Omnia vincit Amor: La figlia di Roma- Lucia Cantoni

SINTESI DEL LIBRO:
L’atrio spazioso della grande domus splendeva avvolto dalla
sinuosa e calda carezza dei raggi del sole. I bei mosaici che
abbellivano il pavimento e le pareti rilucevano dei loro colori
iridescenti, trascinando lo spettatore all’interno dei gloriosi miti che
narravano con minuzia. Charis camminava assorta lungo il bordo
dell’impluvium, osservando distrattamente il suo riflesso nello
specchio d’acqua piovana. Si sedette a terra, accoccolandosi lungo il
bordo della vasca, socchiudendo gli occhi e sfiorando la superficie
limpida con la punta delle dita.
Qualcosa turbava il suo animo, rendendola triste e meditabonda.
Nella domus si respirava aria di cambiamento, di frizzante fermento,
di preparativi per una cerimonia imminente. Quel giorno,
indirettamente, anche la vita di Charis avrebbe subito un grande
mutamento. Quella passata era stata l’ultima sera che sua sorella
avrebbe trascorso nella grande casa della sua famiglia, l’ultima notte
nella quale avrebbero dormito nella stessa stanza, sotto il medesimo
tetto. Charis e Giunia erano state l’una l’ombra dell’altra per tutta la
vita e le sembrava impossibile che di lì a poche ore tutto sarebbe
cambiato. Sua sorella era felice; lo poteva leggere negli occhi grandi
e luminosi, nell’espressione solare e nei sorrisi sbarazzini dietro i
quali era solita schermare l’imbarazzo causato dalle domande
insistenti e inopportune delle loro amiche.
Giunia era innamorata e quella rara fortuna donava alla sua
bellezza una luce tutta particolare. Charis provava gioia per lei e una
commossa partecipazione, ma non poteva evitare di sentirsi
irrimediabilmente vuota. Un giorno anche lei sarebbe andata in
sposa a un ricco dignitario, probabilmente di vent’anni più vecchio.
Se la sorte le avesse arriso, forse sarebbe arrivata a provare affetto
per suo marito, ma mai la passione che si narrava Venere fosse in
grado di infondere negli innamorati. Non solo lei non avrebbe mai
avuto la possibilità di provare nulla di simile, ma con il matrimonio di
sua sorella anche il suo cuore si sarebbe inaridito. Non l’avrebbe
persa, ma non sarebbe più stata la sua migliore amica, la sua
confidente sempre pronta a sostenerla in ogni colpo di testa. Giunia
era l’anima ponderata e riflessiva, Charis il suo esatto opposto: un
concentrato d’incoscienza e sconsideratezza difficile da frenare. La
moglie di un giovane rampollo di buona famiglia, che una brillante
carriera politica avrebbe proiettato al Senato, doveva sostenere
grandi responsabilità e Charis temeva che la sua nuova famiglia
avrebbe sostituito nell’animo di Giunia quella d’origine.
Sbuffò. Il solo pensiero di essere obbligata a farsi scortare da uno
stuolo di guardie, ogniqualvolta le fosse venuta voglia di andare a
trovare Giunia, le metteva apprensione.
«Domina.» La voce gentile e affettuosa di Adamantea la riscosse
dai suoi pensieri. Charis Incrociò i piedi davanti a sé e si alzò,
incontrando gli occhi sereni della serva greca. Una volta che Giunia
avesse lasciato la casa paterna, la giovane schiava sarebbe rimasta
la sua unica amica.
«Il vostro bagno è pronto, dovete prepararvi per i festeggiamenti.»
Charis acconsentì con il capo, lasciando che Adamantea le
prendesse la mano e la conducesse nella stanza per le abluzioni
nella quale una vasca era già stata preparata per lei, fumante di
acqua calda. Altre due serve le slacciarono gli indumenti e Charis
permise che il tepore ristoratore del bagno scacciasse i brutti
pensieri. La asciugarono e profumarono con preziosi unguenti
speziati, fatti arrivare apposta dall’Oriente. I canti nuziali
riecheggiavano già tra le alte pareti della domus e Charis si lasciò
andare a un sorriso stanco; aveva molti difetti, ma non era una
ragazza egoista e il suo animo si rallegrò per la felicità di Giunia.
