Ludwig o il re amleto – Guy De Pourtalès

SINTESI DEL LIBRO:
Circa trent’anni dopo il soggiorno di Goethe in Italia, soggiorno
che inoculò una goccia suprema di classicismo nelle vene del
grande corpo romantico tedesco, un giovane principe di Baviera vi
giunse a sua volta e scoprì Roma. Non solo Roma, ma Atene in
Roma, l’Olimpo eterno, gli dèi, Omero, la bellezza, il suo destino.
Divenuto re poco dopo con il nome di Ludwig I, il sovrano voleva
rendere la sua cara capitale una nuova Atene. E nel colpirne il
terreno onorato e triste con un bastone d’oro, ne fece scaturire dei
Propilei, un Partenone, una pinacoteca, una gliptoteca di mattoni,
rivestita di cemento con venature a pennello per imitare il marmo.
Poi si sposò, fu un marito fedele, un padre severo, un monarca che
si prendeva cura delle finanze pubbliche. La sua unica amante
restava la Grecia. La vedeva dappertutto. Ne permeava i suoi artisti,
che pagava con corone di rose e di alloro, anche se acquistava le
sue statue all’estero. Il suo regno fioriva in pace e in un innocente
ellenismo. A un pittore, che del Reno tedesco aveva fatto un dipinto
allegorico, diceva: «Reno deriva dalla parola rinos. Il Reno è un
fiume greco». Nel 1832 ebbe una grande gioia: Otto, il figlio ancora
minorenne, fu designato dal Congresso di Londra per essere
incoronato re degli Elleni. Purtroppo questa gioia ebbe breve durata.
I greci illuminarono il Partenone per celebrare l’arrivo del giovane
bavarese; tuttavia, lo cacciarono presto, cosa che, peraltro, non tolse
nulla all’entusiasmo classico di re Ludwig. Monaco continuò a essere
popolata di templi e colonne.
Questa esistenza avrebbe forse potuto essere portata a termine
nella tranquillità e nell’edificazione di opere murarie, se un incidente,
frutto di estrema impertinenza, non avesse disturbato per sempre il
suo corso apollineo. Una sera del settembre 1846, mentre stava
lavorando nel suo studio, Sua Maestà fu improvvisamente disturbato
da un rumore insolito, da grida e grande confusione. Un servitore
sconvolto venne infine a dirgli che la ballerina spagnola che doveva
debuttare quella sera a teatro, essendosi vista ritirare il permesso di
apparire sul palcoscenico reale, pretendeva con impudenza di
arrivare fino al re, e, se non fosse stata afferrata saldamente, di
certo ci sarebbe riuscita! Già il monarca stava rimuginando sulle
punizioni che una simile audacia avrebbe meritato, quando, seguita
da un ciambellano terrorizzato, apparve la ballerina. Era una
ragazza esile, bruna, furiosa, scintillante. Il re ordinò che fossero
lasciati soli. Le chiese il nome: «Lola Montez». La pregò di
rassettarsi, dato che, nel tafferuglio, la camicetta le era stata
strappata per metà. La ballerina preferì restare a seno nudo. Parlò.
Si spiegò. Supplicò. Il regale amante dell’arte, che aveva
accarezzato così tante statue, ora non poteva credere alla
perfezione di quella verità palpitante. Allungò la mano; lei la prese e
la mise davanti al fatto compiuto. (Così si espresse un rapporto della
polizia). Possiamo notare che, in questa faccenda, nessuno era
privo di determinazione. Ma il re era perduto.
Già l’indomani, Lola ballava di fronte a un pubblico ammaliato e a
un principe schiavizzato. Ricevette versi, firmati «Ludwig». E poi
gioielli, abiti, lettere appassionate. E ancora gioielli, moltissimi
gioielli, una casa, una carrozza, denaro. L’avaro brizzolato si
trasformò in prodigo. In pochi mesi le finanze reali furono
prosciugate. Si passò quindi a quelle dello Stato. Il gabinetto fu
deposto. Altri lo sostituirono, che caddero a loro volta. Al re
importava poco, l’unico suo interesse era ormai la coreografia.
Oppure accompagnava l’amante negli atelier dei pittori, per
insegnarle le Belle Arti e farne dipingere il ritratto. L’intero 1847
trascorse tra le follie. Si vedeva Lola Montez caracollare per le
strade di Monaco, facendosi salutare come una regina e
minacciando con il frustino i passanti non abbastanza deferenti.
Ricevette il titolo di contessa di Landsfeld. Si scontrava con gli
studenti che non dimostravano adeguata ammirazione di fronte a
una tale storia d’amore, oppure, quando manifestavano sotto le sue
finestre, versava sulla loro testa coppe di champagne. Lola pensava
di riscattare le proprie eccentricità «liberando il popolo» e facendo
copiare, a beneficio del suo regale cagnolino, il Codice napoleonico.
