L’albero della vergogna – Ramiro Pinilla

SINTESI DEL LIBRO:

Fu la decisione del municipio di espropriare quel minuscolo
appezzamento di terreno a riportare all’ordine del giorno il
pover’uomo della baracca. Non ci eravamo dimenticati di lui, era
impossibile avendolo così vicino, nella piana di Fadura. Anche se
non era tanto questa vicinanza a essere determinante, quanto
piuttosto le curiose circostanze in cui si era ritrovato fin dall’inizio,
nientemeno che dai tempi della guerra, Dio mio, trent’anni fa.
Tutti ci ricordavamo della sua, diciamo, irruzione fra noi nel
giugno del ’37. Avvenne senza una ragione evidente, addirittura
senza una logica. Chi, altrimenti, si insedia in uno spiazzo privo di
particolari attrattive per sedersi su una pietra o sul sacro suolo,
senza nemmeno alzare la testa, con gli occhi fissi sulle erbacce? Più
tardi apparve la sedia. Nelle giornate piovose o fredde si proteggeva
con un ombrello, o con un pastrano e una boina rossa. Più tardi si
costruì una misera casupola di tavole di legno con il tetto di lamiera.
Se ne andava – non sappiamo dove – al calare del buio per tornare
il mattino successivo; questo succedeva nei primi giorni, perché
presto si stabilì lì definitivamente. Quando il clima era secco, la sera
innaffiava qualcosa lì vicino; non sapevamo cosa fosse, e a nessuno
venne in mente di fare un giro con una lanterna per indagare, nelle
ore in cui era assente: in quegli anni non era proprio il caso di
soddisfare sciocche curiosità. La fissazione così ossessiva per quel
posto rivelava una mente disturbata, e non ci importava un bel
niente che innaffiasse un cardo o una margherita. Mesi dopo,
quando si scoprì la talea di fico, capimmo di che cosa si era preso
cura. «Per non annoiarsi», commentò qualcuno. «Ma allora perché
se ne sta lì ad annoiarsi?».
L’ho chiamato pover’uomo perché oggi conosciamo lo sventurato
destino che lo attendeva, anche se, nei primi tempi, indossava la
spaventosa tenuta con cui si mascheravano quelli della Falange,
camicia blu e pantaloni e giberna neri; vale a dire, era uno di loro.
Vivevamo tempi duri. Anche se la guerra era finita per i baschi,
ormai “liberati” da Franco, l’anticipo del dopoguerra ci portò altro
orrore, per quanto una cosa del genere sembrasse impossibile. Il
grosso dell’esercito basco, sessanta battaglioni nazionalisti, si era
arreso a Santoña, in quello che il nostro piccolo Asier Altube1
avrebbe definito un tradimento della Repubblica, e Manuel Goenaga,
il maestro del quartiere di Algorta, qualcosa di simile alla
preservazione etnica.
Soffrivamo un vuoto di uomini: caduti in combattimento, o
condannati a morte o a trent’anni di carcere da tribunali militari che
emettevano sentenze in sette minuti. Per non parlare degli omicidi
commessi al di fuori di questa legalità da bande di sicari in uniforme,
durante “passeggiate” dalle quali non si tornava mai. Prigionieri dai
capelli precocemente bianchi, paralizzati dal toc-toc dello scalpiccio
notturno del carceriere, che potevano anche svenire per l’esplosione
del loro nome urlato sulla porta della cella sovraffollata. Madri,
nonne, figlie e sorelle che portavano pacchetti di cibo ai detenuti, i
quali, il più delle volte, non facevano in tempo a consumarlo. E la
moltitudine di uomini che ogni notte – salvo le domeniche e le feste
comandate – veniva tirata fuori dalle prigioni e condotta sui camion
al cimitero più vicino, dove picchetti dell’esercito li fucilavano contro
un muro, almeno alle famiglie era consentito di recuperare i corpi per
seppellirli; perché le “passeggiate” fornivano cadaveri illegali di cui
non si sapeva più nulla.
A nessuno poteva venire in mente l’ardire di avvicinarsi al
pover’uomo che si annoiava per domandargli: «Si può sapere che ci
fa lei qui?». Anche se avrebbe significato forse un momentaneo
rinvio dell’orrore, questo gesto avrebbe steso un inutile velo sulla
guerra, perché o io non capisco niente di guerre, oppure il suo
comportamento non aveva niente a che fare con nessuna guerra.
