Lucrezia Borgia – Maria Bellonci

SINTESI DEL LIBRO:
Assalto al Vaticano.
Di notte, fra il 25 e il 26 luglio 1492, moriva a Roma papa
Innocenzo VIII Cibo, genovese. Su quel vecchio benigno che
sembrava aver portato la sua canizie di patriarca come segno
manifesto di chiarezza d'animo, si erano abbattuti per anni, più o
meno palesemente, biasimo ironia e disprezzo degli uomini di
governo, tutti d'accordo a giudicare peggiore di un vizio la sua
abbandonata debolezza. Debole, Innocenzo VIII era stato davvero, e,
meglio, cedevole in tutto all'influsso di ciascuno che sapesse
imporglisi con il magnetismo della vicinanza e della risolutezza:
primo fra gli altri il savonese Giuliano della Rovere, cardinale di San
Pietro in Vincoli, che aveva governato il papa come si può governare
uno spirito che sfugge perfino a chi lo suggestiona. Pure, legato così
al giuoco delle incertezze, il pontificato di papa Cibo aveva segnato
giorni conclusìvi per la storia della Cristianità. E il più glorioso era
stato quel 2 gennaio 1492 che aveva visto levarsi sull'Alambra, a
Granata, sotto il nitido sole dell'inverno mediterraneo, il gonfalone
col crocifisso d'argento di Sisto IV, ad annunciare che la potenza
degli Arabi, otto volte secolare in Ispagna, era finita, distrutta dalle
cattoliche truppe di Ferdinando d'Aragòna e di Isabella di Castiglia.
A questa gloria il papa aveva sognato di aggiungere l'altra della
Crociata contro gli infedeli, senza aver avuto l'energia, e ci sarebbe
voluta sovrumana, di arrivare non che ad un fine, ad un principio
dell'impresa. Ma la Turchia, quella Turchia minacciosa che
sconfinava in armi dalle porte d'oriente, era stata tenuta a rispetto
anche senza crociata, per mezzo dell'ostaggio rinchiuso in Vaticano,
il principe turco Djem fratello del sultano Bajazet. Pace, seppure
imperfetta, aveva fruttato l'idea di farsi cedere il prigioniero dal
generale dei cavalieri di Rodi, Pietro d'Aubusson, minacciando
Bajazet, se appena si fosse mosso contro gli stati cristiani, di
mandargli contro a capo di un esercito il fratello e rivàle. Così, con la
presa di Granata e l'ostaggio turco si arginava quel pericolo orientale
che era parso ai più avveduti incalzare da vicino, Sopravvenivano
però nuovi eventi: e facevano paura, specie taluni che davano segno
di un prossimo sovvertimento delle cose in Italia. Troppe inimicizie
che una pace artificiosa, più che sanare, corrompeva: e troppe
inquietudini. Tra le une e le altre pareva dovesse vacillare anche la
Chiesa; e voleva pur dire qualche cosa che, durante il pontificato di
Innocenzo VIII, si fosse parlato di un trasferimento della corte
papale da Roma in Francia: stava preparandosi un altro esilio di
Avignone? I disordini nelle Marche nell'Umbria nelle faziose
Romagne, gli intrighi fiorentini di quei Medici che non riuscivano più
a mantenersi nell'equilibrio retto fino alla sua morte, nell'aprile del
1492, dal Magnifico Lorenzo, le infidatezze di Venezia, le ambizioni
di Milano, e soprattutto le prepotenze e le tortuose crudeltà di
Ferrante d'Aragòna re di Napoli, erano i problemi che avevano messo
tanto amaro nelle scorrevoli giornate di Innocenzo VIII, e che gli
angustiarono gli ultimi giorni: finché, svanita ogni forza intellettiva, e
ristretta la sua conoscenza alla vita sensitiva, gli si formarono nella
mente soltanto i nomi consueti dei figli e dei nipoti. La famiglia era il
peccato grosso di Innocenzo VIII.
Frate Egidio da Viterbo gli doveva poi rimproverare nel severo
latino delle sue Historiae di avere, non inventato, ma ostentato il
nepotismo arrivando a celebrare nel palazzo apostolico le nozze dei
suoi figli, e sedendo a convito con donne contro la prescrizione delle
leggi canoniche. Questi figli non erano certo i sedici che aveva contati
l'umanista Matullo per dare agio ad un suo gioco d'epigrammi, ma,
come tutti i parenti di coloro che per un caso fuggitivo sono al potere,
erano avidissimi e predaci; il papa aveva protetto i due più celebri,
Teodorina e Franceschetto; beni e favori erano caduti in pioggia su di
loro; e tutta Roma aveva seguito, assistendo alle cavalcate pubbliche
o ascoltando i racconti dei privati, le fastose cerimonie in Vaticano,
fatte per solennizzare le Politicissime nozze di Franceschetto con la
figlia di Lorenzo dei Medici, Maddalena, nel 1488. Nel 1489, altre
nozze, quelle di Battistina, figlia di Teodorina, con Luigi di Aragòna,
nozze che avrebbero dovuto essere pegno di pace fra il Pontefice e il
re di Napoli, erano state anch'esse celebrate in Vaticano, E i figli
assistevano Innocenzo VIII, fin sul suo letto di morte. Eppure, al
papa pareva d'essere incolpevole o per lo meno assolto dai suoi errori
per quel morire che ora gli toccava: forse aveva ragione.
