Storia di chi fugge e di chi resta – Elena Ferrante

SINTESI DEL LIBRO:
Ho visto Lila per l’ultima volta cinque anni fa, nell’inverno del 2005.
Stavamo passeggiando di buon mattino lungo lo stradone e, come ormai
da anni, non riuscivamo a sentirci a nostro agio. Parlavo solo io, mi
ricordo: lei canterellava, salutava gente che nemmeno rispondeva, le rare
volte che mi interrompeva pronunciava solo frasi esclamative, senza un
nesso evidente con ciò che dicevo. Erano successe negli anni troppe cose
brutte, alcune orribili, e per ritrovare la via della confidenza avremmo
dovuto dirci pensieri segreti, ma io non avevo la forza di trovare le parole
e lei, che forse la forza ce l’aveva, non ne aveva voglia, non ne vedeva
l’utilità.
Le volevo comunque molto bene e quando venivo a Napoli cercavo
sempre di incontrarla, anche se, devo dire, ne avevo un po’ paura. Era
cambiata molto. Su entrambe la vecchiaia aveva avuto la meglio, ormai,
ma mentre io combattevo contro la tendenza a prendere peso, lei era
stabilmente pelle e ossa. Aveva capelli corti che tagliava da sola,
bianchissimi non per scelta ma per trascuratezza. Il viso, molto segnato,
rimandava sempre più a quello di suo padre. Rideva per il nervoso, quasi
uno stridio, e parlava a voce troppo alta. Gesticolava di continuo, dando al
gesto una tale feroce determinazione che pareva voler tagliare in due le
palazzine, la strada, i passanti, me.
Ci trovavamo all’altezza della scuola elementare quando un uomo
giovane che non conoscevo ci superò affannato e le gridò che in un’aiuola
accanto alla chiesa era stato trovato un cadavere di donna. Ci affrettammo
verso i giardinetti, Lila mi trascinò nel capannello di curiosi aprendosi un
varco in malo modo. La donna giaceva su un fianco, era
straordinariamente grassa, indossava un impermeabile fuori moda di
colore verde scuro. Lila la riconobbe subito, io no: era la nostra amica
d’infanzia Gigliola Spagnuolo, l’ex moglie di Michele Solara.
Non la vedevo da qualche decennio. Il viso bello si era guastato, le
caviglie erano diventate enormi. I capelli, una volta bruni, adesso erano
rosso fuoco, lunghi come li portava da ragazza ma radi, e sparsi sul
terriccio smosso. Soltanto un piede calzava una scarpa col tacco basso,
molto usurata; l’altro era stretto in una calza di lana grigia, bucata
sull’alluce, e la scarpa si trovava un metro più in là, come se le si fosse
sfilata scalciando contro un dolore o uno spavento. Scoppiai a piangere,
Lila mi guardò con fastidio.
Sedute su una panchina poco distante, aspettammo in silenzio che
Gigliola fosse portata via. Cosa le era successo, com’era morta, per ora non
si sapeva. Ci ritirammo a casa di Lila, il vecchio, piccolo appartamento dei
genitori nel quale ora viveva col figlio Rino. Parlammo della nostra amica,
lei me ne disse male, la vita che aveva fatto, le pretese, le perfidie. Ma
adesso ero io che non riuscivo ad ascoltare, pensavo a quel viso di profilo
sul terriccio, a com’erano radi i capelli lunghi, alle chiazze bianchicce del
cranio. Quante persone che erano state bambine insieme a noi non erano
più vive, sparite dalla faccia della terra per malattia, perché la nervatura
non aveva retto alla carta vetrata dei tormenti, perché era stato versato il
loro sangue. Per un po’ restammo in cucina svogliatamente, senza che
nessuna delle due si decidesse a sparecchiare, poi uscimmo di nuovo.
