Storia della bambina perduta – Elena Ferrante

SINTESI DEL LIBRO:
A partire dall’ottobre 1976 e fino a quando, nel 1979, non tornai a vivere
a Napoli, evitai di riallacciare rapporti stabili con Lila. Ma non fu facile. Lei
cercò quasi subito di rientrare a forza nella mia vita e io la ignorai, la
tollerai, la subii. Anche se si comportava come se non desiderasse altro
che starmi vicina in un momento difficile, non riuscivo a dimenticare il
disprezzo con cui mi aveva trattata.
Oggi penso che se a ferirmi fosse stato solo l’insulto – sei una cretina, mi
aveva gridato per telefono quando le avevo detto di Nino, e non era mai
successo prima, mai, che mi parlasse a quel modo – mi sarei presto
acquietata. In realtà, più di quell’offesa, contò l’accenno a Dede e a Elsa.
Pensa al male che fai alle tue figlie, mi aveva ammonito, e lì per lì non ci
avevo fatto caso. Ma quelle parole acquistarono nel tempo sempre più
peso, ci tornai su spesso. Lila non aveva mai manifestato il minimo
interesse per Dede e per Elsa, quasi certamente non si ricordava nemmeno
i loro nomi. Le volte che avevo accennato per telefono a qualche loro
sortita intelligente, aveva tagliato corto, era passata ad altro. E quando le
aveva incontrate per la prima volta a casa di Marcello Solara, si era
limitata a uno sguardo distratto e a qualche frase generica, non aveva
avuto nemmeno un po’ di attenzione per com’erano ben vestite, ben
pettinate, capaci entrambe, pur essendo ancora piccole, di esprimersi con
proprietà. Eppure le avevo fatte io, le avevo tirate su io, erano parte di me,
la sua amica di sempre: avrebbe dovuto lasciare spazio – non dico per
affetto ma almeno per gentilezza – al mio orgoglio di madre. Invece non
era ricorsa nemmeno a un poco di ironia bonaria, aveva mostrato
indifferenza e basta. Solo adesso – per gelosia sicuramente, perché mi ero
presa Nino – si era ricordata delle bambine e aveva voluto sottolineare che
ero una pessima madre, che pur di essere felice io, stavo causando la loro
infelicità. Appena ci pensavo mi innervosivo. Lila si era preoccupata forse
di Gennaro quando aveva lasciato Stefano, quando aveva abbandonato il
bambino alla sua vicina di casa per via del lavoro in fabbrica, quando
l’aveva mandato da me quasi per sbarazzarsene? Ah, io avevo le mie colpe,
ma ero senza dubbio più madre di lei.
2.
Pensieri di quel genere diventarono una consuetudine, in quegli anni.
Fu come se Lila, che su Dede ed Elsa alla fin fine aveva pronunciato
soltanto quell’unica frase perfida, fosse diventata l’avvocato difensore dei
loro bisogni di figlie, e io mi sentissi obbligata a dimostrarle che aveva
torto ogni volta che le trascuravo per dedicarmi a me. Ma era solo una
voce inventata dal malumore, cosa pensasse realmente dei miei
comportamenti di madre non lo so. Lei è l’unica che può raccontarlo, se
davvero è riuscita a inserirsi in questa catena lunghissima di parole per
modificare il mio testo, per introdurre ad arte anelli mancanti, per
sganciarne altri senza darlo a vedere, per dire di me più di quanto io
voglia, più di quanto io sia capace di dire. Auspico questa sua intrusione,
me la auguro fin da quando ho cominciato a buttar giù la nostra storia, ma
devo arrivare alla fine per sottoporre tutte queste pagine a una verifica. Se
ci provassi adesso, certamente mi incepperei. Scrivo da troppo tempo e
sono stanca, è sempre più difficile tener teso il filo del racconto dentro il
caos degli anni, degli eventi piccoli e grandi, degli umori. Perciò o tendo a
sorvolare sui fatti miei per riacciuffare subito Lila e tutte le complicazioni
che porta con sé o, peggio, mi lascio prendere dalle vicende della mia vita
solo perché le butto giù con più facilità. Ma bisogna che mi sottragga a
questo bivio. Non devo andare per la prima strada, lungo la quale – visto
che la natura stessa del nostro rapporto impone che io possa arrivare a lei
solo passando per me – finirei, se mi metto da parte, per trovare di Lila
sempre meno tracce. Né d’altra parte devo andare per la seconda. Che io,
infatti, parli della mia esperienza sempre più diffusamente è proprio ciò
che lei di sicuro asseconderebbe. Dài – mi direbbe –, facci sapere che piega
ha preso la tua vita, a chi importa della mia, confessa che non interessa
nemmeno a te. E concluderebbe: io sono uno scarabocchio su uno
scarabocchio, del tutto inadatta a uno dei tuoi libri; lasciami perdere,
Lenù, non si racconta una cancellatura.
Che fare dunque? Darle ancora una volta ragione? Accettare che essere
adulti è smettere di mostrarsi, è imparare a nascondersi fino a svanire?
Ammettere che più gli anni avanzano, meno so di Lila?