Ma quando il re assisteva alle sedute di posa presso Kaulbach, lo
costringeva a inginocchiarsi e gli colpiva la testa con un ventaglio
per insegnargli l’umiltà. Il che non dispiaceva più di tanto al
complicato sessantenne, sebbene lo indolenzisse parecchio. In quel
periodo i sacerdoti predicavano dal pulpito contro la bestia
dell’Apocalisse, o dichiaravano che, a Monaco, Venere aveva
sostituito sul suo trono la Beata Vergine.
Non poteva che finire male. Un giorno, la ballerina fu braccata
dalla folla. Si rifugiò nella chiesa dei Teatini; per liberarla fu mobilitato
l’esercito. Ci fu uno spargimento di sangue. Il 12 ottobre 1848 re
Ludwig I dovette firmare l’ordine di esilio e, non appena la
«diavolessa» lasciò la sua dimora sotto mentite spoglie, la gente vi
fece irruzione e sfasciò tutto. Il re si mostrò alla folla, la calmò, poi
tornò al palazzo e scrisse queste righe: «Bavaresi! Nuovi tempi
stanno iniziando, diversi da quelli previsti da una costituzione in base
alla quale ho governato per ventitré anni. Rinuncio alla mia corona a
beneficio del mio amato figlio, il kronprinz Maximilian».
Così calò il sipario su questo prologo di tragedia, una tragedia
che somiglia a un’operetta. Maximilian iniziava il proprio regno. Il
piccolo Amleto, suo figlio, aveva solo tre anni, lui che poi avrebbe
detto, come l’altro: «Il secolo è in frantumi. Oh! Che maledizione
essere nato per rimetterlo in ordine!».
2
Un principe da fiaba
Maximilian era molto alto e molto magro, con una piccola testa
dalla fronte ampia piantata su un bel busto, tornito e snello. Occhi
profondi, voce dolce e acuta da signora; un uomo saggio, privo di
genialità, ma risoluto, onesto, desideroso di imparare senza altra
passione al di fuori di quella. Sua moglie, la principessa Maria di
Prussia, era soprannominata «l’angelo» tanto per il suo volto di
Madonna fiorentina quanto per la sua purezza di cuore e semplicità
di spirito. Sposata all’età di diciassette anni, era arrivata a Monaco
con i suoi giocattoli e le sue bambole appena quattro anni prima di
Lola Montez. In quella corte di vecchi scapoli la principessa aveva
portato una freschezza ingenua e il sangue patologicamente malato
delle casate di Brunswick-Hannover e Brunswick-Hohenzollern. Ma il
vecchio re Paride non si preoccupava di destini indecifrabili. Fece
fare il ritratto della nuora per la sua galleria di bellezze, dove
danzatrici, ragazze del popolo, attrici e principesse rallegravano i
suoi ozi di monarca non più al potere.
Max prese molto sul serio la sua carica, circondandosi di dotti e
di ministri. Una volta alla settimana, la sera, ricevimento al castello,
in marsina e cravatta nera. Si riunivano nel suo studio, che
sembrava una cappella, perché era molto pio. E persino tormentato
dai misteri della teologia. Fu così che, una volta, chiese al professor
Jolly «se la sua scienza non gli permettesse di stabilire con certezza
che i signori di questo mondo avrebbero avuto anche nell’altro una
posizione privilegiata». I dotti si guardarono l’un l’altro, bevvero la
loro mezza pinta di birra e non si fecero scrupolo di rispondere:
«Sire, questi sono problemi che non capite». Quanto alla regina,
ascoltava come meglio poteva le letture dei poeti, ma garbatamente
li pregava affinché, ovunque comparisse la parola «amore», fosse
sostituita con «amicizia». Nel frattempo, il piccolo Ludwig, il loro
figlioletto, si divertiva a costruire case sul parquet. Cosa che piaceva
al nonno. «I Wittelsbach – diceva – ce l’hanno nel sangue».
Passano alcuni anni. Ludwig e il fratello minore Otto crescono
senza avvenimenti notevoli e si sviluppano senza gioia. I principi
vengono allevati nella bambagia, ascoltano i loro precettori e si
annoiano. Un solo piacere all’orizzonte: la campagna e i grandi
castelli in Baviera. Soprattutto quello di Hohenschwangau, il paese
dei cigni, sulle cui pareti è dipinta la storia del cavaliere Lohengrin:
l’addio al castello del Santo Graal; l’imperatore che sente suonare la
tromba del cavaliere; la vittoria dell’eroe nel torneo; il matrimonio di
Lohengrin con la duchessa di Bouillon.
Ore di uno sfrenato fantasticare di fronte a quelle fantasmagorie.
«Ore sprecate! – sbotta il precettore. – Perché non vi fate leggere
qualcosa, Altezza, invece di annoiarvi a oziare in questa
penombra?». «Oh! Non mi annoio affatto. Immagino cose belle e mi
diverto».
Con la violenza si cerca di distrarre questo bambino troppo
pensoso. Inutile. Ama il silenzio nelle cui profondità improvvisamente
sente delle voci. Quali voci? Ascolta. Smette di scrivere o di giocare.
Vorrebbe capire e indica il luogo da cui gli sono giunte le parole di un
compagno invisibile.
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