Partire – Tahar Ben Jelloun

SINTESI DEL LIBRO:
A Tangeri, d’inverno, il Caffè Hafa si trasforma in un osservatorio dei
sogni e delle loro conseguenze. I gatti delle terrazze, del cimitero e
del forno più importante del Marshan si danno appuntamento lì come
per assistere a uno spettacolo silenzioso da cui tutti si fanno
incantare. Le lunghe pipe di kif circolano da un tavolo all’altro, e i
bicchieri di tè alla menta si raffreddano circondati da api che
finiscono per caderci dentro, nell’indifferenza degli avventori persi
ormai da tempo nelle volute dell’hascisc e di fantasticherie da quattro
soldi. In fondo a una delle sale, due uomini preparano
scrupolosamente la pozione che dischiude le porte ai viaggi. Uno di
loro seleziona le foglie e le sminuzza con una tecnica rapida ed
efficace. Nessuno dei due solleva la testa. Gli altri, seduti sulle stuoie
e con le spalle al muro, fissano l’orizzonte come a interrogare il
proprio destino. Guardano il mare, le nuvole che si confondono con le
montagne, e aspettano l’apparizione delle prime luci della Spagna. Le
seguono senza vederle, e talvolta le vedono proprio quando sono
velate dalla bruma e dal cattivo tempo.
Tutti tacciono. Tutti hanno l’orecchio teso. Stasera forse farà la sua
comparsa, parlerà loro, canterà loro la canzone dell’annegato
trasformato in una stella marina sospesa sopra lo stretto. Hanno
stabilito di non nominarla mai. Nominarla significherebbe
annientarla, oltre a causare una sequela di disgrazie. Quindi, tutti si
guardano l’un l’altro senza dire niente. Ciascuno entra nel proprio
sogno con i pugni stretti. Solo il maestro del tè, il proprietario del
posto, e i suoi servitori sono esenti dall’incantesimo, intenti come
sono a preparare e a servire con discrezione le bevande, andando e
venendo da una terrazza all’altra senza disturbare il sogno di nessuno.
Gli uomini lì presenti si conoscono ma non si parlano. La maggior
parte di loro viene dallo stesso quartiere e ha giusto i soldi per
pagarsi il tè e qualche pipa di kif. Alcuni hanno una lavagnetta su cui
annotano i propri debiti. Come se si fossero tutti messi d’accordo, non
aprono bocca. E soprattutto non adesso, a quest’ora della giornata e
in questo istante delicato in cui tutto il loro essere è teso verso un
punto lontano, mentre spiano il minimo fremito delle onde o il
rumore di una vecchia imbarcazione che rientra in porto. Gli può
capitare di sentire, come un’eco, un SOS. Si guardano senza fare
commenti. Ci sono tutte le condizioni perché lei appaia e sveli loro
uno dei suoi segreti. Un cielo chiaro, un cielo quasi bianco che si
riflette in un mare limpido divenuto ora fonte di luce. Il silenzio nel
caffè, il silenzio sui volti. L’istante tanto atteso è quasi arrivato: tra
poco parlerà!
Ogni tanto può capitare che parlino di lei, soprattutto quando il
mare restituisce il cadavere di un annegato. “Si è di nuovo arricchita,”
dicono, “ci dovrà pure qualcosa!” L’hanno soprannominata “Toutia”,
una parola che non vuol dir nulla, ma tra di loro sanno che si tratta di
una specie di ragno che alcune volte si nutre di carne umana mentre
altre volte dispensa favori, come quando si trasforma in una voce che
suggerisce loro che questa notte non è il caso di partire e che la
partenza va rimandata.
Come bambini, loro credono a questa storia che li ammalia e che li
fa addormentare con le spalle contro il muro ruvido. Nei grandi
bicchieri di tè freddo, la menta verde è diventata nera. Le api sono
tutte annegate sul fondo. E loro non bevono più questo tè, che è
decantato così a lungo da esser diventato amaro. Con il cucchiaio
estraggono le api a una a una, le depositano sul tavolo e si dicono:
povere bestioline annegate, vittime della loro stessa ingordigia!
