Le aquile di Sharpe Le avventure di Richard Sharpe – Bernard Cornwell

SINTESI DEL LIBRO:
I cannoni si udirono ben prima che fosse possibile vederli, inducendo i
bambini, aggrappati alle sottane materne, a chiedersi quali mostri spaventosi
potessero produrre un fragore di quel genere. Lo scalpitare degli zoccoli degli
imponenti cavalli da tiro si mescolava allo sferragliare dei finimenti e delle
catene, al rombo sordo delle ruote che giravano vorticose e soprattutto allo
schianto di tonnellate e tonnellate di bronzo, ferro e legno che rimbalzavano
sul selciato sconnesso della città. E infine apparvero: cannoni, avantreni,
cavalli e staffette, accompagnati dagli artiglieri, più temibili a vedersi delle
canne tozze e annerite che parlavano dei combattimenti sostenuti su al Nord,
dove l'artiglieria aveva trainato quelle armi imponenti attraverso fiumi in
piena e pendici montuose fradice di pioggia per tempestare di colpi il nemico,
costringendolo all'oblio e alla sconfitta. E ora intendevano ripetere l'impresa.
Le madri prendevano in braccio i figli più piccoli per indicare loro i cannoni,
assicurando fiere che Bernard Cornwell
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gli inglesi avrebbero fatto rimpiangere a Napoleone di non essere rimasto in
Corsica ad allevare porci, l'unica attività cui si sarebbe potuto dedicare,
ormai.
E la cavalleria, poi! I civili portoghesi applaudivano le schiere di splendide
uniformi lanciate al trotto, con le sciabole ricurve e scintillanti sguainate in
bella mostra per le strade e le piazze di Abrantes. La nube di polvere fine
sollevata dagli zoccoli dei cavalli era un prezzo ben modesto da pagare per
poter ammirare gli splendidi reggimenti che, secondo gli abitanti della città,
avrebbero respinto i francesi oltre i Pirenei, fino a ricacciarli nelle fogne di
Parigi. Chi poteva resistere a un esercito come quello? Da nord e da sud, oltre
che dai porti della costa occidentale, i soldati affluivano per marciare insieme
verso oriente, lungo la strada che portava verso la frontiera spagnola e il
nemico. Il Portogallo sarebbe stato libero e l'orgoglio della Spagna lavato
dall'onta dell'invasione; la Francia sarebbe stata umiliata e quei soldati inglesi
sarebbero tornati alle osterie e alle locande del loro Paese, lasciando in pace
Abrantes e Lisbona, Coimbra e Oporto. I soldati, per la verità, non erano
altrettanto fiduciosi. Certo, avevano sconfitto l'esercito di Soult al Nord ma,
mentre marciavano con il sole alle spalle, preceduti da ombre che si
accorciavano sempre più, si chiedevano che cosa li attendesse oltre Castelo
Branco, la successiva città del loro itinerario, l'ultima prima del confine. Ben
presto si sarebbero ritrovati di fronte ai veterani in giubba azzurra di Jena e
Austerlitz, ai dominatori dei campi di battaglia di tutta Europa, ai reggimenti
francesi che avevano fatto polpette dei migliori eserciti del mondo. I civili
erano impressionati, se non altro dalla cavalleria e dall'artiglieria, ma
all'occhio di un esperto le truppe che si stavano concentrando intorno ad
Abrantes sarebbero apparse penosamente insufficienti di numero, mentre le
armate francesi ammassate a est erano tanto imponenti da destare terrore.
L'esercito inglese che intimoriva i bambini di Abrantes non avrebbe fatto il
minimo effetto ai marescialli francesi.
Il tenente Richard Sharpe, acquartierato alla periferia della città in attesa di
ordini, osservò gli uomini della cavalleria rinfoderare le sciabole appena
superati gli ultimi spettatori, poi tornò a occuparsi della benda sulla ferita alla
coscia.
Mentre l'ultimo lembo della garza si staccava a fatica dalla cicatrice ancora
fresca, alcuni vermi caddero a terra, e il sergente Harper s'inginocchiò per
raccoglierli prima ancora di ispezionare la ferita.
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«Si è cicatrizzata, signore. Magnifico.»
Sharpe rispose con un grugnito di approvazione. Il taglio inferto dalla lama di
una sciabola si era trasformato in nove pollici di tessuto cicatriziale
raggrinzito ma pulito e roseo rispetto alla pelle più scura tutt'intorno. Staccò
un ultimo verme bello grasso dalla ferita per restituirlo a Harper, che lo ripose
con cura.
«Eccoti al sicuro, bello mio, e ben nutrito.» Il sergente Harper chiuse la
scatola di latta nella quale conservava i vermi prima di guardare Sharpe.
«Siete stato fortunato, signore.»
Era vero, ammise Sharpe fra sé. L'ussaro francese stava per ucciderlo, con un
massiccio fendente della sua spada, quando il proiettile del fucile di Harper lo
aveva sbalzato di sella e la smorfia di odio dell'uomo, incorniciata da quelle
assurde treccioline, si era tramutata in un ghigno di agonia. Sharpe si era
divincolato con una torsione e la sciabola che mirava al collo lo aveva ferito
invece alla coscia, lasciando un'ennesima cicatrice a ricordo dei suoi sedici
anni di servizio nell'esercito inglese. Non era un taglio profondo, ma Sharpe
aveva visto troppi uomini morire a causa di ferite anche più lievi per colpa
dell'avvelenamento del sangue, che rendeva le carni livide e maleodoranti; a
quel punto, i medici non potevano fare nulla per impedire che il ferito
sudasse e morisse di cancrena in quei carnai che venivano definiti ospedali da
campo. Una manciata di vermi faceva ben più di qualsiasi medico
dell'esercito, divorando i tessuti malati e lasciando che le carni si
rimarginassero in modo naturale. Sharpe si alzò in piedi, mettendo alla prova
la gamba. «Grazie, sergente. È come nuova.»
