Sangue marcio – Antonio Manzini

SINTESI DEL LIBRO:
Due pantere della polizia più un cellulare avevano circondato il
parcheggio del giardino. Nessuno li aveva sentiti arrivare. Avevano
sorpreso tre macchine. La mia, la Uno e la Golf. Il furgoncino caricò i
tre travestiti e se ne andò. Io e gli altri due clienti rimanemmo in
piedi, accanto alle rispettive macchine. Quello della Uno era un
uomo pelato con gli occhiali da miope, quello della Golf era un
ragazzo, poco più giovane di me, sui venticinque anni con capelli
lunghi, il giaccone di pelle e gli stivali da cowboy. Era bello, come un
divo del cinema. Occhi azzurri, sembrava un cavallo selvaggio, di
quelli che non puoi domare.
«Ma che cazzo volete, ahò? ! E che manco se po' sta' a...».
«Per cortesia favorisca i documenti!», gli intimava un poliziotto.
L'altro cliente, il pelato, era imbarazzato e apriva nervosamente il
portafogli.
«Ecco, questa è la mia patente», dissi a un agente giovane che
aspettava con la mano protesa il mio documento. La prese e tornò
alla sua macchina. Afferrò la radio e si mise in contatto con la
centrale.
«Io nun te do un cazzo, hai capito?», il ragazzo col giubbotto
urlava con le vene del collo gonfie.
«Senta, non peggiori le cose. Mi dia la patente».
«'Sto cazzo ti do!».
E all'improvviso fece una finta e cominciò a scappare verso i
prati. Subito due agenti lo inseguirono.
«De Santis! Presto! Prendete 'sto figlio di mignotta!».
Io li guardavo. Nessuno pensava più a me o al pelato. Il ragazzo
correva nell'erba inciampando sui tacchi degli stivali. Mi ricordava le
comiche che il sabato pomeriggio davano in televisione. Cominciai a
ridere.
«Porca troia!», urlava un poliziotto, «prendilo De Santis,
eccheccazzo!».
«Lei che ha da ridere?», mi disse un agente.
«Niente... è buffo».
«Buffo? Mo' glielo faccio vedere io se è buffo. Marzilli!», ordinò
all'agente giovane, «portiamo tutti in centrale».
«E perché? Perché rido?».
«No. Perché ci avete fatto girare i coglioni. E allora atti osceni in
luogo pubblico, istigamento alla prostituzione...».
«Ma che dice? Ma vada a fare in culo vada!».
«Oltraggio a pubblico ufficiale. Le basta?».
Due poliziotti mi presero sotto le braccia. E mi tornò in mente,
precisa e nitida, la mattina del 12 ottobre 1976. Mio padre
accompagnato alla porta da due poliziotti, la tazzina che si sfascia
per terra, il pianto di mia madre. E mi esplose una cosa dentro, una
cosa che somigliava a un rigurgito amaro di cibi mal digeriti, un
miasma feroce e infuocato.
«Non mi toccate pezzi di merda!», scattai.
Colpii l'agente giovane sul naso. Sentii il crac. Lo vidi accasciarsi
a terra. Il momento dopo fu buio. Solo un lampione stradale cercava
timido di attraversare le mie palpebre. Poi si spense pure lui.
Il ragazzo col giubbotto, quelli come lui a Roma li chiamano
coatti, in realtà si chiamava Enzo. Faceva l'elettrauto a Tor Marancia,
e aveva la camicia strappata e il viso sporco di terra.
Anche ridotto così, e sotto l'impietoso neon della stanzetta della
centrale, la sua bellezza di cui non era consapevole affiorava
prepotente. Era seduto accanto a me. Invece il pelato se ne stava
sull'altra panca, per distinguersi.
«Sei gonfio», mi disse Enzo indicandomi l'occhio. Lo toccai.
Dovevo avere una specie di susina.
«Anche te», gli risposi, «ma perché sei scappato?».
«Non c'ho la patente... Me sei piaciuto Pietro... Te chiami Pietro,
no?».
«Sì».
«Prima volta?».
«Sì».
