Le antiche vie: Un elogio del camminare –  Robert MacFarlane

SINTESI DEL LIBRO:

«Due giorni al solstizio d’inverno, all’annuale cambio di marea. Una
giornata gelida, che la città e le campagne circostanti avevano
trascorso come bloccate, sospese. Cinque gradi sotto zero, e la terra
rintanata. Le nubi erano cariche di neve che non cadeva. Nei
quartieri periferici le scuole erano chiuse, la gente costretta in casa, i
marciapiedi scivoli e le strade trappole di invisibile ghiaccio nero. Il
sole tracciava un arco basso nel cielo. Poi, quasi all’imbrunire, arrivò
la neve, che scese per cinque ore filate, depositandosi al suolo al
ritmo costante di un paio di centimetri all’ora.
Ero alla scrivania quella sera, impegnato a lavorare ma distratto
dal tempo. Continuavo a interrompermi, ad alzarmi, a guardare dalla
finestra. La neve planava nel cono di luce arancione di un lampione,
i fiocchi gonfi che parevano scintille arroventate.
Smise verso le otto. Alle nove uscii a fare una passeggiata, con
una fiaschetta di whisky per tenermi caldo. Camminai una mezz’ora
per stradine buie coperte di neve intatta. Le case cominciarono a
diradarsi. Alle finestre, qualche tenda aperta: serate domestiche in
corso, barbugliamenti e sfarfallii televisivi. Freddo metallico su per il
naso. Uno stuolo di stelle, e una luna che inargentava ogni cosa.
Al confine sud del quartiere, l’ultimo palo della luce sorveglia una
siepe di biancospino, tra i cui arbusti si apre un varco che conduce a
un umile sentiero tra i campi.
Imboccai il sentiero in direzione est-sud-est, verso la lunga cima
gessosa di una collina, stagliata nel buio come un dorso di balena. A
nord vedevo il bagliore della città, e sulle torri e sulle gru le rosse
intermittenze dei segnalatori di ostacoli al volo. La neve asciutta
scricchiolava sotto i piedi. Trotterellando, una volpe attraversò il
campo a ovest. Il chiarore lunare era cosí intenso che ogni cosa
gettava un’ombra nitida: nero su bianco, con la precisione di una
xilografia. Le bacchette di sanguinello zebravano il sentiero
fiancheggiato da graticci di biancospino. Gli alberi erano merlettati di
neve, almeno un paio di centimetri su ogni ramo e rametto. La neve
espandeva le cose, il chiaro di luna le duplicava.
Probabilmente è il sentiero che nella vita ho percorso piú volte. È
una via recente, non piú di mezzo secolo, credo. La siepe sul lato
est, alta circa due metri e mezzo, è quasi tutta di biancospino; quella
a ovest è un miscuglio piú giovane di prugnoli, biancospini, noccioli e
sanguinelli. Il tracciato non ha nulla di straordinario, ma mi piace il
senso di segretezza che emana, protetto com’è su entrambi i lati
dalle siepi, e discretamente disposto tra il campo e la strada.
D’estate ho visto nugoli di cardellini sollevarsi dai capolini dei cardi,
librarsi in spire e riacquattarsi ogni volta piú indietro man mano che
mi avvicinavo.
Quella sera il sentiero era un grigio vialetto innevato, che risalii
fino al faggeto che corona il dorso di balena della collina passando
dall’argilla di masso al gesso vero e proprio. Giunto al limite inferiore
del faggeto mi infilai in un varco coperto d’edera ed emersi nel
campo di sedici ettari che si stendeva piú in là.
A un primo sguardo sembrava intatto, una banchisa polare.
Attraversandola, cominciai a scorgere i segni. La neve era tutta
piena di impronte di uccelli e animali: una sorta di archivio
temporaneo delle centinaia di viaggi effettuati dalla fine della
nevicata. Ordinate piste di cervi, impronte di pernici a indicare la
strada come punte di freccia, e orme di conigli. File arcuate di tracce
attraversavano il campo scomparendo in lontananza nell’ombra o
dentro la siepe. I raggi di luna cadevano obliqui, rendendo le tracce
vicine piú buie e piú fonde, come calamai incassati in un banco
bianco. A tutte quelle tracce aggiunsi le mie.
La neve era un romanzo irresistibile. Ogni pista sembrava la
trama di una storia da ripercorrere al contrario, risalendo il corso del
tempo; una sequenza di allusioni a eventi avvenuti e conclusi. Trovai
una fila di orme di volpe, spazzolate di qua e di là dalla coda, come