Adamantea le fece scivolare la stola turchese dalla testa e l’abito di
tessuto prezioso accarezzò il suo corpo ancora umido, sino a
coprirle le caviglie. Un nastro dalle tonalità dorate le venne annodato
sotto il seno, disegnando perfettamente le sue forme delicate e
femminili.
«Siete bellissima, domina.» Charis abbassò gli occhi, osservando
la sua pelle candida lasciata scoperta dalla morbida scollatura della
tunica. Le pettinarono i capelli in un’elaborata acconciatura, mentre
nei bracieri aveva cominciato ad ardere l’incenso propiziatorio.
Un lieve brusio si levò dal portico; i primi ospiti dovevano essere
arrivati. Finalmente pronta, Charis si diresse al cubiculum di sua
sorella. Eccola, Giunia. Pura come una vestale, bella come Venere;
una fanciulla in boccio come doveva essere stata Proserpina quando
Plutone si era invaghito di lei, costringendola a divenire la sua
sposa. La tunica recta, la veste bianca che aveva indossato l’ultima
notte passata da fanciulla, era completamente coperta da un velo
rosso aranciato, il flammeum, drappo trasparente e lungo sino ai
piedi. A Charis apparve luminosa come un astro al culmine del suo
splendore.
«Charis.» Sua sorella allungò una mano verso di lei che si affrettò
a stringerla. Il palmo di Giunia era freddo e lei le sorrise
incoraggiante.
«Andrà tutto bene, non devi essere nervosa.» Bisbigliò complice,
scrutando i suoi occhi scintillanti di emozione da dietro il velo.
«Manlio è un uomo davvero fortunato.» Aggiunse.
«Vorrei che Quinto fosse qui con noi.» Sussurrò Giunia.
«Sarebbe orgoglioso della donna che sei diventata.» Le rispose la
sorella affettuosa.
Quinto Giunio Lucano, primogenito di Viridio e Claudia, aveva
ricevuto un incarico in una Provincia del Nord ed essendo all’inizio
del suo cursus honorum non aveva potuto sottrarsi alle pressioni
degli ufficiali di grado superiore per presenziare al matrimonio. Il
legame che accumunava i tre fratelli era molto forte, quasi atipico in
un mondo difficile come quello romano.
La loro madre fece capolino dalla soglia della stanza; le sue
labbra sorridevano, ma era chiara l’apprensione sul suo volto.
«Il primo passerotto che lascia il nido.» Mormorò, asciugandosi
veloce una lacrima che, sbarazzina, rischiava di rovinarle il trucco. Si
avvicinò alle sue figlie stringendole in un abbraccio.
«Papà sta ancora litigando con quel commerciante di Alessandria
per quel carico di rose sbagliato.» Claudia Naevia scosse la testa,
divertita. «Sapete come si infuria quando le cose non vanno come lui
le ha programmate.»
«Perché, quel giorno ha mai visto la luce, madre?» Domandò
Charis, ironica. Giunia ridacchiò e Claudia corrugò la fronte.
«Dovresti imparare a essere meno sfacciata, Charis Giunia
Minore! Se ti sentisse tuo padre nessuno ti leverebbe una bella
punizione!» poi si rivolse nuovamente alla figlia maggiore.
«Piccola mia, è ora. Manlio è arrivato.» Sussurrò in preda alla
commozione, stringendole le mani con sguardo complice. L’anulus
pro nubus, Il cerchietto di ferro pegno d’amore e simbolo del suo
fidanzamento, brillò sotto il velo, quando Giunia si portò il palmo al
viso per soffocare un singhiozzo emozionato. Claudia precedette le
sue figlie, conducendole nella sala dove erano stati radunati gli
ospiti. Gaio Giunio Viridio intratteneva con la sua arte oratoria gli
invitati, da perfetto anfitrione qual era. La sua voce ferma risuonò tra
le volte della domus, carica di orgoglio e autocelebrazione. Quello
che stava avendo luogo non era solo il matrimonio della figlia
maggiore, ma anche un modo per rendere onore alla gens Giunia e
stringere un forte legame tra due delle famiglie più in vista dell’Urbe.