Mi guardai intorno. La stanza era grigia e con le pareti
screpolate. C'era un lavandino nero di ruggine in un angolo e una
sola finestra con delle sbarre. Dietro era notte fonda.
«E tu Enzo? Prima volta?».
«Boh... io quarta o quinta. Ce sei mai stato all'Albergo?».
«Albergo?».
«Sì... a Rebibbia... al gabbio». «No, mai».
«Nun è male. Cioè, io me so' fatto sei mesi... ricettazione. Però
passano. Te sei incensurato, magari te lasciano subito. Ce l'hai 'na
sigaretta?».
«No. Non fumo».
«A Kojak», si rivolgeva al pelato, «ce l'hai 'na sigaretta?».
«Non fumo».
«Ahò, tutti santi qua eh?».
Il pelato si alzò e andò alla finestra a dare un'occhiata. Io mi
guardavo i polpastrelli ancora sporchi di inchiostro. Da sei mesi a
cinque anni, mi aveva detto il poliziotto della scientifica. Tanto rischi
di prendere per aggressione a un pubblico ufficiale e resistenza
all'arresto. Non io. Io ero incensurato. Io magari sarei andato a casa
in attesa del processo. Me la sarei cavata con un'ammenda. Chi lo
sa. Dovevo solo trovare una scusa plausibile per il giornale.
Le spalle dell'uomo pelato cominciarono a sussultare.
«Non devo essere qui... a casa ho una moglie...», disse fra le
lacrime, «e pure un figlio. Che gli dico... che gli dico...».
Enzo mi guardò. Sorrideva.
«Sta nella merda l'amico, eh?», e indicò col naso l'uomo alla
finestra.
«Come ti chiami?», gli domandai.
Non rispose. Meglio così. Aveva una moglie e un figlio e se ne
andava a puttane. E allora? Se non reggeva la cosa, poteva
starsene a casa. Problema suo.
«Come faccio...», si pulì il naso con un fazzoletto di carta. «Lo
verranno a sapere pure in banca...», riprese a piangere. «Che devo
fare?», e mi puntò addosso i suoi occhi porcini. «Io e mia moglie
eravamo già in crisi».
Che palle, pensai. «Approfittane, può essere una buona
occasione per mollare tutto, no?».
«No. E la mia famiglia!», mi aggredì.
Sentii la bile risalire l'esofago. «Ma che dici? La tua famiglia?
Adesso ci pensi? Dovevi farlo prima di caricare quel travestito sulla
macchina. Adesso è troppo tardi». Enzo mi sorrise. Si stava
divertendo.
«Si... si saprà in giro?».
«Sicuro che si saprà», gli dissi, «certo che si saprà. Che credi? Ti
becchi un bel processo, ti devi trovare un avvocato. Chiaro che si
saprà».
Riprese a mugolare.
«Comportati da uomo!», e mi alzai per andare a prendermi un po'
d'acqua dal lavandino.
«Piagni piagni... è brutta vede' il mondo da 'sta parte, eh
pelato'?», gli disse Enzo senza neanche guardarlo. «Va' co' i froci...
questo succede». Poi si avvicinò all'uomo per una confidenza. «Ma
te... ce vai perché te piace prendelo in culo oppure jelo metti tu?».
L'uomo si girò verso la finestra senza dire niente.
«Ahò, t'ho fatto 'na domanda... allora?».
«Ma mi lasci in pace!», e si andò a rimettere seduto.
«Ma anvedi questo... Io ce vado perché come lo prendono in
bocca i travesta nessuno su 'sta tera... te?», e mi guardò.
«Pure io. Per quello. Anche se era la prima volta... con un uomo
insomma... tecnicamente non sono uomini... sono mezzi e mezzi. Io
li immagino donne...».
«Pure io», rispose Enzo, «a me l'omini me fanno schifo».
Mi rimisi seduto a osservare il pelato. Mi dava fastidio tutto di lui.
Il cappotto grigio fuori moda, la sua testa con una spruzzata di
capelli ai lati impomatati, gli occhi da cinghiale, le sue lenti spesse. E
quelle labbra umide un po' sporgenti gliele avrei volute spaccare.