«Il piacere è tutto mio, signore.»
Sharpe indossò nuovamente i calzoni della cavalleria, che portava al posto di
quelli verdi regolamentari del Novantacinquesimo Fucilieri. Era fierissimo
dei calzoni verdi con i rinforzi di pelle nera che aveva sfilato al cadavere di
un colonnello dei Cacciatori della guardia imperiale di Napoleone, l'inverno
precedente. Le cuciture esterne erano decorate con una fascia tempestata di
venti bottoni d'argento per parte, e quel metallo prezioso era servito a pagare
da mangiare e da bere alla sua piccola banda di Fucilieri, mentre fuggivano a
sud attraverso le nevi della Galizia. Il colonnello era stato una preda proficua:
nell'uno e nell'altro esercito non erano molti gli uomini alti come Sharpe,
invece quella divisa gli stava alla perfezione, e gli stivali di pelle nera, ricca e
morbida, sembravano fatti su misura per il tenente inglese. Patrick Harper
non era stato altrettanto Bernard Cornwell
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favorito dalla sorte. Il sergente, un autentico gigante irlandese, sovrastava
Sharpe di quattro pollici buoni, quindi non aveva ancora trovato dei calzoni
utili per rimpiazzare il paio stinto, lacero e rattoppato che indossava, più
adatto per vestire uno spaventapasseri in un campo di rape.
Del resto l'intera compagnia era in quelle condizioni, rifletté Sharpe, con le
uniformi logore, gli stivali tenuti letteralmente insieme da strisce di cuoio; e,
finché il battaglione al quale appartenevano fosse rimasto in Inghilterra, il
piccolo reparto di Sharpe non avrebbe trovato nessun ufficiale addetto
all'intendenza che fosse disposto a complicare i suoi registri per rifornirli di
pantaloni o stivali nuovi.
Il sergente Harper porse a Sharpe la giubba dell'uniforme. «Desiderate
sottoporla a un bagno ungherese, signore?»
Sharpe scosse la testa. «È sopportabile.» Nella giubba non c'erano troppi
pidocchi, non abbastanza, almeno, per giustificare la procedura di esporla al
fumo di un fuoco d'erba, con il risultato di puzzare come una carbonaia per
due giorni. La giubba era lisa come quelle del resto della compagnia, ma
nulla al mondo avrebbe potuto persuadere Sharpe a gettarla via, neanche il
caduto più elegante del Portogallo o della Spagna. Era verde, la giubba verde
cupo del Novantacinquesimo Fucilieri, ed era il marchio di riconoscimento di
un reggimento d'élite. La giubba della fanteria inglese era rossa, ma i fanti
scelti vestivano di verde e, dopo tre anni al Novantacinquesimo, Sharpe era
ancora orgoglioso della distinzione che quella giubba verde gli conferiva. Del
resto non possedeva altro che la divisa e ciò che poteva portare in spalla.
Richard Sharpe non conosceva altra casa che il reggimento, nessun'altra
famiglia all'infuori della sua compagnia e nessun patrimonio oltre a quello
riposto nello zaino e nelle tasche della giberna. Non conosceva nessun altro
tipo di vita, ed era così che si aspettava di morire. Si annodò alla vita la
fusciacca rossa da ufficiale, coprendola con la cintura di cuoio nero chiusa
dalla fibbia flessibile d'argento. Dopo un anno di guerra nella penisola,
soltanto la fascia e la spada indicavano ancora il suo rango di ufficiale, e
anche la seconda, come i pantaloni, era fuori ordinanza. Gli ufficiali dei
Fucilieri, come tutti quelli della fanteria leggera, avrebbero dovuto portare la
sciabola ricurva della cavalleria, ma Sharpe detestava quell'arma e al suo
posto usava la lunga spada diritta della cavalleria pesante, un'arma brutale,
mal bilanciata e rozza; eppure lui preferiva la sensazione procurata da quella
lama crudele, capace di abbattere le spade sottili degli ufficiali Bernard
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francesi e di bloccare con efficacia un moschetto o una baionetta.
La spada non era la sua unica arma. Richard Sharpe aveva prestato servizio
per dieci anni fra le giubbe rosse, prima come soldato semplice, poi come
sergente, imbracciando un moschetto a canna liscia nelle pianure dell'India.
Si era schierato a fianco dei commilitoni armato di un pesante fucile a pietra
focaia, si era lanciato nelle brecce appena aperte con la baionetta inastata, e
affrontava ancora i combattimenti munito di un'arma da fuoco. Il fucile Baker
era il marchio di riconoscimento che lo distingueva dagli altri ufficiali, e gli
alfieri sedicenni freschi di nomina, con la divisa ancora nuova e impeccabile,
sbirciavano con diffidenza quel tenente alto con i capelli neri, il fucile in
spalla e la cicatrice sul viso che, a parte le occasioni in cui sorrideva, gli
conferiva un'espressione di truce divertimento. Alcuni si chiedevano se
fossero vere le storie che si raccontavano su di lui a Seringapatam e Assaye, a
Vimeiro e Lugo, ma un solo sguardo di quegli occhi in apparenza beffardi o
la vista dell'impugnatura logora delle armi bastavano a stroncare sul nascere
quelle insinuazioni. Erano ben pochi gli ufficiali di recente nomina che si
soffermavano a riflettere su quello che il fucile rappresentava in realtà, sui
combattimenti accaniti ai quali Sharpe aveva partecipato, sulla sua ascesa dai
ranghi dei soldati semplici alla mensa degli ufficiali.
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