Il segreto della legione occulta- Roberto Genovesi

SINTESI DEL LIBRO:

 Al Khums, Tripolitania, 1932 d.C.
I
«Tutto questo è semplicemente incredibile», commentò l’archeologo Alcide
Saviani soppesando il tassello di mosaico che gli avevano appena consegnato.
Si trovava quasi al centro dell’area di scavo recintata, nel settore sudest delle
rovine della città di Leptis la magnifica, conosciuta anche come la Roma
d’Africa. Alcuni operai aspettavano immobili un suo comando stringendo tra
le mani vanghe e scalpelli. Il programma della giornata prevedeva la
ripulitura per quadranti del lastricato costruito per accedere alla Basilica
giudiziaria. Il complesso monumentale chiuso, immaginato dall’imperatore
Settimio Severo nel 210 d.C., aveva rivelato fin da subito alla squadra di
archeologi italiani, incaricata degli scavi, una planimetria anomala rispetto ai
canoni ufficiali dell’epoca. Per questo Saviani aveva deciso di estendere le
ricerche: per capire se il perimetro esterno alla basilica potesse rivelare
qualcosa sulle soluzioni progettuali tanto insolite adottate dagli architetti
dell’impero romano. A metà pomeriggio, quando ancora il sole del
Mediterraneo lambiva le coste sabbiose della Tripolitania, si era imbattuto in
un cedimento non strutturale che aveva rivelato una piccola conca.
«Ce ne sono molti altri», disse uno degli operai in un italiano stentato,
agitando una lampada a petrolio.
Saviani inforcò gli occhiali che gli pendevano dal collo e si mise in
ginocchio accanto alla fossa. «Datemi quella lampada», chiese allungando la
mano libera. Poi si piegò ulteriormente orientando la fonte di luce verso il
basso. L’odore di terra umida gli arrivò subito alle narici. La conca sembrava
profonda non più di un paio di metri. Un’altra mezza dozzina di tasselli, non
più grandi di tre centimetri quadrati e non più spessi di uno, giacevano sparsi
in un angolo lasciato libero dal crollo del lastricato. L’archeologo si sporse
ancora e la fiammella della lampada tremolò prima di stabilizzarsi. «Cos’è
quello?», chiese indicando una superficie scura dalla forma appuntita, che
emergeva dalla terra e si protendeva verticalmente verso l’alto.
Uno degli operai, con l’aiuto dei compagni, scese lentamente nella piccola
voragine. Poi, con fece luce un’altra lampada. «Sembrerebbe qualcosa di
solido e piuttosto spesso».
«Batti con questo». Saviani gli consegno un martelletto che portava sempre
in tasca.
L’operaio obbedì e colpì più volte ma con estrema delicatezza.
«Un po’ più forte, per favore», insistette Saviani. Il rumore che ricevette in
risposta lo sobbalzare. «Risali», disse tendendo la mano all’operaio,
«potrebbe cedere ancora».
Quando l’uomo fu di nuovo in superficie, Saviani abbandonò la lampada a
terra e cercò avidamente una boccata d’aria. Spesso l’agitazione rendeva il
suo respiro accelerato, ricordandogli che l’asma e l’archeologia non andavano
molto d’accordo. Poi diresse lo sguardo fino al Foro sul quale svettava il
tempio della famiglia imperiale. Un sole dai contorni sfocati e violacei faceva
capolino attraverso l’arco che annunciava l’ultimo ritrovamento dalla équipe
italiana.
«Dov’è Dryantilla?», domandò senza staccare lo sguardo dalla porta
monumentale.
«Vostra figlia?», domandò un operaio. «Credo sia alle terme».
«Sì, l’abbiamo vista che discuteva con alcuni uomini», aggiunse un altro
operaio, «tra cui il rappresentante della Sovrintendenza».
Saviani distolse l’attenzione dal tramonto. «Come? La Sovrintendenza?
Allora è arrivata la risposta alla mia domanda di proroga!». Mise
frettolosamente il tassello di mosaico in tasca e si avviò verso il trenino della
ferrovia interna che sonnecchiava poco fuori dal perimetro degli scavi. Saltò
su uno dei vagoncini e aspettò che l’autiere avviasse la locomotiva. Si mise
comodo poi tirò fuori il pezzetto di mosaico per esaminarlo con calma. Il
trenino tossì un paio di volte prima di prendere velocità. Con un
singhiozzante clangore di ferraglia si perse tra le rovine.
II
La strada ferrata costruita a scacchiera per agevolare gli spostamenti delle
squadre di lavoro seguiva accuratamente la pianta di progettazione utilizzata
ai tempi di Augusto e dei suoi successori. Il convoglio nel quale Alcide
Saviani si era seduto per raggiungere sua figlia era verniciato di nero e, come
tutti gli altri, recava ai lati lo stemma reale e il fascio littorio simbolo di quel
regime che aveva fatto degli scavi di Leptis Magna uno dei fiori all’occhiello
delle politiche del Min.Cul.Pop.
Il vagone sobbalzò sulle rotaie costeggiando l’arteria fiancheggiata da resti
di colonne che Settimio Severo aveva fatto costruire secondo lo stile tipico
delle città romane del Medio Oriente. L’archeologo vide sfilare alla sua
destra l’imponente struttura del Foro, e, dopo una deviazione sulla sinistra, si
ritrovò ad ammirare i resti delle terme. Il convoglio si arrestò con una serie di
brevi scatti. L’operaio che lo aveva guidato restò a cavalcioni della
locomotiva con la mano sul freno.
«Non te ne andare», gli disse Saviani scendendo. Aggirò il muro di cinta
che nascondeva le terme e vide sua figlia, di spalle, che conversava con tre
individui. Due erano in borghese mentre il terzo indossava una divisa estiva
color avorio. Dryantilla si accorse del suo arrivo dallo scricchiolio delle suole
degli stivali ancora pieni di sabbia.
«Papà!», esclamò abbracciandolo. «Questi signori sono venuti per parlare
con te». Dalla voce si avvertiva che cercava di dissimulare un certo
imbarazzo. Era piuttosto alta e magra, e i lineamenti ricordavano vagamente
quelli del padre ad eccezione degli occhi, di un azzurro marino, che invece
rappresentavano l’eredità più appariscente del sangue normanno della madre.
I visitatori l’avevano sorpresa in abiti da lavoro: pantaloni, camicia di canapa
e stivali grigi di stoffa rinforzata. L’unico vezzo a cui non rinunciava mai era
quello di tenere sciolti i capelli, neri e fluenti, che le ricadevano sulle spalle.
Saviani scrutò i tre interlocutori con diffidenza.

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