«Perché mi guardi?», gli chiesi. Lui buttò subito lo sguardo a
terra. «Certo io non sono sposato. E a me che sul lavoro vengano a
sapere che vado con le puttane non me ne frega niente. Fossi in te
invece...».
«Cosa?».
«Fossi in te sarei preoccupato. Tutta la vita che si rovina in una
notte, in pochi minuti!
«È colpa sua. Perché li ha aggrediti? Ce la cavavamo con una
ramanzina».
«Invece ti ha detto male. Tua moglie ti lascerà. I tuoi amici è
facile che non ti saluteranno più. E tuo figlio? Pensi che sarà bello
per lui crescere sapendo che il padre faceva le porcherie coi
travestiti invece di stare a casa a fare il padre?», mi stavo
divertendo. Il pelato deglutì e si guardò le scarpe. «Reggerai a
questa figura di merda? Non mi stupirei se domani ti buttano fuori
dal lavoro. Chi vuole avere a che fare con un viscido che lascia a
casa moglie e figlio per andare a farsi un giro coi viados?».
«Come si permette? Io non... ».
«Tu non... cosa?», risposi guardandolo negli occhi, «tu non
cosa? Ho torto? Sto dicendo la verità. Magari hai ancora i genitori
vivi. Pensa a tua madre o a tuo padre. Peggio, pensa ai genitori di
tua moglie... che devono credere? A chi abbiamo dato nostra figlia!
Ecco che diranno. Mi sbaglio Enzo?».
«No, dici giusto... sta nella merda...».
«Infatti o pensi di cambiare tutta la tua vita da domattina oppure
per te comincia un calvario. Ti vergognerai di uscire di casa, dei tuoi
vicini, dei tuoi colleghi. Sarai peggio di un appestato».
«Stia zitto. Per favore», protestò il pelato con un filo di voce.
«Lo dico per te. Ci sono già passato, ma io ho cambiato tutta la
mia vita... non lo so se tu ce la fai, è difficile... via da Roma, dal tuo
lavoro, mettiti a cercare un altro impiego... non è facile».
«No...», aggiunse Enzo che si stava divertendo più di me, «ha
ragione coso qua... Pietro».
L'uomo si mise le mani sulla faccia.
«Pensa quando tua moglie vedrà i poliziotti arrivare a casa tua a
portarti la convocazione per il processo? Che le racconti? E la
vergogna di tuo figlio coi suoi compagni di scuola?».
«Sì, devi spari' come 'na scureggia nell'acqua...», e con questo
paragone colorito Enzo pose fine alla discussione.
«Che devo fare, che devo fare...».
Io ed Enzo ci guardammo. Poi il coatto sorrise. «Sparate! Fai più
bella figura».
11 aprile 2002. Giovedì, ore 12,00
La strada per Fontanefredde è tortuosa e si lascia la città alle
spalle in un attimo. Di solito Pietro arriva in autobus fino al limite
dell'abitato, poi prosegue a piedi. Lo fa nei giorni di tranquillità e di
riposo. Cammina ai margini del bosco. Gli abeti se ne stanno lì a
guardarlo passare.
È una bella giornata, rigida, ma almeno il sole ogni tanto
s'affaccia incuriosito fra le nuvole alte e grigie. Nonostante il gelo
stringa l'assedio alla città da ottobre, neve in basso ne ha fatta poca.
Riveste le cime dei monti come il cappuccio di un frate. Pietro ha
messo le Timberland con la suola di Vibram in modo da non
scivolare. Taglia un paio di tornanti attraversando il bosco. L'odore di
resina e di foglie marce è fortissimo. Accogliente. Sente il suo
respiro e gli aghi degli abeti che si sgretolano scoppiettanti sotto le
suole delle scarpe. Il bosco è un organismo vivente, un universo a
parte. Cambia a seconda dell'ora del giorno. Se all'alba è speranza,
luce appena filtrata, piccoli animali alla ricerca di cibo, la notte è
angoscia, paura della morte, il freddo di una minaccia pronta a
saltarti addosso. I rumori di un bosco di notte sono amplificati e si
vestono di quello che vuoi tu. Difficile capire perché la mancanza di
luce in un bosco possa stravolgere suoni e odori in questo modo. Ma
succede esattamente così.
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