All’ingresso della sposa il clamore e il brusio cessarono, lasciando il
posto a un meravigliato e silenzioso stupore. Tutti gli occhi dei
presenti furono calamitati dalla bellissima donna avvolta da una
nuvola di drappo aranciato, accompagnata dalla sorella minore e
dalla madre. Un pensiero comune attraversò le menti degli invitati;
gli dei dovevano avere molto a cuore la sorte di Gaio Giunio Viridio
per avergli donato tanta fortuna negli affari, quanto negli affetti
familiari. Una donna si fece avanti tra la folla; il passo malfermo,
leggermente claudicante, rivelava molto di più sulla sua età di
quanto facesse il viso fresco e sorridente. Gaia Naevia, sorella
maggiore di Claudia, si avvicinò alla sposa, adempiendo al felice
compito che le era stato assegnato. La pronuba si avvicinò a Giunia,
prendendo la nipote sottobraccio e conducendola allo scintillante
altare in marmo che era stato allestito per l’occasione. Quale donna
anziana che aveva avuto la fortuna di sposarsi un’unica volta,
sarebbe stata la persona più indicata per consegnare la sposa al suo
promesso. Gaia continuò a sorridere, anche quando condusse
Manlio al cospetto dell’ara, permettendo finalmente ai due giovani di
trovarsi l’uno di fronte all’altra.
Aulo Glabrio Manlio sollevò le mani tremanti di emozione,
afferrando l’impalpabile velo che avvolgeva la sua sposa, sino a
scoprirle il viso. Per un attimo il fiato gli si mozzò nei polmoni, mentre
il cuore minacciava di scoppiargli in petto. Conosceva bene il
bellissimo volto di Giunia, amava i dolci lineamenti del suo viso
talmente tanto da esserseli impressi nella mente. Non passava notte
che non sognasse la sua delicata bellezza, eppure si trovò del tutto
impreparato davanti allo splendore della sua sposa. La magra e
timida bambina che aveva conosciuto si era trasformata nella donna
più bella sulla quale un mortale avrebbe mai potuto posare lo
sguardo. Deglutì a vuoto, incapace di trattenere un sospiro.
Gaia prese delicatamente il palmo destro di Giunia, poggiandolo
sul destro di Manlio. Il giovane schiuse la mano, accogliendo quella
piccola e morbida della sua sposa nella sua calda e callosa.
Finalmente marito e moglie, due destini intrecciati e fusi in un unico
filo dai riflessi di sogno prezioso. I loro sguardi s’incrociarono furtivi.
Giunia abbassò il capo e una ciocca di capelli color dell’oro scivolò
via dall’elaborata acconciatura, incorniciandole il volto. Manlio le
circondò le spalle, accompagnandola al triclinium dove era stato
allestito un banchetto principesco. L’orchestra di sottofondo
spandeva nell’aria un suono leggero e armonico, giusto
accompagnamento al battere incessante dei loro cuori innamorati.
***
Charis assistette alla breve cerimonia in disparte, trattenendo il
respiro per impedire alle lacrime di rotolare pesanti lungo le sue
guance. Si morse il labbro, deglutendo il groppo che le serrava la
gola; mischiando il pianto al riso. Totalmente assorbita da
quell’avvenimento, non aveva prestato minimamente attenzione a
chi la circondava. Mentre si dirigeva seguendo il flusso di invitati al
banchetto, il suo sguardo incrociò volti famigliare e conosciuti e altri
totalmente ignoti. Il Senato era presente con una delegazione
composta dai suoi più illustri rappresentanti. Uomini politici, soldati,
membri delle più importanti e influenti gens di Roma riuniti nella casa
di Viridio per gioire del lieto evento e in segreto per ordire sordide
trame a scapito dei propri nemici. Charis prese un lungo respiro e si
accomodò al posto che le era stato assegnato. Sprofondò tra i
cuscini del triclinium, aspettando che tutti i commensali si sedessero
attorno al basso tavolino. Sorrise a Giunia che aveva preso posto
alla sua sinistra, in una posizione privilegiata al fianco del marito. I
servi cominciarono a confluire nella stanza affrescata con le grandi
imprese del Pelide Achille, servendo costosi ed elaborati piatti:
murene, selvaggina farcita, arrosti e sorprendenti primi piatti. Fu poi
la volta di ciotole ricolme di garum e miele con il quale condire le
pietanze e anfore di terracotta recanti il pregiato vino Falerno.
Charis intinse del pesce in una ciotola di densa salsa e se lo portò
delicatamente alle labbra. Ben presto un chiacchiericcio allegro e
concitato si levò dalla sala, accompagnando le portate della cena.
Giunia ascoltava in silenzio, rapita dalla voce di suo padre che
descriveva una delle tante città della Provincia incontrata
nell’ennesimo viaggio politico che il Senato, guidato da Ottaviano[1]
,
gli aveva assegnato.
«Neapolis è una città notevole, ho avuto modo spesso di visitarla
in questi ultimi anni. Un mare caldo e cristallino, coste incantevoli,
belle donne. Non è un mistero il motivo per cui il buon Virgilio abbia
scelto proprio quel luogo per vivere e comporre la sua poesia
ispirata dagli dei.» Viridio sorbì un lungo sorso di vino.
«Concordo, nonostante abbia spesso preso decisioni politiche
palesemente avverse, ha mantenuto immutato il suo lucente
fulgore.» Charis sollevò il capo in direzione di quella voce
sconosciuta, quanto avvolgente. Un timbro deciso, ruvido e caldo. I
suoi occhi scrutarono due iridi screziare di azzurro, tanto intense che
fu costretta ad abbassare lo sguardo. Continuò a parlare e Charis
non poté fare a meno di osservarlo ancora. Non aveva mai visto
quell’uomo, un ufficiale dalla pelle cotta dal sole e i corti capelli
biondi del colore del grano maturo. Le labbra piene le sorrisero
sfacciate, quando si accorse di avere la sua attenzione. Charis sentì
un’ondata di calore salirle al viso, imporporandole le guance sotto il
sottile velo di trucco. Sembrava molto sicuro di sé, tutto il contrario di
come si sentiva lei in quel momento. L’orgoglio le impose di
sostenere il suo sguardo.
«Alla tua casa, Gaio Giunio Viridio, e al ricco e piacevole
banchetto che hai offerto a tutti noi. Ottaviano ti reca i suoi migliori
auguri.» Disse il soldato, levando al cielo il calice colmo per tre quarti
di vino e per un quarto di acqua. Charis schiuse le labbra,
meditativa. Dunque, era un soldato vicino al grande triumviro,
all’uomo più potente di Roma. Viridio chinò il capo in segno di
apprezzamento. Era strano che non lo conoscesse, rifletté ancora la
ragazza, la sua famiglia aveva contatti con tutti i maggiori esponenti
della casta romana e a giudicare dalla sua vicinanza a Ottaviano,
quel giovane doveva avere fatto molta strada.
Il banchetto proseguì e Charis mangiò sovrappensiero,
scambiando solo di tanto in tanto qualche parola con la sorella.
Poteva percepire quegli occhi sconosciuti e brucianti sondarle
l’anima. Mai nessuno l’aveva fatta sentire in quel modo, così
vulnerabile e scoperta. Quella sensazione non l’abbandonò sino al
termine della cena. Gli ospiti cominciarono a defluire
compostamente e un fremito di aspettativa ed eccitazione pervase i
corridoi della domus. Era giunto il momento della deductio uxoris, il
finto rapimento della sposa che sarebbe stata condotta in quel modo
simbolico e goliardico alla casa del rispettivo marito. Giunia avrebbe
subito il famoso ratto seguendo le orme delle mitiche sabine, fatto
storico e quasi leggendario che aveva contribuito alla fondazione di
Roma.
La ragazza abbracciò forte prima la madre e poi Charis. Le loro
lacrime si confusero negli ultimi attimi di quel gesto d’affetto, prima
che la folla l’afferrasse nel suo impeto, accompagnandola per le vie
di Roma sino alla casa di Manlio. Charis non si unì al corteo che si
era riversato in strada. Rimase a contemplare dalle finestre della
domus le luci delle fiaccole che si allontanavano, la calca che
lasciava la sua casa orfana di grida e schiamazzi, irrimediabilmente
svuotata dalla presenza di Giunia. Si avvolse nello scialle e percorse
a passo lento il corridoio che l’avrebbe condotta al suo cubiculum.
Gli schiavi erano già al lavoro per sistemare e riassettare le cucine e
il triclinium dopo il disordine che il banchetto aveva causato e il
silenzio permeava ogni cosa, calando una patina quasi surreale sugli
ambienti della casa. Fece ancora un passo e un borbottio confuso
attirò la sua attenzione. La voce di sua madre raggiunse le sue
orecchie, ovattata da dietro la parete. Charis raggiunse la soglia
della stanza, chinandosi sulla porta semiaperta. Uno spiraglio di luce
disegnava il bel pavimento a mosaico, ravvivandone a tratti i toni
scuri. La voce di un uomo si confuse a quella di Claudia Naevia; la
voce di un uomo che non era suo padre…
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