Trent’anni di silenzio, senza mai domandargli cosa diavolo ci facesse
lì. «Gli piacciono i fichi», diceva la gente all’inizio, quando qualche
curioso andò a ficcare il naso e scoprì dapprima la talea e poi il
germoglio del fico che il pover’uomo innaffiava la sera. Era
impossibile non pensare a lui, perlomeno a settembre e ottobre,
stagione dei fichi, quando quel giovanissimo albero di quattro o
cinque anni cominciò a dare i primi frutti, e i bambini si avvicinavano
per rubarli e lui li cacciava a sassate o minacciandoli con un
bastone. Credo che fu allora che si cominciò a chiamarlo
«Ficodindia».
La massima attenzione su di lui, però, si concentrò quando quella
zona di Fadura divenne meta di pellegrinaggio, uno di quei luoghi in
cui appare la Madonna o un’altra figura celeste e dove accorrono
devoti e malati a pregare o a supplicare miracoli. La cosa
stupefacente fu che, in questo caso, la figura celestiale era il
pover’uomo, Ficodindia, vale a dire il falangista.
Sembra che con questo intollerabile scherzo del destino, più di
Ficodindia, abbia avuto a che fare Cipriana, la moglie di Benito
Muro, primo sindaco franchista, nominato al momento dell’ingresso
del nemico in paese, a titolo di ringraziamento per aver cambiato
fazione con le mappe del Cinturone di Ferro2. Cipriana non era
franchista ma, semplicemente, una donna di chiesa e rosari, e fece
di Ficodindia, magari senza che lui se ne rendesse conto, un
“santone”, uno di quegli eremiti che vivono in qualche grotta in
montagna e desiderano soltanto essere lasciati in pace, mentre la
gente si ostina ad andare a trovarli per ricevere conforto.
Nientemeno che in questo fu trasformato Ficodindia! Con il passare
degli anni, dai primi pellegrinaggi di cinque o sei persone si arrivò
alle centinaia, e quel poveraccio era sempre lì, nella misera baracca
che aveva montato, per prendersi cura del suo fico, indifferente – ne
sono sicura – al frastuono e alla devozione di cui era il centro: l’unica
cosa di cui gli importava, a quanto pareva, era il suo fico.
La piana di Fadura era uno degli scenari che sceglievo per le gite
scolastiche del giovedì pomeriggio, forse il più interessante per i
bambini a causa della vita minuta che popolava i suoi stagni: girini,
rane e rospi, lucertole e ramarri, salamandre, bisce e orbettini... che
gli alunni più piccoli etichettavano come “animaletti”.
Le porte della scuola non vennero aperte nell’ottobre del ’36, ma
l’anno seguente, e io dovetti occuparmi anche dei bambini di
Manuel, che era in prigione. Il suo carattere dubbioso aveva ritardato
la sua partecipazione attiva alla guerra, ma alla fine si era arruolato
nel batzoki3, molto tempestivamente, poiché l’offensiva franchista
nel Nord fu lanciata un paio di settimane dopo. Lo nominarono
capitano di compagnia, ma dopo tre giorni i comandanti scoprirono il
loro errore: la gola di Manuel non riuscì a impartire il primo ordine di
far fuoco! Il suo pacifismo gli salvò la vita quando, durante la resa di
Santoña, il suo nome non figurava nelle liste di ufficiali che noi
basczokihi consegnammo ingenuamente alle truppe italiane.
Non dimenticherò mai quella gita del ‘37 alla piana di Fadura,
probabilmente in ottobre, prima che l’inverno facesse irruzione. Non
vi furono molte iscrizioni quell’anno. Dio mio, il primo con Franco!
Tutte le famiglie erano annichilite, avevano fotografie di congiunti
morti incorniciate e appese alle pareti, erano paralizzate dalla paura,
talmente traumatizzate che non si proponevano nemmeno di reagire.
Tre mesi non erano bastati per ritrovare noi stessi. E poi c’era il
viaggio di tanti bambini come rifugiati sul transatlantico Habana, per
metterli in salvo dai bombardamenti e da tutto il resto; alcuni
avrebbero atteso quarant’anni prima di tornare.