Il sole della bella giornata invernale dava alle cose un aspetto sereno. Il
rione vecchio, a differenza di noi, era rimasto identico. Resistevano le case
basse e grigie, il cortile dei nostri giochi, lo stradone, le bocche scure del
tunnel e la violenza. Invece era cambiato il paesaggio intorno. La distesa
verdognola degli stagni non c’era più, la vecchia fabbrica di conserve si
era dissolta. Al loro posto, c’erano i bagliori dei grattacieli di vetro, segni
una volta di un futuro raggiante cui non aveva creduto mai nessuno. I
cambiamenti li avevo registrati tutti, negli anni, a volte con curiosità, più
spesso distrattamente. Da ragazzina mi ero immaginata che, oltre il rione,
Napoli offrisse meraviglie. Il grattacielo della stazione centrale, per
esempio, mi aveva colpita molto, decenni prima, per il suo ergersi piano
dietro piano, uno scheletro di edificio che allora ci pareva altissimo, a lato
dell’ardita stazione ferroviaria. Come mi sorprendevo, quando passavo per
piazza Garibaldi: guarda quant’è alto, dicevo a Lila, a Carmen, a Pasquale,
ad Ada, ad Antonio, a tutti i compagni di allora con i quali mi spingevo
verso il mare, ai margini dei quartieri ricchi. Lassù, pensavo, ci abitano gli
angeli e sicuramente si godono tutta la città. Arrampicarmi, salire fino in
cima, quanto mi sarebbe piaciuto. Era il nostro grattacielo, anche se stava
fuori dal rione, una cosa che vedevamo crescere di giorno in giorno. Ma i
lavori si erano fermati. Quando tornavo a casa da Pisa, il grattacielo della
stazione, più che il simbolo di una comunità che si stava rinnovando, mi
pareva un ulteriore nido dell’inefficienza.
In quel periodo mi convinsi che non c’era grande differenza tra il rione
e Napoli, il malessere scivolava dall’uno all’altra senza soluzione di
continuità. A ogni ritorno trovavo una città sempre più di pastafrolla, che
non reggeva i cambi di stagione, il caldo, il freddo, soprattutto i temporali.
Ecco che la stazione di piazza Garibaldi s’era allagata, ecco che era venuta
giù la Galleria di fronte al Museo, ecco che c’era stata una frana, la luce
elettrica non tornava più. Avevo nella memoria strade buie piene di
pericoli, traffico sempre più sregolato, il lastrico sconnesso, larghe
pozzanghere. Le fogne sovraccariche schizzavano, sbavavano. Lave
d’acqua e liquami e immondizia e batteri si rovesciavano nel mare dalle
colline cariche di costruzioni nuovissime e fragili, o erodevano il mondo di
sotto. La gente moriva d’incuria, di corruzione, di sopraffazione, e
tuttavia, a ogni tornata elettorale, dava il suo consenso entusiastico ai
politici che le rendevano la vita insopportabile. Appena scendevo dal
treno, mi muovevo con cautela nei luoghi dove ero cresciuta, badando a
parlare sempre in dialetto come per segnalare sono dei vostri, non mi fate
male.
Quando mi laureai, quando scrissi di getto un racconto che in modo del
tutto inatteso, nel giro di pochi mesi, diventò un libro, le cose del mondo
da cui venivo mi sembrarono ulteriormente peggiorate. Mentre a Pisa, a
Milano, mi sentivo bene, a tratti persino felice, nella mia città temevo a
ogni ritorno che un imprevisto mi avrebbe impedito di sfuggirle, che le
cose che mi ero conquistata mi sarebbero state tolte. Non avrei potuto
raggiungere più Pietro che dovevo sposare presto; mi sarebbe stato
precluso lo spazio lindo della casa editrice; non avrei potuto più godere
delle finezze di Adele, la mia futura suocera, una madre come non era mai
stata la mia. Già in passato la città mi era sembrata affollata, tutta una
ressa da piazza Garibaldi a Forcella, alla Duchesca, al Lavinaio, al Rettifilo.
