Storia di una moderna Cenerentola – Lucia Cantoni

SINTESI DEL LIBRO:
I cambiamenti non mi erano mai piaciuti. Non ne avevo paura,
semplicemente mi suscitavano una sorta di inquietudine in petto; mai
lasciare la strada vecchia per quella nuova si dice, ci sarà pur un
motivo! Eppure arriva un momento nella nostra vita nella quale il
cambiamento diventa un fattore necessario nell’equazione della
nostra esistenza. Quando meno te lo aspetti arriva, quel qualcosa
che manda tutto il tuo mondo a gambe all’aria e ti costringe a
prendere delle decisioni inaspettate.
Non avrei mai creduto di avere il coraggio di lasciare su due piedi
la mia casa, mio padre, gli affetti più cari che mi legavano al piccolo
paese sperduto nella campagna toscana nel quale ero nata e
cresciuta. Non prima della morte di mia madre. La normale vita di
tutti i giorni, che fino a quel momento avevo sempre considerato
mediocre, era diventata un miraggio da rincorrere in un deserto di
dolore. Si erano spente le luci, era calato il sipario ed ero stata
consapevole che da quel momento le cose inevitabilmente non
sarebbero più state quelle di prima.
Vedevo mio padre annaspare per cercare di racimolare il denaro
necessario per mantenerci con un unico stipendio; mi ero perfino
offerta di trovare un lavoro, ma lui non ne aveva voluto sapere. Più di
una volta mi aveva assicurato che le cose si sarebbero sistemate,
che il mio compito era studiare per riuscire al massimo in ciò che
avrebbe costituito il mio futuro, ma tutto ciò mi faceva sentire
semplicemente inutile e gravosa sulle spalle della mia famiglia.
Quando arrivò quella telefonata, inaspettata e raggelante come un
iceberg in pieno petto, il primo pensiero fu quello di rifiutare. Perché,
di punto in bianco, una ricca signora della Torino bene voleva offrirmi
vitto e alloggio nella sua raffinata dimora, mantenendomi perfino agli
studi, in cambio solo di qualche mansione domestica? E poi per
quale ragione avrei dovuto lasciare tutto? Interrogativi che non
trovarono mai una risposta, sfumati come sabbia travolta dalle onde
al solo udire quelle parole:
«Me l’ha chiesto tua madre.» Smisi di cercare una giustificazione,
mi affidai semplicemente al corso degli eventi. Mia madre mi amava
più di se stessa e se lei aveva voluto questo per me, allora voleva
dire che era la scelta giusta.
Patricio, mio padre, si era mostrato un po’ riluttante all’inizio e
poco propenso nel vedermi partire, ma alla fine aveva assecondato,
come sempre, i miei desideri.
Ricordo il giorno in cui partii; erano gli inizi di ottobre e le prime
avvisaglie di freddo cominciavano a farsi sentire. Avvolta nel
giubbotto ancora leggero e valige alla mano, mi ero accoccolata in
macchina in attesa dell’arrivo di papà. Thor, il mio alano che avevo
tanto insistito per portare con me, ronfava già con insistenza nel
baule della monovolume di Patricio.
Avevo visto sfrecciare davanti agli occhi tutte le strade conosciute
della mia infanzia; i profumi della campagna toscana mi avrebbero
accompagnato nella mia nuova casa, come il verde, il ramato e il
giallo dei suoi colori in autunno. Ingoiai il groppo che avevo in gola e
mi feci coraggio per non piangere, non volevo che papà si
preoccupasse.
Quando giunsi a tenuta Carignani, pensai subito che doveva
esserci stato un errore, non poteva essere davvero quella la mia
destinazione. Ettari e ettari di boschi e campagne si estendevano a
vista d’occhio, curati e rigogliosi. La zona padronale era composta
da un maestoso castello che, anche se restaurato e rimodernato,
non aveva perduto la bellezza e la struttura originaria. Mio padre
fischiò meravigliato.
«Accidenti, mi amor, è un paradiso.» Io ero semplicemente
rimasta senza parole. Mi limitai ad annuire e a stringere
nervosamente nel palmo della mano il guinzaglio di Thor. Mi
aspettavo quasi di vedere da un momento all’altro comparire nel bel
mezzo del cortile dei cavalieri a cavallo.
Gli unici cavalli che in realtà ebbi modo di ammirare furono,
invece, quelli che rombavano sotto il cofano di una splendida Jaguar
nera metallizzata che comparve da una strada secondaria,
silenziosa e predatoria, sollevando un filo di polvere dal sentiero
sterrato.
Ne uscì una donna matura e distinta. I lunghi capelli, ormai resi
argentati dal tempo, erano stati raccolti in un elegante chignon
arricchito con un filo di perle, le stesse purissime che portava al collo
da cigno ancora lungo e leggiadro. Era magra e minuta e le sue
movenze ricordavano molto quelle di una ballerina di musica
classica, aggraziate e leggere. Sorrise gentilmente in nostra
direzione anche se gli occhi, di un limpido azzurro cielo, rimasero
freddi e inespressivi. Mi tese la mano che io strinsi, incerta.
«Signor de la Cruz, Costanza, benvenuti.» Ci accolse con voce
decisa.
«Clarissa, è un piacere rincontrarla.» Rispose mio padre educato,
ma a disagio.
«Si ferma qui per cena, Patricio?» domandò cortese, ma piuttosto
asciutta la donna.