Franceschetto stava al suo capezzale o nella stanza vicina (doveva più
tardi scrivere che il padre gli era sparato fra le braccia), quando
Innocenzo fece la pubblica confessione, presentì tutti i cardinali,
raccomandando loro di scegliersi un buon successore e di perdonarlo
se non aveva portato a conclusioni più elette l'ufficio che gli era stato
affidato. La confessione avvenuta, il pontefice poteva pensare
d'essere lasciato in pace: ma il 21 luglio, le rivàlità più che acerbe,
belluine, che s'erano maturate in quegli anni tra i battaglieri
cardinali, arrivarono a farsi sentire fino dal morente, Fra il
vicecancelliere della Chiesa, lo spagnolo Rodrigo Boreria che
aiutandosi con la suggestione di maniere e suasive chiedeva che il
papa consegnasse Castel Sant'Angelo al Collegio cardinalizio, e
Giuliano della Rovere entrato a tempo, quasi fosse di scena, a
ricordare secco e preciso come il Borgia fosse la potenza massima del
Collegio e come consegnargli il castello volesse dire consegnargli
Roma e il papato, corsero frasi di contrasto arroventato: parolacce,
anzi. «Si dissero di marrani e di mori bianchi» riferiva Antonello da
Salerno al marchese Gonzaga. Ma vinse il della Rovere e Castel
Sant'Angelo rimase al castellano che avrebbe consegnato la fortezza
solo al nuovo pontefice. Quattro giorni dopo, il 26 luglio 1492, era
aperta la successione al papato. Si sa quanto la situazione d'Italia
fosse allora difficoltosa. Piccoli stati e signorie si dividevano la terra,
tenendosi fra loro in una specie di pace forzosa, rotta e inquinata da
guerriglia d'armi e guerriglia diplomatica.
L'equilibrio di questo stato di cose, dubitoso ma necessario, era
stato tenuto fino allora, navigando d'abilità tra gli scogli delle
contese, da Principi e ministri laici ed ecclesiastici ai quali la
divisione delle forze e dei partiti nella penisola pareva, a ragione,
avesse da condurre a mali passi. Verso gli ultimi anni del
Quattrocento, la minaccia delle invasioni straniere sembrava
premere non solo dall'oriente ma anche, e peggio, dal nord
dell'Europa, dalla Francia. Pacificata ed unita all'interno da Luigi XI
in un regno fortissimo, la Francia non faceva mistero delle sue
pretese sul regno di Napoli che considerava usurpato dagli aragonesi
a casa d'Angiò, come, meno palesemente per il momento,
considerava francese di diritto il ducato di Milano, per eredità di
Valentina Visconti, sposata ad un Orléans. Il nuovo re Carlo VIII,
successore di Luigi XI, cercò dunque di influire sul conclave per aver
favorevole ai suoi desideri di conquista napoletana il papa Borgia e si
appoggiò al più forte nemico di Napoli, lo, zio, tutore e faccendiere
del giovane duca di Milano, Ludovico Sforza detto il Moro. Ricco, e
forte di una presunzione che non un dubbio mai temperava, lo Sforza
non temeva allora nulla e nessuno: la sua mano si faceva sentire in
tutti gli affari di stato della penisola: da ogni parte erano suoi,
relatori, amici, gente di negozi, spie: e in Vaticano s'accampava ai
suoi ordini il fratello Ascanio Maria, cardinale di gagliarde ambizioni
politiche, più intelligente che sottile, liberale, rischioso, un vero
milanese. Con il cardinale Sforza s'erano appunto uniti in un partito
stretto ai danni di Napoli tutti i nemici di re Ferrante d'Aragòna, il
quale si difendeva, alleato con Giuliano della Rovere e con i suoi
seguaci. La fatàle discordia fra Napoli e Milano, che doveva aprire la
via alle invasioni straniere, e che nessuna alleanza matrimoniale,
nessuna opera pacificatrice aveva potuto comporre, stava per
risolversi in una lotta nella quale i contendenti avrebbero rovinato
libertà e indipendenza degli stati italiani. I due partiti, Milano e
Napoli, radunarono dunque il grosso dei cardinali intorno ai loro
capi, Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere. Ascanio - e gli scrutini
del conclave lo hanno dimostrato - non aveva pretesa di essere eletto,
giovane di appena trentasette anni e certo che nessuno avrebbe
tollerato le armi del papato in mano ad una potenza già troppo
cresciuta come quella di Ludovico il Moro. Giuliano della Rovere era
meno giovane, ma la sua ora politica doveva ancora venire, ed egli lo