Alla fine degli anni Sessanta mi sembrò che la folla fosse cresciuta e che
l’insofferenza, l’aggressività, stessero dilagando in modo incontrollato.
Una mattina mi ero spinta fino a via Mezzocannone, lì dove qualche anno
prima avevo lavorato come commessa in una libreria. C’ero andata per
curiosità, per rivedere il posto dove avevo faticato, soprattutto per dare
uno sguardo all’università, nella quale non ero mai entrata. Volevo
confrontarla con quella di Pisa, con la Normale, speravo persino di
imbattermi nei figli della professoressa Galiani – Armando, Nadia – e
vantarmi di ciò che ero stata capace di fare. Ma la strada, gli spazi
universitari, mi avevano messo angoscia, erano gremiti di studenti
napoletani e della provincia e di tutto il Sud, giovani ben vestiti, chiassosi,
sicuri di sé, e ragazzi dai modi grezzi e insieme subalterni. Si accalcavano
agli ingressi, dentro le aule, davanti alle segreterie dove c’erano lunghe
file spesso rissose. Tre o quattro s’erano picchiati senza preavviso a pochi
passi da me, come se gli fosse bastato vedersi per arrivare a un’esplosione
di insulti e botte, una furia di maschi che urlava la sua smania di sangue in
un dialetto che io stessa facevo fatica a capire. Me n’ero andata in fretta,
come se qualcosa di minaccioso mi avesse sfiorata in un luogo che
immaginavo sicuro, abitato solo da buone ragioni.
Ogni anno, insomma, mi pareva peggio. In quel periodo di piogge, la
città si era ancora una volta crepata, un intero palazzo si era piegato su un
fianco come una persona che si appoggia al bracciolo tarlato di una
vecchia poltrona e il bracciolo cede. Morti, feriti. E grida, mazzate, bombe
carta. Pareva che la città covasse nelle viscere una furia che non riusciva a
venir fuori e perciò la erodeva, o erompeva in pustole di superficie, gonfie
di veleno contro tutti, bambini, adulti, vecchi, gente di altre città,
americani della Nato, turisti d’ogni nazionalità, gli stessi napoletani. Come
si poteva resistere in quel posto di disordine e pericolo, in periferia, al
centro, sulle colline, sotto il Vesuvio? Che brutta impressione mi aveva
fatto San Giovanni a Teduccio, il viaggio per arrivarci. Che brutta
impressione mi aveva fatto la fabbrica dove lavorava Lila, e Lila stessa, Lila
col figlio piccolo, Lila che, in un edificio miserabile, viveva con Enzo anche
se non ci dormiva insieme. Aveva detto che lui voleva studiare il
funzionamento dei calcolatori elettronici e che lei cercava di aiutarlo. Mi
era rimasta impressa la sua voce che cercava di cancellare San Giovanni, i
salumi, l’odore della fabbrica, la sua condizione, citandomi con finta
competenza sigle tipo: Centro di cibernetica della Statale di Milano,
Centro sovietico per l’applicazione dei calcolatori alle scienze sociali.
Voleva farmi credere che sarebbe nato presto un centro di quel genere
anche a Napoli. Avevo pensato: a Milano forse sì, sicuramente in Unione
sovietica, ma qui no, qui sono follie della tua testa incontrollabile dentro
le quali stai trascinando anche il povero, devotissimo Enzo. Andarsene,
invece. Filar via definitivamente, lontano dalla vita che avevamo
sperimentato fin dalla nascita. Insediarsi in territori ben organizzati dove
davvero tutto era possibile. Me l’ero battuta infatti. Ma solo per scoprire,
nei decenni a venire, che mi ero sbagliata, che si trattava di una catena
con anelli sempre più grandi: il rione rimandava alla città, la città all’Italia,
l’Italia all’Europa, l’Europa a tutto il pianeta. E oggi la vedo così: non è il
rione a essere malato, non è Napoli, è il globo terrestre, è l’universo, o gli
universi. E l’abilità consiste nel nascondere e nascondersi lo stato vero
delle cose.
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