Non superare le dosi consigliate – Costanza Rizzacasa D’Orsogna

SINTESI DEL LIBRO:
Ho otto anni, è mezzanotte, quindi ora di cena. Da noi si cena tutti
insieme quando torna papà, che lavora lontano. Fa trecento
chilometri ogni giorno, con la macchina, su una strada statale tutta
curve, una volta ha portato pure noi e ci è venuto il mal di testa.
Papà si sacrifica tanto, dice mamma, il minimo che possiamo fare è
aspettarlo per cena. Così mamma ci sveglia, e io e mio fratello Leo,
che ha poco più di due anni, insonnoliti andiamo a tavola. C’è il riso
al sugo rosso che detesto, per fortuna c’è il pane. Allungo le mani,
ne infilo in bocca un pezzo grosso, di traverso, come se stesse per
finire. Veloce, prima che mamma mi veda.
Quanto mi piace il pane, mi dà un senso di calma. Mi piace più di
ogni altra cosa. Quello che preferisco è il pane nero, di paese, con la
crosta croccante, che vendono in forme da un chilo oppure mezzo,
ma anche i bocconcini al sesamo, bianchi e così morbidi, che stanno
in una mano e sono ancora buoni il giorno dopo – certo, sarebbe
meglio scaldarli, ma il forno noi lo usiamo raramente perché costa,
così a volte, quando non c’è nessuno, io li metto direttamente sul
fuoco. A casa il pane sta in una busta di plastica, quelle della spesa,
e la schiacciamo bene per togliere tutta l’aria, così dura di più.
Sono io che la mattina vado a prendere il pane dal fornaio. Dieci
bocconcini, mille lire. Adoro andare dal fornaio, che sta accanto alla
mia scuola. Vado prima dell’alba, quando papà parte per essere al
lavoro entro le otto e mamma lo bacia e torna a letto. Adoro andare
dal fornaio perché posso sentire il profumo del pane. Dieci
bocconcini, mille lire. «Se non ci sono prendi cinque panini» dice
mamma. Anche i panini mi piacciono, specie se sono poco cotti, per
masticarli meglio. Non ho la paghetta ma tengo di nascosto il resto
dei soldi del pane. Come faceva nonna, la mamma di mamma,
quando mi lasciavano da lei, e mamma dava i soldi a nonna perché
lei mi comprasse da mangiare – la carne, soprattutto, «che fa bene
ai bambini» – e nonna invece li teneva per sé, correndo subito a
nasconderli in fondo all’armadio, e da mangiare c’era sempre pasta
al burro. Barilla, spaghetti n. 5.
Ah, com’è buono, il pane, come riempie, che sensazione di
benessere. Il pane non tradisce, se sai dove prenderlo, e da noi è
buono dappertutto. Anche se col tempo inizio ad apprezzare i
derivati. In prima media, per esempio, invece di tenermi il resto della
spesa per comprare i trucchi e i quaderni firmati, come facevano già
le mie compagne, io ci compravo le briochine.
«Che hai fatto con i soldi?» mi chiedevano.
E io: «Ho comprato una briochina».
«E poi?»
«Un’altra briochina.»
«E poi?»
«E un’altra briochina.»
Sembravo la piccola fiammiferaia delle briochine, e ancora la
prendevano a ridere.
Pane e derivati. Dal fornaio si può ordinare la merenda, come la
briochina o la ciambella, se vuoi esagerare c’è la treccia, che costa
di più perché ha l’uvetta. Ma a me piace il pane di paese, soprattutto
il filone che si trova la domenica agli angoli del centro, nei furgoni, in
grandi ceste di plastica. Adoro la mollica del filone, anche se
mamma dice di toglierla che ingrassa. Adoro masticare il pane. Se il
pane è buono non hai bisogno d’altro.
«Smettila di appanarti, sei sbutriata!» grida mamma che mi ha
vista mettere in bocca il pane – lei mi vede sempre. Sbutriata, cioè
ingorda, una parola del dialetto siciliano, quasi l’unica che so.
Neppure lei lo parla, è il dialetto di sua madre, emigrata in Centro
Italia da ragazza. Nella mia testa il siciliano è una lingua violenta.
Intanto mamma afferra dalla mensola una confezione di Dulcolax, ne
sgrana un blister e sbatte sul tavolo due compresse gialline, mentre
lei inghiotte le altre. «Prendi queste» dice. Il Dulcolax, per chi non lo
sapesse, è un lassativo. Mamma me lo dà ogni sera. Se arrivo a
tavola che è già apparecchiato, lo trovo a destra del piatto, accanto
al bicchiere. All’inizio sono solo due compresse, presto diventeranno
un blister.