Come in un sogno assurdo e ricorrente, Azel vede il proprio corpo
nudo in mezzo ad altri corpi nudi enfiati dall’acqua di mare, il viso
deformato dall’attesa e dal sale, la pelle bruciata dal sole lacerata
all’altezza delle braccia, come se il naufragio fosse stato preceduto da
una zuffa. Si vede in maniera sempre più distinta a bordo di una
barca dipinta di bianco e di blu, la barca di un pescatore che si fa
largo con lentezza sconfinata verso il mare aperto; Azel ha stabilito
che il mare che egli vede di fronte a sé ha un centro e che questo
centro è un cerchio verde, un cimitero dove la corrente si
impadronisce dei cadaveri per poi trascinarli sul fondo e deporli su un
banco di alghe. E sa che lì, proprio in quel cerchio, esiste una
frontiera mobile, una sorta di linea di demarcazione fra due acque,
quelle calme e piatte del Mediterraneo e quelle furenti e impetuose
dell’Atlantico. Si tappa il naso, perché a forza di vedersi davanti
queste immagini ha finito per sentire l’odore della morte, un odore
soffocante che gli aleggia intorno dandogli la nausea. Quando chiude
gli occhi, la morte si mette a danzare attorno al tavolo a cui lui ha
l’abitudine di sedersi ogni giorno per guardare il tramonto e per
contare le prime luci che si accendono lì di fronte, sulle coste
spagnole. I suoi amici lo raggiungono e giocano a carte senza dire una
parola. Anche se alcuni di loro sono ossessionati tanto quanto lui
dall’idea di lasciare il paese, un giorno, sanno, e una notte gliel’ha
detto anche la voce di “Toutia”, che non dovrebbero perdersi in
immagini portatrici di dolore.
Azel non dice una parola a proposito del suo progetto e nemmeno
del suo sogno. Si vede che è nervoso, infelice; e dicono che sia
stregato dall’amore per una donna sposata. Gli vengono attribuite
delle avventure con delle straniere; si sospetta che le frequenti
sperando così di trovare il modo per uscire dal Marocco. Lui
ovviamente nega e preferisce riderci su. Ma l’idea di prendere il largo,
di montare su un cavallo dipinto di verde e di attraversare il mare
dello stretto, questa idea di diventare un’ombra trasparente, visibile
solo di giorno, un’immagine che naviga sui flutti a vele spiegate, non
lo abbandona mai. Se la tiene per sé, non ne parla neanche a sua
sorella Kenza e ancor meno a sua madre, che si preoccupa vedendolo
dimagrire e fumare troppo.
Anche lui ha finito per credere alla storia di quell’apparizione che li
aiuterà ad attraversare, uno dopo l’altro, la distanza che li separa
dalla vita, la bella vita, o dalla morte.
2
Al Afia
Ogni volta che Azel abbandona quel suo silenzio in cui nessuna
presenza si staglia, ha freddo. Qualunque sia la stagione, il suo corpo
è scosso da un leggero tremito. Sente il bisogno di allontanarsi dalla
notte, si rifiuta di entrarci. Cammina nella città, non parla con
nessuno, e si immagina di essere un sarto, uno stilista, ma di un
genere speciale, capace di cucire insieme con un filo bianco i vicoli
stretti e i larghi viali, come in quella storia che sua madre gli
raccontava quando faceva fatica ad addormentarsi. Gli sarebbe
piaciuto sapere se Tangeri era una djellaba da uomo o un caftano da
sposa, ma la città era talmente cresciuta che aveva rinunciato a
ottenere una risposta.
Fu in quella notte di febbraio del 1995 che decise di abbandonare il
suo lavoro di sarto, persuaso che Tangeri non fosse più un abito, ma
una di quelle coperte di lana sintetica che gli emigrati portano dal
Belgio. La città era nascosta sotto quel tessuto, che tratteneva il calore
senza però tener lontana l’umidità. Non aveva più forma, non aveva
più un centro, solo luoghi dai contorni decisamente spigolosi in cui le
automobili avevano preso il posto delle contadine venute dal Fahs per
vendere la frutta e la verdura.
La città cambiava e le pareti si crepavano.
Si fermò davanti al Whisky a Gogo, un pub in rue du PrinceHéritier gestito da una coppia di tedeschi. Esitò un istante prima di
spingere la porta. Era uno di quegli uomini convinti che tutto ciò che
accade è già scritto, forse non nel Gran Libro Celeste, ma pur sempre
scritto da qualche parte. Ciò che deve accadere accade. La sua era una
libertà delle più ridotte. Malgrado quel che sua madre gli diceva, gli
capitava comunque di lottare strenuamente contro questa visione
fatalistica. Si divertiva a cambiare il tragitto che faceva abitualmente
solo per contrastare quest’idea preconcetta. Quella notte, fermandosi
un istante davanti alla porta del pub, ebbe come un presentimento,
una sorta di desiderio folle di andare al cospetto del proprio destino.
Nel pub regnava una calma strana. Alcuni uomini bevevano al
bancone del bar. Una finta bionda li serviva. Alla cassa c’era uno dei
due tedeschi. Non sorrideva mai
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo