Ciao». Quale diavolo era il suo nome? Oh, aspetta… Come avevo
fatto a scordarlo? Mitch. Mitch Lo Smanioso. Per colpa di quel disastro
ancora non parlavo con mia sorella. Il peggiore appuntamento al buio di
sempre. «Come va, Mitch?»
«Bene, davvero alla grande ora che ti ho incontrato. Ho provato a contattarti
un paio di volte. Devo aver trascritto il numero sbagliato, perché non hai mai
risposto ai miei messaggi».
Già. Proprio così.
Si grattò le parti basse attraverso i pantaloni. Mi ero quasi scordata di quella
raffinatezza. Probabilmente era un tic nervoso, ma ogni volta che lo faceva il
mio occhio seguiva la sua mano. Mitch Lo Smanioso Col Prurito. Grazie,
sorellina.
Lui si schiarì la voce. «Magari potremmo prenderci un caffè, stamattina?».
L’uomo in completo accanto a me abbassò di nuovo il giornale, guardò
Mitch e poi me. Non potevo essere perfida con quel poveretto; era stato così
gentile.
«Ehm…». Appoggiai la mano sulla spalla dell’uomo al mio fianco. «Non
posso. Questo è il mio ragazzo, Danny. Siamo tornati insieme una settimana
fa, vero, tesoro?».
Mitch sbiancò. «Oh. Capisco».
Il finto Danny stette al gioco. Mi mise la mano su un ginocchio. «Io non
sono un tipo che condivide, amico. Quindi, fatti un giro».
«Non c’è bisogno di essere così scortese, Danny». Lanciai un’occhiataccia
al tizio in completo.
«Non sono stato scortese, piccola. Questo sarebbe scortese».
Prima che potessi fermarlo, le sue labbra furono sulle mie. E non fu
neppure un breve bacio a stampo. La sua lingua non perse tempo a entrarmi
in bocca. Io gli colpii il petto con forza, spingendolo via.
Mi pulii col dorso della mano. «Scusa, Mitch».
«È tutto okay. Ehm… Scusate se vi ho interrotto. Stammi bene, Soraya».
«Anche tu, Mitch».
Non appena Lo Smanioso fu fuori portata d’orecchi, fulminai con lo
sguardo il falso Danny. «Perché diamine l’hai fatto, coglione?»
«Coglione? Due minuti fa ero “tesoro”. Deciditi, dolcezza».
«Hai una bella faccia tosta».
Lui mi ignorò e prese dalla tasca della giacca il telefono che stava vibrando.
«È mia moglie. Potresti calmarti per un minuto?»
«Tua moglie? Sei sposato?». Balzai in piedi. «Dio, sei davvero uno
stronzo».
Le sue gambe erano distese; non le spostò neppure per lasciarmi passare,
così le scavalcai. Quando si accostò il telefono a un orecchio glielo sfilai di
mano e parlai al microfono senza ascoltare.
«Tuo marito è un grandissimo stronzo».
Gli gettai il dispositivo tra le gambe e me ne andai nella direzione opposta a
quella di Mitch.
Era solamente lunedì, maledizione.
Quel genere di episodi era la storia della mia vita. Imbattermi in brutti
appuntamenti. Uomini che si rivelavano essere sposati.
Mi diressi dentro un’altra carrozza, così non avrei dovuto vedere più né
“Danny”, né tantomeno Mitch.
Per mio sommo piacere quel vagone non era affollato, e c’era anche un
sedile vuoto rivolto nel senso giusto. La mia pressione sanguigna tornò a
stabilizzarsi non appena vi sprofondai. Chiusi gli occhi per un momento e
lasciai che il movimento ondeggiante del treno mi calmasse.
Un uomo dalla voce dura interruppe la mia serenità. «Cazzo, fa’ soltanto il
tuo lavoro, Alan. Fa’ il tuo lavoro. È chiedere troppo? Perché ti pago se devo
controllare io ogni minima scemenza? Le tue domande non hanno senso!
Scoprilo e poi torna da me quando avrai una soluzione che valga il mio
tempo. Il mio cane probabilmente verrebbe fuori con qualcosa di molto più
intelligente delle tue argomentazioni».
Stronzo.
Quando diedi un’occhiata per cercare di individuare la fonte della voce, non
potei trattenermi dal ridere da sola. Ma certo. Ma certo! Non c’erano dubbi
sul perché l’uomo pensasse di poter trattare di merda chiunque. Con un
aspetto come quello, di sicuro le persone gli cadevano davanti in ginocchio in
continuazione, sia in senso figurato sia letteralmente. Era bellissimo. E in più
emanava un’aura di potere e soldi. Alzai gli occhi al cielo… Ma non riuscii a
distogliere a lungo lo sguardo.
Indossava una camicia a righe su misura che rendeva facile immaginarsi la
silhouette scolpita al di sotto. La giacca blu dall’aspetto costoso era distesa
sulle ginocchia. Le scarpe nere eleganti ai suoi grandi piedi sembravano
essere state appena lucidate. Era decisamente uno di quegli uomini che si
lasciavano lucidare le scarpe in aeroporto dalle persone evitandone il contatto
visivo.
Tuttavia, l’accessorio più degno di nota era lo sguardo furioso sul suo viso
perfetto. Aveva terminato la telefonata, e sembrava proprio incazzato: forse si
era svegliato con la luna storta. Una vena gli spuntava dal collo. Per la
frustrazione si passò una mano tra i capelli scuri.
Cambiare con questa carrozza era stata proprio un’ottima scelta, anche solo
per il piacere degli occhi. Il fatto che lui fosse così incurante di chiunque altro
intorno a sé rendeva facile guardarlo sognante. Era così maledettamente sexy,
con quell’espressione arrabbiata. Qualcosa mi diceva che in effetti quella era
la sua espressione usuale. Era come un leone: un animale che ammiri da
lontano, laddove ogni contatto concreto potrebbe causare un danno
irreparabile.
Le maniche della camicia erano arrotolate e un enorme e costoso orologio
spiccava sul polso destro. Accigliato, l’uomo fissava fuori dal finestrino e
giocherellava con l’orologio, rigirandolo avanti e indietro. Sembrava
un’abitudine nervosa. Buffo, ero sicura che lui stesso innervosisse un
mucchio di gente.
Il suo cellulare squillò di nuovo.
Rispose. «Che c’è?».
La sua voce era quella specie di baritono roco che ogni volta mi colpiva
dritto in mezzo alle gambe. Avevo un debole per i timbri profondi e sexy, ma
difficilmente nella realtà la voce combaciava anche con l’uomo giusto.
Tenendo il telefono con la mano destra, usava l’altra per continuare a
trafficare con l’orologio.
Tic. Tic. Tic.
«Dovrà aspettare», ringhiò. «La risposta è che sarò lì quando ci arriverò…
Qual è la parte che non ti è chiara, Laura? … Il tuo nome non è Laura? Quale
diavolo è allora? … Dunque, Linda, digli che può rimandare se non vuole
aspettare».
Dopo aver riattaccato, borbottò qualcosa sottovoce.
Le persone come lui mi affascinavano. Pensavano di possedere il mondo
soltanto perché erano stati benedetti dalla genetica o gli erano state date delle
opportunità che li avevano elevati a una condizione economica superiore.
Non indossava una fede nuziale. La sua giornata consisteva in attività del
tutto egoistiche e impersonali, ci avrei scommesso. Un caffè espresso
costoso, lavorare, mangiare in ristoranti di lusso, scopare senza amore… e
così via. Farsi lustrare le scarpe e giocare a squash in qualche intervallo nel
mezzo.
Scommettevo pure che era egoista anche a letto. Non che io l’avrei buttato
fuori dal mio, però. Non ero mai stata con nessuno di così potente come
quell’uomo, per cui non sapevo come si sarebbe comportato sotto le lenzuola.
La maggior parte dei ragazzi con i quali ero uscita erano artisti squattrinati,
hipster o ambientalisti. La mia vita era lontana da quella di Sex and the City.
Era più Sex and the Pity, sesso e pietà. O Sex and the Shitty, sesso e
schifezza. Non mi sarebbe dispiaciuto recitare per un giorno il ruolo di Carrie
con questo Mr. Big, o in tal caso Mr. Big Prick, Mr. Gran Cazzone.
Assolutamente sì, cavolo.
C’era solo una lacuna in questa mia piccola fantasia: io non ero proprio il
suo tipo. Probabilmente gli piacevano le tipe bionde smarrite e sottomesse
dell’alta società, e non formose ragazze italiane di Bensonhurst
dall’atteggiamento irriverente e i capelli multicolore. Con le trecce lunghe
fino al sedere, sembravo un incrocio tra Elvira e Pocahontas col culo grosso.
Tingevo le punte dei capelli di un colore diverso ogni due settimane, a
seconda del mio umore. In quel momento le avevo di un blu scuro, il che
significava che le cose mi stavano andando abbastanza bene. Erano rosse
quando mi si doveva stare alla larga.
Il mio flusso di pensieri fu interrotto dallo stridio del treno che si fermava.
Di colpo, Mr. Gran Cazzone si alzò; al suo passaggio una scia di dopobarba
costoso saturò l’aria. Persino il suo profumo era sensuale ma pungente.
L’uomo si precipitò fuori dalle porte, che si richiusero dietro di lui.
Se n’era andato. Tutto qui. Lo spettacolo era finito. Bene, era stato bello
finché era durato.
Io sarei scesa alla fermata successiva, quindi mi avviai verso la stessa porta
dalla quale era appena uscito lui. Con il piede urtai qualcosa, che scivolò sul
suolo come un disco da hockey, inducendomi ad abbassare lo sguardo.
Il mio cuore iniziò a battere più in fretta. A quanto pareva Mr. Gran
Cazzone aveva perso un pezzo di se stesso.
Gli era caduto il telefono.
Il suo fottuto telefono!
Era corso fuori dal treno così in fretta che doveva essergli caduto dalla
mano. A quanto pareva ero stata troppo impegnata ad ammirare il suo sedere
succulento per notarlo. Raccolsi l’iPhone e lo sentii caldo nella mia mano. La
custodia sapeva di lui. Desiderai annusarlo da più vicino, ma mi trattenni.
Mi coprii la bocca e mi osservai intorno. Se la mia vita fosse stata uno show
in TV, la risata registrata sarebbe stata inserita proprio in quel momento.
Nessuno mi stava guardando. A nessuno sembrava importare che avevo il
telefono di Mr. Pantaloni Costosi.
Che cosa devo farne?
Lo infilai nella borsetta leopardata. Mi sembrò di nascondere una bomba
mentre scendevo alla stazione e mi avviavo sul marciapiede soleggiato di
Manhattan. Il cellulare vibrò per le notifiche dei messaggi e squillò almeno
una volta. Non ero pronta a toccarlo di nuovo, non prima di prendere il mio
caffè. Dopo essermi fermata al solito venditore ambulante, sorseggiai la
bevanda mentre percorrevo i due isolati fino al lavoro.
Quel giorno ero in ritardo, così decisi di rimandare la curiosità per la vita di
Mr. Gran Cazzone all’ora di pranzo. Quando giunsi alla mia scrivania, tirai
fuori il suo telefono e realizzai che la batteria era quasi a zero, così lo misi
sotto carica.
Essere un’assistente in una rubrica di consigli di cuore non era certo il
lavoro dei miei sogni, ma ci pagavo le bollette. Ida Goldman era la
proprietaria di Chiedi a Ida, una storica rubrica quotidiana. Parte del mio
lavoro consisteva nel decidere, tra le domande che arrivavano, quali passare a
lei. Alcune risposte selezionate erano pubblicate sulla rivista, mentre le
restanti venivano postate sul suo sito. Negli ultimi tempi Ida stava cercando
di addestrarmi, infatti mi aveva chiesto di rispondere ai lettori.
Mentre i consigli del capo, però, erano sempre sensibili e politically
correct, i miei affrontavano le questioni senza tanti giri di parole: in pratica
tralasciando le stronzate. Come risultato le mie risposte non venivano mai
pubblicate. Ogni tanto, non resistevo e mi prendevo la briga di dare un
riscontro a certe domande che non avevano superato la scrematura, quelle che
sarebbero finite comunque nella spazzatura. Alcune persone necessitavano
davvero di una guida, e sentivo che sarebbe stato un disservizio ignorare le
loro richieste di aiuto.
Solo di recente ho scoperto che mio marito ha una collezione porno. Cosa devo
fare? – Trisha, Queens.
Bingo! Investi in un buon vibratore. Assicurati di rimettere tutto come prima dopo
essertela spassata mentre lui era al lavoro.
Mi sono sbronzata a una festa e ho baciato il ragazzo della mia migliore amica. Ora
non riesco a smettere di pensarlo. Mi sento orribile ma credo di essermi innamorata di
lui adesso. Qualche perla di saggezza? – Dana, Long Island.
Sì. Sei una troia. A domani, Dana!