sapeva: senza contare che fra i cardinali era forse colui che per il suo
carattere aspro e tutto punte riscuoteva il maggior numero di odi e di
inimicizie. Tutti e due si fecero grandi elettori: Giuliano, del
cardinale Giorgio Costa portoghese, vecchio ottantenne, gagliardo,
maestoso e visto volentieri da molti perché la sua grave età faceva
prevedere prossima l'alba di un altro conclave (invece il Costa visse
ancora più di quindici anni); Ascanio, di un napoletano ostile a re
Ferrante, il cardinale Oliviero Carafa, o, se questi gli fosse mancato,
di Rodrigo Borgia vicecancelliere della Chiesa. Rodrigo Borgia era
dunque un nome dato per poco nella borsa delle previsioni, la sua
candidatura essendo citata dagli informatori contemporanei di
scorcio, come se non avesse probabilità di riuscita. Non sappiamo
che cosa egli pensasse di questi pareri nella sua fine testa valenzana,
e se li favorisse per aver mano libera nelle sue manovre. certo,
desideri e ambizioni lo avevano volto, e non solo da allora, al trono
pontificio, se già nel 1484, al tempo del conclave di Innocenzo VIII,
s'era provato con intrighi e promesse ad ottenere la tiara: non c'era
arrivato. Ora, dopo otto anni, più ricco ancora, meglio secondato
dalle circostanze, e rappresentando in mezzo ai partiti estremi un
partito non certamente napoletano, ma nemmeno del tutto milanese,
tornava animoso e silenzioso a tentare la scalata. Ad Ascanio
l'interesse di avere un papa che gli fosse dedito faceva pensare che
nel peggiore dei casi, e visti gli opulenti benefici che gliene sarebbero
venuti, anche la creazione del Borgia sarebbe stata utile ai suoi piani;
e il suo errore, in questo calcolo, non era di ragionamento, ma di
psicologia. Previsto tutto, una sola cosa gli era sfuggita: e cioè che
non ce l'avrebbe mai fatta a reggere al suo volere un uomo dal giuoco
volpino come Rodrigo Borgia. Il 6 agosto 1492 s'iniziò il conclave
dopo un coraggioso discorso di Bernardino Carvajal sui mali che
flagellavano la Chiesa. Si viene al primo scrutinio. Rodrigo Borgia
conta sette voti, nove il Carafa, cinque Giuliano della Rovere, sette il
Costa, sette il Michiel cardinale di Venezia: queste le votazioni più
importanti. E' notevole che Ascanio Sforza non avesse nemmeno un
voto, segno che aveva dato anche ai suoi più fidi un indirizzo preciso.
Votazione nulla; il popolo che era in attesa sulla piazza di San Pietro
torna a casa. Secondo scrutinio: Rodrigo raggiunge gli otto voti, il
Carafa resta a nove, cinque ne ha Giuliano della Rovere, sette il
Michiel. Sono le nove del mattino, nella calma estiva tutto sembra
stagnare. I conclavisti addetti alle particolari persone dei cardinali
votanti si tengono segreti, tuttavia qualche notizia si diffonde, e
trasformandosi dilaga; ad ogni ora partono cavallari e cavalieri a
portare le notizie per tutta Italia.
Carafa? Michiel? Costa? Intanto, sotto l'ordine apparente, gran
fermento è nel conclave: la lotta fra i due partiti è tanto decisa
quanto inutile: l'uno non riesce a sgretolare la compagine dell'altro,
Ascanio non cede, Giuliano sta saldo. E' questo il momento di
Rodrigo Borgia: poche ore, e il mondo sarà suo. Che avvenne quel 10
agosto che fu veramente la gran giornata del vicecancelliere? Come
seppe egli insinuare nell'animo di tutti i cardinali la necessità di
accordarsi sul suo nome? La sera stessa il Borgia può contare su
diciassette voti, raggiunge e passa, cioè, i due terzi necessari per la
maggioranza: la notizia arriva all'orecchio di Giuliano della Rovere:
egli la pesa, vede che non c'è più niente da fare. «Allora,» racconta
l'oratore ferrarese «vedendo non poterla né vincere né impattare», si
acconciò «presto e con grado» alla causa nemica. Capitolò: ed ebbe
per sé un'abbazia, rendite varie, l'importantissima legazione di
Avignone, la fortezza di Ronciglione: questa, sulla strada del nord,
avrebbe fatto riscontro al roveresco castello di Ostia che guardava il
mare. Sorvegliate così le vie d'accesso a Roma, il cardinale di San
Pietro in Vincoli poteva presumere di sorvegliare da vicino i
movimenti del nuovo pontefice.
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