se l’animale avesse voluto cancellare le prove del suo passaggio.
Scoprii quelle che pensai fossero tracce di un fagiano alzatosi in
volo: impronte ben calcate di zampa nel punto dove si era dato la
spinta, successivamente seguite a destra e a sinistra dai segni
equidistanti delle penne, via via piú leggeri fino a svanire del tutto.
Decisi di seguire le tracce di un cervo, che tagliando un angolo
del campo conducevano a un pertugio in una siepe di prugnoli.
Intrufolandomi tra i rami passai dall’altra parte e uscii in un
paesaggio surreale.
Verso nord il terreno digradava in liscia pendenza per circa
trecento metri. Sopra di me, verso sud, grosse gobbe bianche
circondavano quello che sembrava un limpido laghetto con al centro
l’asta di una bandiera. C’erano macchie di faggi e di pini, improvvise
discese e rientranze, colline arrotondate e valli ammantate di neve.
Raggiunsi il laghetto, ne calcai la superficie e mi sedetti di fianco
all’asta a bere un sorso di whisky. Sgombro di golfisti a causa del
buio, trasfigurato dalla neve e dal chiaro di luna, il piú esclusivo
campo da golf della zona si era trasformato in un insolito distretto di
aperta campagna. Bisbigliando ipocrite giustificazioni ai membri del
club, uscii dal primo green e mi avviai a esplorare il resto del campo.
Mantenendomi nel mezzo dei passaggi, avanzai dritto di fairway in
fairway, accompagnato dalla mia ombra fedele. Sopra i banchi di
sabbia la neve farinosa mi arrivava al polpaccio. Giunto al quinto
green, mi sdraiai sulla schiena a guardare la lenta ruota celeste.
Per la maggior parte, le tracce lasciate sul campo da golf erano di
conigli. Se avete già visto delle impronte di coniglio nella neve,
avrete forse notato che assomigliano alla maschera del fantasma di
Halloween, o al volto dell’urlo di Munch: le due zampe posteriori,
poste lateralmente, riproducono le fessure allungate degli occhi,
mentre quelle anteriori, impresse al centro appaiate, piú in basso e
un po’ sghembe, corrispondono al naso e all’ovale della bocca.
Migliaia di questi volti mi sbirciavano da sotto la neve.
Ogni tanto, dalla strada a ovest, i fari delle auto di passaggio
proiettavano lunghi tunnel di luce gialla. Sul dodicesimo fairway
qualcosa di grosso e scuro fuggí svelto dagli alberi per rifugiarsi
nella boscaglia: un cervo o una volpe, probabilmente, ma sembrava
un lupo, che mi fece formicolare di sciocco timore il dorso delle mani.
Dopo l’ultima buca seguii la pista dei conigli attraverso un’altra
siepe di prugnolo, fino alla strada romana che si snoda per chilometri
e chilometri di basse colline gessose. Coperto di neve l’antico
tracciato era uno splendore – una linea bianca che trascinava lo
sguardo in entrambe le direzioni – e lo imboccai verso sud-est. Tra le
siepi ai lati della strada si intravedevano vasti campi, che
rimandavano al cielo pallidi fasci di luce lunare. Il movimento di un
uccello su un alto frassino fece cadere della neve sul sentiero
davanti a me, sfarinata come puntini su una vecchia pellicola.
La distanza si allungò stranamente, o forse fu il tempo a
ispessirsi, perché mi rimase l’impressione di aver camminato per
molti chilometri o per molte ore prima di arrivare al punto in cui la
strada romana superava la fine di un largo viale di faggi che ben
conoscevo. Risalendo il viale, passai accanto ai terrapieni di un
grosso forte circolare dell’età del Ferro, superai una strada e mi
inoltrai in un vasto prato che sale sulla cima di una duna gessosa, a
poco piú di settantacinque metri sul livello del mare. Silhouette di
alberi a carboncino, nella bocca un gusto di peltro.
In cima all’altura, sotto la luna, vicino a un tumulo funerario
dell’età del Bronzo, mi sedetti nella neve per un’altra sorsata di
whisky. Mi voltai a ripercorrere con lo sguardo la pista delle mie
orme che saliva alla collina. Verso nord-ovest c’erano decine di altre
piste, che ridiscendendo si disperdevano in lontananza. Ne scelsi
una e partii su quelle tracce, per vedere dove mi avrebbero portato».

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