«No, grazie per l’offerta, ma devo tornare in Toscana e il viaggio è
piuttosto lungo.» Si limitò a dire con un’alzata di spalle mio padre,
sfiorandomi una guancia con le labbra e pungendomi con la barba
ispida e quasi completamente bianca. Era il suo modo di salutarmi;
per queste cose le parole non servivano, un gesto valeva molto di
più. Lo osservai allontanarsi, scomparendo oltre gli alberi e percepii
distintamente gli occhi di Clarissa trafiggermi la schiena.
«Vieni, cara, ti mostro la casa e i tuoi alloggi.» Disse
semplicemente, passandomi un braccio intorno alle spalle e
guidandomi all’entrata della tenuta. Mi asciugai frettolosamente le
due lacrime dispettose che mi avevano inumidito gli occhi e poi la
seguii accompagnata da Thor.
Una cameriera aprì l’importante portone in mogano scuro,
facendoci entrare.
Nella sala d’ingresso i pavimenti rilucevano di colori meravigliosi,
sapientemente elaborati in disegni intricati e artistici; un grosso
lampadario di cristallo catturava la luce risplendendo come un astro
rubato alla volta celeste. Della brasca, ancora ardente, fumava da un
camino caldo e accogliente. I soffitti a cassettoni in legno intarsiato
sporgevano maestosi facendo bella mostra di sé e proclamando a
gran voce l’estrazione sociale dei proprietari di quella dimora. Una
scalinata in pietra levigata dava accesso ai piani superiori.
Ero decisamente a disagio con la padrona di casa e
completamente rapita dalle meraviglie sulle quali i miei occhi si
stavano posando.
«Vuoi del tè, cara? Mi piacerebbe scambiare qualche parola con te
mentre la tua camera viene preparata.» Sorrisi a stento, in
soggezione, ma risposi affermativamente; anche a me non sarebbe
dispiaciuto avere qualche chiarimento.
Clarissa diede alcune brevi indicazioni alla cameriera e poi mi
invitò a prendere posto nell’intimo salottino che era stato disposto
accanto al fuoco. Sprofondai nella morbida poltrona di pelle scura,
cercando di sedermi compostamente e sistemandomi la gonna che
mi si era arricciata sopra le ginocchia.
La donna si accomodò nella seduta di fronte alla mia,
congiungendo i palmi delle mani; un grosso rubino scarlatto riluceva
dal medio della sua mano destra.
«Mi rallegra che tu abbia accettato la mia proposta, Costanza.»
Esordì sorridendo, pur senza entusiasmo.
«Io sono lusingata dalla sua generosità, signora Carignani, ma
devo essere franca con lei… il motivo di tanta disponibilità nei miei
confronti continua a sfuggirmi. Conosceva bene mia madre?»
Domandai tutto d’un fiato prima che mi mancasse il coraggio di
proferire quelle parole.
La cameriera giunse il quel momento, poggiando due tazze
traboccanti di tè e un vassoio ricolmo di pasticcini secchi.
«Una o due zollette di zucchero, cara?» mi chiese imperturbabile.
«Una, grazie.» Il dolce parallelepipedo affondò nel liquido caldo
con un delicato tonfo, poi ci fu un imbarazzante silenzio, riempito
solo dallo sfregare dei cucchiaini di pregiata argenteria sul servizio di
porcellana.
«Era proprio di questo che volevo parlare con te…» continuò
Clarissa, dopo una pausa interminabile.
«Conoscevo molto bene tua nonna e, quando si ammalò e morì,
mi affidò tua madre, che riposi in pace. Io ho cresciuto Mirella come
se fossa stata mia figlia.» Sgranai gli occhi dalla sorpresa; perché
allora lei non mi aveva mai parlato di quella donna?
«Comprendo il tuo sconcerto; purtroppo, avvenimenti dei quali non
posso fornirti spiegazioni, ci hanno irrimediabilmente allontanate e il
nostro rapporto si è compromesso ma non voglio tediarti con inutili
ricordi. Quello che voglio che tu sappia è, invece, che sono davvero
felice di averti qui e che mi ricordi incredibilmente lei, quella figlia di
cui ho perso l’affetto troppo presto.» Mi ravviai i capelli all’indietro
senza sapere cosa dire, così buttai lì la prima cosa che mi passava
per la testa:
«Ha altri figli, signora Carignani?» il dolore era trapelato chiaro e
vivido dalle sue parole e volevo sapere fino a che punto
quell’anziana donna si fosse sentita sola dopo la partenza di mia
madre; se il vuoto lasciato da Mirella fosse stato il motivo della
freddezza che filtrava dai suoi occhi algidi, nonostante il sorriso le
incurvasse le labbra. Clarissa poggiò la tazza sul piattino
socchiudendo le palpebre, meditabonda.
«Sì, avevo un figlio, ci ha lasciato l’anno scorso in seguito a un
tremendo incidente aereo.» Disse sommessamente. Trattenni il fiato
ansiosa; sembravo non azzeccarne una.
«Mi dispiace, sono desolata.» Sussurrai abbassando il viso.
«Dio ha voluto chiamare a sé molte persone a me care,
lasciandomi a vagare su questa terra con ben poche gioie, ormai,
vorrei tanto che tu potessi essere una di queste.» Mormorò,
sfiorandomi la mano con la sua. Non potei fare a meno di sorriderle;
forse anch’io avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di
me, ora che mio padre era lontano e mia madre non c’era più
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