Questa mattina tengo a bada la stanchezza e mi rimetto alla scrivania.
Ora che sono vicina al punto più doloroso della nostra storia, voglio
cercare sulla pagina un equilibrio tra me e lei che nella vita non sono
riuscita a trovare nemmeno tra me e me.
3.
Dei giorni di Montpellier ricordo tutto tranne la città, è come se non ci
fossi mai stata. Fuori dall’albergo, fuori dalla monumentale aula magna
dove si teneva il convegno accademico in cui Nino era impegnato, oggi
vedo solo un autunno ventoso e un cielo azzurro appoggiato su nuvole
bianche. Eppure nella memoria quel toponimo, Montpellier, è rimasto per
molti motivi come un segnale di scantonamento. Ero stata già una volta
fuori dall’Italia, a Parigi, con Franco, e mi ero sentita elettrizzata dalla mia
stessa audacia. Ma allora mi pareva che il mio mondo fosse e sarebbe
rimasto per sempre il rione, Napoli, mentre il resto era come una breve
scampagnata nel cui clima d’eccezione potevo immaginarmi come di fatto
non sarei mai stata. Montpellier invece, che pure era di gran lunga meno
eccitante di Parigi, mi diede l’impressione che i miei argini si fossero rotti
e che mi stessi espandendo. Il puro e semplice fatto di trovarmi in quel
luogo costituiva ai miei occhi la prova che il rione, Napoli, Pisa, Firenze,
Milano, l’Italia stessa, erano solo minuscole schegge di mondo e che di
quelle schegge facevo bene a non accontentarmi più. A Montpellier
avvertii la limitatezza dello sguardo che avevo, della lingua in cui mi
esprimevo e con cui avevo scritto. A Montpellier mi sembrò evidente
quanto potesse risultare angusto, a trentadue anni, essere moglie e madre.
E per tutti quei giorni densi d’amore mi sentii per la prima volta liberata
dai vincoli che avevo sommato negli anni, quelli dovuti alla mia origine,
quelli che avevo acquisito col successo negli studi, quelli che mi
derivavano dalle scelte di vita che avevo fatto, innanzitutto dal
matrimonio. Lì capii anche le ragioni del piacere che avevo provato, in
passato, vedendo il mio primo libro tradotto in altre lingue e, insieme, le
ragioni del dispiacere per aver trovato pochi lettori fuori dall’Italia. Era
meraviglioso valicare confini, lasciarsi andare dentro altre culture,
scoprire la provvisorietà di ciò che avevo scambiato per definitivo. Il fatto
che Lila non fosse mai uscita da Napoli, che anzi si fosse spaventata
persino di San Giovanni a Teduccio, se in passato l’avevo giudicato una sua
discutibile scelta che però al solito lei sapeva rovesciare in vantaggio, ora
mi sembrò semplicemente un segno di ristrettezza mentale. Reagii come
quando si reagisce a chi ti insulta con la stessa formula che ti ha offesa. Tu
ti saresti sbagliata sul mio conto? No, cara mia, sono io, io che mi sono sbagliata
sul tuo: resterai per tutta la vita a guardare i camion che passano per lo stradone.
I giorni volarono. A Nino gli organizzatori del convegno avevano
riservato da tempo, in albergo, una camera singola e poiché mi ero decisa
troppo tardi ad accompagnarlo, non c’era stato modo di trasformarla in
una matrimoniale. Avevamo quindi stanze separate, ma ogni sera io
facevo la doccia, mi preparavo per la notte e poi, con un po’ di batticuore,
lo raggiungevo in camera sua. Dormivamo insieme, stretti l’uno all’altro
come se temessimo che una forza ostile ci separasse nel sonno. Al mattino
ci facevamo portare la colazione a letto, godevamo di quel lusso che avevo
visto solo al cinema, ridevamo molto, eravamo felici. Durante il giorno lo
accompagnavo nella sala grande del convegno e sebbene i relatori
leggessero pagine e pagine essi stessi con tono annoiato, stare insieme a
lui mi entusiasmava, gli sedevo accanto ma senza disturbarlo. Nino
seguiva con molta attenzione gli interventi, prendeva appunti e ogni tanto
mi sussurrava all’orecchio commenti ironici e parole d’amore. A pranzo e
a cena ci mescolavamo ad accademici di mezzo mondo, nomi stranieri,
lingue straniere. Certo, i relatori di maggior prestigio se ne stavano a un
tavolo tutto loro, noi partecipavamo a una grande tavolata di studiosi più
giovani. Ma mi colpì la mobilità di Nino, sia durante i lavori, sia al
ristorante. Com’era diverso dallo studente di una volta, anche dal giovane
che mi aveva difeso nella libreria di Milano quasi dieci anni prima. Aveva
accantonato le tonalità polemiche, valicava con tatto le barriere
accademiche, stabiliva rapporti con un piglio serio e insieme accattivante.
Ora in inglese (ottimo), ora in francese (buono) conversava in modo
brillante sfoggiando il suo vecchio culto delle cifre e dell’efficienza. Io mi
sentii piena d’orgoglio per quanto piaceva. In poche ore diventò simpatico
a tutti, lo tiravano di qua e di là.
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