A casa nostra c’è un farmaco per qualsiasi cosa, prima
nell’armadietto dei medicinali in bagno, poi nel mobile bianco che è
più grande. Siamo moderni e molto laici. Mamma e papà mi
mandano a scuola dalle suore, ma solo per avere un posto dove
dimenticarmi. Se vai a scuola dalle suore e i tuoi si scordano di
venire a prenderti, le suore non ti gettano in strada.
Non c’è problema che un farmaco non curi, mamma lo dice
sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine. Così io
prendo il Dulcolax ogni sera, perché sono una bambina grassa. Due
compresse, quattro, otto. E io non so che legame ci sia tra una
bambina grassa e i lassativi, visto che non dimagrisco, tra i lassativi
e la bulimia di mia madre, che è magra e scarna e il Dulcolax lo
sgrana direttamente in bocca, due-tre blister al mattino, e mangia
tutto ciò che vuole, e poi va a vomitare. Due dita in gola, finché non
torna su, ma a lei ritorna subito. Due dita in gola, è così facile, mi
dice. M’incoraggia. Non mi ha insegnato a truccarmi, ma mi ha
insegnato a vomitare.
Mamma inizia a stare male mentre mangia. Le vengono i crampi,
dice, e corre in bagno. «Franca, hai bisogno d’aiuto?» chiede papà
già contrariato, ma senza fare nulla. E mentre mamma, dal bagno,
con voce spezzata grida «Nooo», lui inizia a sparecchiare, perché
tanto lo sa che lei non tornerà a finire, lo sappiamo tutti anche se
non ce lo diciamo.
Se mamma si lamenta dal dolore, io e Leo corriamo da lei. La
porta del bagno non c’è, e noi vediamo tutto. Non è lasciata aperta,
è proprio che non c’è, in uno di quegli arredamenti postmoderni dove
la privacy non importa a nessuno. Mamma, nuda se è estate e in
pigiama d’inverno, lei mette il pigiama appena arriva a casa anche
se è giorno, è in piedi con una mano contro il muro, per tenersi, e
vomita piegata sul water. Poi arriva papà. «Franca, che dobbiamo
fare?» dice con voce che vuol sembrare preoccupata ma è
soprattutto rassegnata, quasi apatica, perché è la stessa scena tutti i
giorni e lui non sa che fare. Povero papà, povera mamma. Poveri noi
vissuti in anni d’ignoranza, dove di queste cose non si sapeva né si
parlava mai, al massimo si curava il sintomo. Mia madre aveva
preso i lassativi per tutta la vita, compreso l’orrendo sale inglese, e
ora li trasmetteva a me, come fossero una malattia infettiva. Ma a
me le dita in gola fanno schifo, e non funziona. Le metto solo in
bocca, sulla punta della lingua, e dico che non ci riesco. «Ingorda!»
«Abulica!» Allora, nessuno sapeva che effetto devastante possono
avere certe parole sui bambini, certi comportamenti, atteggiamenti,
la mamma che ti dice che non hai un fisico normale. Le maestre
chiamavano a casa se non andavo bene a scuola, ma nessuno
chiamava per allertare sul mio rapporto preoccupante con il cibo.
Davvero ero così brava a bluffare?
A otto anni non so che cosa sia la bulimia, forse non lo sa
neanche mia madre. Non so che cosa c’entri il cibo col
perfezionismo, compreso il mio, quello di chi ha paura di fallire e
fallisce in partenza. Anche di anoressia si parlerà soltanto dopo anni,
figuriamoci del binge, cioè le abbuffate incontrollate. Io, come lei,
sono bulimica, ma poiché dopo le abbuffate non digiuno, non vado a
vomitare e non smaltisco, prendo solo il Dulcolax, sono anche una
binge-eater, una binge-eater che fa purging, ed è per questo che
ingrasso, che dopo i quarant’anni sono diventata obesa. Ma se
l’anoressia suscita compassione, tenerezza, senso di protezione,
perfino l’invidia, quando si parla di binge, quando si spiega cos’è il
binge, perché tanti ancora non lo conoscono, le reazioni sono solo di
disgusto. E quindi menti. E passi la vita a mentire. E a molti la mia
storia farà schifo, lo capisco, ma ho deciso di scriverla lo stesso. A
otto anni però non so ancora nulla, so solo che mi piace il pane.
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