L’uomo che amava troppo le donne – Tahar Ben Jelloun

SINTESI DEL LIBRO:
I due uomini robusti che lo avevano trasportato e poi deposto sulla
poltrona rivolta al mare non avevano più fiato. Vengono chiamati i Gemelli
perché, anche se non sono fratelli, sono inseparabili. Uno, un tempo giocatore
di calcio, l’altro professore di ginnastica. Il malato aveva il respiro corto e lo
sguardo pieno di amarezza. Il suo corpo era ingrassato, era diventato pesante.
Le sue membra non gli obbedivano più. Erano inutili, testimoni immobili del
suo stato. Ogni tanto riusciva a muovere le dita della mano destra, ma questa
capacità non gli serviva a niente. Solo la sua coscienza era ancora viva;
quanto alla parola, essa era lenta e talvolta incomprensibile. Gli facevano
ripetere più volte quello che diceva e la cosa lo infastidiva, perché era
faticoso e anche umiliante. Talvolta comunicava con gli occhi; quando li
sollevava, voleva dire no, ma quando li abbassava non voleva dire
propriamente sì; era solo un assenso di rassegnazione. Un giorno uno dei due
Gemelli gli portò una lavagna con una cordicella. Lui si arrabbiò ed ebbe la
forza di buttarla per terra. In seguito gli servì per esercitare le dita a tenere il
pennello.
Quella mattina i Gemelli non avevano potuto raderlo. Una esplosione di
foruncoli intorno al mento rendeva difficile l’operazione. Era scontento.
Trascurato. Si sentiva trascurato. Cosa che non sopportava. Considerato come
l’ictus l’aveva conciato, non poteva anche permettersi di lasciarsi andare
nell’aspetto e nell’abbigliamento. Si rese conto che sulla sua cravatta non era
stata pulita una macchia di caffè. In modo mite protestò. Fu cambiato, vestito
di bianco, senza cravatta.
Quando parlava, anche se non capivano certe parole, i Gemelli riuscivano
comunque a indovinarle. Leggevano il suo volto, anticipavano i suoi desideri.
Erano necessari udito fine e pazienza. Quando era stanco, chiudeva gli occhi,
segno che bisognava lasciarlo solo. Forse piangeva, quell’uomo che era stato
così brillante, così elegante, celebrato ovunque andasse; lui, così curato, così
sensibile, non tollerava lo stato in cui si trovava prigioniero. Sembrava che la
morte lo avesse sfiorato, ma non avesse finito la sua opera. Aveva temuto un
momento di quel genere, sapeva che un giorno avrebbe avuto un cedimento e
avrebbe perso una parte di sé. Tanti dei suoi amici e dei suoi conoscenti, della
sua stessa generazione, avevano avuto quel tipo di incidente. Era arrivato –
come diceva il medico – a un’età critica, cinquantotto, cinquantanove anni.
L’età era costretta ad affrontare delle tempeste. Gli sarebbe piaciuto non
pensare più, non avere più coscienza di ciò che succedeva intorno a lui. Dopo
un periodo in cui la sua collera era stata tutta interiore, aveva deciso di
sorridere: un modo per non cedere alla decadenza fisica, che certe volte
portava con sé quella dello spirito. Per questo sorrideva sempre. C’era il
sorriso del mattino, leggero e profumato, poi il sorriso di mezzogiorno,
impaziente e secco, e poi quello della sera, divenuto alla lunga una lieve
smorfia. Un giorno smise di sorridere. Non voleva più far finta. Perché
sorridere? E a chi e a quale scopo? La malattia aveva confuso le sue
abitudini. Non era più lo stesso personaggio, e lo notava negli occhi degli
altri. Ma si rifiutò di nascondersi; bisognava uscire e mostrarsi nel suo nuovo
stato. Certe volte era un esercizio penoso, ma per lui era importante. Mentre
per tutta la vita aveva evitato di battersi, ora era deciso a prendersi la sua
rivincita e a non lasciare che la malattia avesse la meglio sulle sue ambizioni,
sui suoi progetti e sul suo amore per la vita. Curiosamente, non pensò mai
che la malattia gli avrebbe impedito di dipingere. Era convinto che la crisi
fosse passeggera; cercava di muovere le dita della mano destra. Non erano
del tutto rigide. Chiese un pennello, gli venne messo fra l’indice e il pollice,
ma non riusciva a stringerlo, non abbastanza a lungo. Faceva questo esercizio
più volte al giorno. Se fosse riuscito a tenere un pennello, lo stato di tutto il
resto del corpo sarebbe diventato secondario.
Idee di nuovi quadri si affollavano nella sua testa. La sua incapacità lo
metteva in uno stato di eccitazione. Era ancora più impaziente del solito.
Questi momenti di turbamento e intensità finivano in lunghi silenzi
accompagnati da un sentimento di sconfitta. Il suo umore cambiava, cadeva
in una spessa nebbia che annunciava eventi lugubri. Dalla sua bocca
semiaperta, colava un filo di saliva. Di tanto in tanto uno dei Gemelli lo
asciugava con delicatezza. Si risvegliava e si vergognava di aver avuto un po’
di bava alla bocca. Questi piccoli dettagli lo disturbavano più della paralisi
della gamba. Levava gli occhi poi li abbassava in segno di impotenza e
desolazione.
Qualcuno aveva acceso la televisione; trasmetteva una gara di atletica. Era
sempre stato affascinato dai quei corpi flessibili, magnifici, perfetti, troppo
perfetti per essere umani. Li guardava e si chiedeva quanti anni, mesi, giorni
di lavoro ci fossero dietro ciascun gesto di quel giovane acrobata che faceva
miracoli con le sue braccia e le sue gambe. Disse di non cambiare
programma. No, gli piaceva vedere quello spettacolo anche e soprattutto
perché era bloccato nel suo stato. Sognava, e con piacere seguiva i movimenti
di quei giovani sportivi. Li amava come se li conoscesse personalmente uno
per uno, come se fosse il loro allenatore, il loro insegnante, il loro consulente.
Si diceva, sarebbe troppo facile piangere o deprimersi, troppo scontato. No,
io li voglio guardare con la stessa attenzione e lo stesso piacere di un tempo.
Anche quando godevo di buona salute, non mi sono mai pensato come un
atleta. Amo l’atletica per la bellezza e la grazia dei corpi, per la gioia di colei
o di colui che ottiene una vittoria dopo anni di lavoro, di prove e di sforzi.
Era soddisfatto. Non gli era scesa neanche una lacrima. Il suo morale aveva
retto. Con la sua mano pesante palpava la sua gamba, ma non sentiva
granché. Si diceva, resisti, ce la farai, vecchio mio!
Dopo il litigio fatale, sua moglie non aveva più diritto a varcare la soglia
della sua porta. I Gemelli che si occupavano di lui giorno e notte ricevettero
la consegna di non lasciarla mai avvicinare a lui. Ma era un ordine che lei non
rispettava. Spingeva gli aiutanti ed entrava nella stanza di suo marito. Gli
portava i giornali, dei biscotti che preparava lei stessa, la posta già aperta. Lui
la guardava senza dire nulla. Lei si faceva bella e usciva. Nessuno sapeva
dove andasse e lui non voleva sapere niente di lei.
Prima, quando era in buona salute, lui era abituato a fuggire, partire e non
dare segni di vita. Era così che rispondeva al malessere e ai conflitti di
coppia. Teneva un diario in cui parlava solo di problemi coniugali.
Nient’altro vi era annotato. Per vent’anni, la trascrizione dei suoi litigi, dei
suoi dissensi e delle sue ire non era cambiata granché. Era la storia di un
uomo che aveva creduto che gli esseri umani cambiassero, si curassero dei
propri difetti, consolidassero le proprie qualità, diventassero migliori
mettendosi in discussione. Coltivava dentro di sé la speranza di vedere un
giorno sua moglie diventare l’essere sognato, non necessariamente docile e
sottomessa, per niente, ma almeno conciliante e amorevole, calma e
ragionevole, insomma una sposa che condivide e che costruisce col marito
una vita in famiglia. Era un sogno. Era sulla strada sbagliata e caricava di
responsabilità eccessive la moglie, dimenticando di prendere atto della sua
stessa parte in quel fallimento.
Aveva avuto la debolezza di credere che, col tempo, la maturità si sarebbe
imposta e avrebbe respinto la spirale dell’irrazionalità. Invece si rese conto
molto presto che non erano fatti per vivere insieme; scoprì che non erano
d’accordo su niente e che era vano voler negoziare con lei una base minima
di accordo per evitare scontri violenti o le incoerenze di certi comportamenti
e decisioni prese spesso a dispetto del buon senso, che lo mettevano ogni
volta di fronte a fatti compiuti.
Certo, avrebbe potuto andarsene quando era ancora in tempo. Avrebbe
potuto, sì, ma era un artista, un pittore, un poeta, innamorato del raggio di
luce che illuminava in modo sottile il viso di quella donna di cui amava la
bellezza e la giovinezza. Le donne avevano contato molto nella sua vita. Le
amava, non sempre le capiva, ma erano il suo punto debole, la sua ragione di
vita. Diceva: “I più bei viaggi sono quelli che si fanno per andare in capo al
mondo a raggiungere la donna che si ama”. Le amava con tenerezza, cercava
la loro compagnia, intratteneva relazioni che a volte duravano anni. Aveva
bisogno della loro presenza, del loro sguardo, della loro sensibilità. Ci teneva
a mostrare loro le sue opere quando ancora ci stava lavorando, chiedeva il
loro parere; lo sguardo di una donna lo stimolava, lo rendeva felice. Alcune
erano solo delle amiche con cui viveva un amore platonico. Altre erano
invitate permanenti del suo “giardino segreto”; con loro viveva la passione
dell’amore fisico; amava scoprirle, sedurle, inventare giochi erotici, anche
parlare con loro delle sue letture, e poi le portava a vedere delle mostre.
Conosceva la felicità di essere innamorato e temeva di diventare indifferente,
un giorno, a tutto questo. Più avanzava nell’età più sentiva questo bisogno
d’amore, questa attesa della sensualità. Non aveva bisogno di andare in
analisi per sapere da dove veniva tutto ciò. Da piccolo, era stato malato;
passava le sue giornate circondato da donne che lo coccolavano, lo
vezzeggiavano, alcune avevano provato anche a iniziarlo alla sessualità. Lui
si lasciava fare, chiedendo sempre di più. Adorava quei momenti in cui si
trovava con la cugina più grande che gli permetteva di accarezzarle i seni. Gli
mostrava il suo sesso, che però lui non aveva diritto di toccare. Si toglieva le
mutandine, si metteva in piedi, alzava lentamente il vestito e poi lo abbassava
rapidamente. Lui si divertiva; quando ebbe la sua prima eiaculazione, si
precipitò da questa cugina che nel frattempo si era sposata e le propose di
proseguire i loro giochi. Lei non fece resistenza. Si ricordava quegli
appuntamenti clandestini, in cui il marito non immaginava che il giovane
cugino di sua moglie fosse il suo amante. Prendeva a pretesto la temporanea
mancanza d’acqua a casa dei suoi genitori per chiedere a sua cugina
l’autorizzazione a fare un bagno lì. Lei capiva al volo; entrava con lui in
bagno, lo insaponava, lo massaggiava e finiva per masturbarlo. Le piaceva
raccogliere il suo sperma in un piccolo recipiente, che metteva da parte. Una
volta lui le chiese cosa ci faceva col suo sperma. Lei rise e disse: “È
eccellente per la pelle!” Poi lo mise nelle mani di una giovane zia divorziata
che continuava con lui gli stessi giochi. Faceva la sarta e lo invitava ad
accompagnarla alla kissaria
1 a comprare tessuti. Lui aveva più o meno
quindici anni, lei venticinque. Lei abitava con i suoi genitori, ma appena si
ritrovavano soli, lo attirava a sé e si dava a lui. Lui eiaculava molto presto,
poi chiedeva quindici minuti per riprendersi e ritornava alla carica con ancora
più foga. Un giorno restò incinta. Lui fuggì e venne a sapere tempo dopo che
aveva finito per avere un aborto spontaneo. Lui non volle più vederla. La sua
infelicità fu presto compensata da una vicina il cui marito era in prigione. Le
prime esperienze sessuali lo inebriavano e gli davano sempre più sicurezza;
in nessun momento della sua giovinezza ebbe bisogno di andare a puttane,
come suo cugino. Aveva talmente paura di prendersi qualche malattia che si
accontentava della sua seduta quotidiana di masturbazione o di una botta
veloce con la vicina, sempre più sorvegliata dalla suocera.
Di quell’epoca, aveva solo buoni ricordi. Era incosciente di quel che gli
succedeva e pensava che tutte le donne tradissero il marito. Si ricordò di un
incontro in treno tra Fès e Tangeri nell’estate del ’61. Non era mai lui ad
abbordare per primo le donne; forse per timidezza. Si lasciava andare, posava
uno sguardo sensuale su una piccola parte del corpo femminile, spesso il seno
– andava pazzo per i seni e poteva parlarne per ore e si diceva che se avesse
saputo scrivere, avrebbe composto un’antologia universale sui seni delle
donne – e poi aspettava una reazione. Quel giorno la ragazza, jeans aderenti, i
seni ben valorizzati, gli fece l’occhiolino, assieme a un gesto per dire usciamo
dal compartimento. Lui si alzò, la seguì e si misero a fumare nel corridoio
guardando il paesaggio, mentre il treno proseguiva lento, fermandosi spesso.
Lei gli disse: “Sono con mia madre e mia sorella, andiamo qualche giorno a
Marbella, in Spagna, ma prima della traversata resteremo da mio zio per un
giorno o due…” Mentre parlava faceva in modo che il suo seno sfiorasse la
spalla di lui o il suo braccio. Precisò che non era autorizzata a fumare né a
parlare con un ragazzo. Sua madre e sua sorella dormicchiavano. Quando lui
la prese per la vita e l’attirò a sé, lei fece finta di essere sorpresa ma poi si
abbandonò. Disse: “Non qui, a Tangeri; dammi il tuo indirizzo a Tangeri…”
Subito, lui iniziò a passare in rassegna mentalmente gli amici, più grandi di
lui, che avevano una garçonnière. Era lì che all’epoca i ragazzi si
incontravano. Pensò a Nourredine, un playboy, più seduttore e meglio
organizzato di lui. Aveva una piccola stanza in un vecchio palazzo degli anni
trenta. Nourredine era la sua salvezza. La ragazza piegò in quattro un foglio
di carta ma poi si ricordò.
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