Di recente il mio ragazzo mi ha chiesto di sposarlo. Ho detto di sì. È l’uomo più
dolce e gentile che abbia mai conosciuto. Il problema è che il diamante che mi ha
regalato è più piccolo di quanto avessi sperato. Non vorrei ferire i suoi sentimenti,
davvero. Devo trovare un modo gentile per esprimere il mio disappunto – Lori,
Manhattan.
Dio ebbe lo stesso dilemma quando gli toccò creare te, tesoro. P.S. Quando il tuo
fidanzato scaricherà il tuo culo egoista, dagli il mio numero.
Rispondere a qualche email in modo onesto e schietto sembrava sempre
darmi l’energia di cui avevo bisogno per far ripartire la mia giornata. La
mattinata passò in fretta. A mezzogiorno, il cellulare di Mr. Gran Cazzone
aveva la batteria del tutto carica, così lo portai con me a pranzo. Avevo
ordinato cibo thailandese per me e per il mio capo.
Dopo aver finito Ida lasciò la stanza, così ebbi dieci minuti di privacy per
passare al setaccio il telefono. Fortunatamente, non era protetto da una
password. Prima tappa: foto. Non ce n’erano molte e, se avevo pensato di
essere in grado di raccogliere indizi su chi fosse quell’uomo basandomi sulla
galleria fotografica, mi ero sbagliata di grosso.
La prima immagine era di un cagnolino bianco e peloso. Sembrava un
Terrier. Quella successiva era di una donna in topless con una bottiglia di
champagne incastrata tra le tette. Erano pallide, perfettamente rotonde e del
tutto finte. Puah! Poi c’erano altre foto del cagnolino, seguite da una scattata
a un gruppo di anziane. Ma che cavolo…? Non potei fare a meno di
scoppiare a ridere a voce alta: l’ultima immagine era un selfie di lui e una
donna anziana. Era vestito in modo più casual, i capelli scompigliati, e stava
sorridendo. In quello scatto era così incredibilmente affascinante. Difficile
credere che quello fosse lo stesso tizio spocchioso in giacca e cravatta del
treno, ma il suo bellissimo viso lo confermava.
Ancora cinque minuti e sarei dovuta tornare alla mia scrivania. Non c’era
un account email associato al telefono, così aprii i suoi contatti e decisi di
chiamare il primo nome della lista: Avery.
«Bene, bene. Graham Morgan. Da quanto tempo. Cos’è successo? Hai
scorso già l’intero alfabeto e ora stai ricominciando di nuovo daccapo? Ti
ricordi che non sono uno dei tuoi balocchi, vero?». Udii il chiasso di un
clacson e del traffico in sottofondo, seguito dallo sbattere della portiera di
un’auto, che attutì i rumori della città. «All’edificio Langston. E non passare
dal parco: i ciliegi sono in fiore, e non voglio che mi si gonfi la pelle prima
della riunione». La donna finì di abbaiare con l’autista e poi si ricordò del
telefono. «Allora, cosa c’è, Graham?»
«Ehm… Salve. Non sono Graham, in realtà. Il mio nome è Soraya».
«Sor… che?»
«Sor-a-ya. Significa “principessa” in persiano. Anche se io non sono
persiana. Solo che mio padre credeva…».
«Qualunque sia il tuo nome, dimmi cosa vuoi e perché mi stai sottraendo
del tempo prezioso. E perché mi stai chiamando dal cellulare di Graham
Morgan?».
Graham Morgan. Persino il suo maledetto nome era sexy. Avrei dovuto
immaginarlo.
«Ho trovato questo telefono sul treno. Sono abbastanza sicura appartenga a
un uomo che ho visto questa mattina. Circa trent’anni, forse? Capelli scuri
pettinati all’indietro, piuttosto lunghi, arricciati all’altezza del collo.
Indossava un completo gessato blu scuro. E portava un grosso orologio».
«Bello, arrogante e incazzato?».
Ridacchiai un po’. «Sì, è lui».
«Il suo nome è Graham Morgan, e so esattamente dove dovresti portare il
telefono».
Pescai una penna dalla borsetta. «Okay».
«Per caso sei da qualche parte vicino alla metro Uno?»
«Non sono troppo lontana».
«Bene, prendi la metro e attraversa la città. Supera Rector Street e scendi al
terminal dei traghetti sud».
«Okay. Posso farcela».
«Una volta scesa, gira a destra a Whitehall e poi a sinistra in South Street».
Conoscevo quella zona e cercai di visualizzare con la mente gli edifici là
intorno. Era un quartiere piuttosto commerciale.
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