In quella gita indimenticabile potei contare su un numero
consistente di alunni grazie alla classe del maestro in prigione. Fra
questi c’era Julio Zalla, figlio del fabbro Antimo. Aveva sette anni e si
rivelò, diciamo, un esperto assaggiatore di fichi; sarebbe stato lui a
informarci, quattro anni dopo, della provenienza del fico del
pover’uomo, e a questa informazione saremmo tornati nel 1966, per
indagare su quanto avrebbero potuto rivelarci le origini dello strano
caso che sembrava legato al fico. Il primo giorno di quell’anno
scolastico mi piacque pensare che avrei offerto ai miei alunni un
breve oblio, che a scuola avrebbero trovato una sorta di mondo
incontaminato in cui rifugiarsi per qualche ora. Accadde l’esatto
contrario: i loro visini sconcertati e trasparenti trasmisero a me la
fede nel futuro che non avevo. Non dirò che la gita fosse
paragonabile a quelle chiassose dell’anteguerra. C’erano le mie
bambine e i bambini di Manuel, che si affrettavano a dire le stesse
cose, sforzandosi per non andare in crisi in mia presenza, e mi
impartivano una lezione, anche se le loro voci erano più basse di
due o tre toni e l’elettricità che percorreva i loro corpi era a bassa
intensità. Ma ciò che rese indimenticabile quella passeggiata fu
vedere Karmele García fermarsi improvvisamente: rimase come
inchiodata al suolo, con le braccine penzoloni e lo sguardo fisso su
una piccola casa contadina isolata, a mezzo chilometro da noi.
Karmele aveva sette anni, come Julio, ed entrambi si erano iscritti
per la prima volta.
«Io vivevo in quella casa», udimmo la sua vocina.
In quell’istante mi ricordai della sua storia e capii l’errore che
avevo commesso accompagnando il gruppo fino a quell’estremità
della piana, sul ciglio della strada... Appena quattro mesi prima,
alcuni falangisti avevano portato via da quella casa il padre e il
fratello di Karmele, e non se n’era più saputo niente! E quel fratello
aveva solo sedici anni! Strinsi a me la bambina, che si appoggiava al
mio fianco, ma lei fece in modo di girare la testa per continuare a
guardare la casa. Il gruppo era ammutolito.
«Quando torneremo nella nostra casa?», piagnucolò.
L’abbracciai ancora più forte e credo di averle fatto male. Signore,
Signore! La sua famiglia, oltre a due membri, aveva perso anche la
casa: se l’era tenuta il delatore. Come potevano succedere cose del
genere? Succedevano e basta. Paesani che denunciavano altri
paesani, spesso mossi da un terrore che li spingeva a offrire una
prova di incrollabile adesione al franchismo; altri, coronando un odio
a volte generazionale, approfittavano dell’occasione che qualcuno
faceva il lavoro sporco per loro; altri ancora perché erano autentici
franchisti; infine, c’era chi ambiva semplicemente a possedere un
bene del defunto. Nel caso di Karmele, il delatore si tradì occupando
la casa il giorno stesso in cui l’«autorità competente» gliela
concesse, quale premio per i servigi prestati. Ebbene, in quel
momento stava passeggiando nella tenuta con le mani nelle tasche
dei pantaloni di velluto a coste. Lo conoscevamo: era Joseba Ermo,
di La Venta, proprietà che gli Ermo amministravano da tempo
immemorabile, vincendo tutte le subaste, al punto che la gente non
sapeva se La Venta appartenesse al municipio o agli Ermo. Era il
loro nido di vespe, e a volte erano presenti quattro generazioni. Ci
eravamo abituati a loro. Davano la caccia ai soldi persino sotto le
pietre; e la cosa sporca era come sollevavano quelle pietre. Erano
davvero ingiustificabili. Joseba Ermo era un degno rappresentante
del clan. Dei suoi imbrogli venivamo a sapere solo quando si
conosceva la vittima. Il suo affare più legale, con cui copriva gli altri,
era il negozio di ferramenta che aveva aperto ad Algorta con i
gemelli Altube, due individui della stessa risma. Eravamo appena
stati informati che aveva truffato gente terrorizzata dai
bombardamenti garantendo loro la salvaguardia dell’abitazione: su
una mappa di Gexto segnava la casa con una croce e mentre
incassava prometteva: «Adesso questo foglio arriva ai miei amici
piloti dell’altro lato. Tranquilli». Ci mancò poco che lo fucilassero
come spia. Era un tipo mingherlino, con la cassa toracica stretta e le
labbra sottili, fredde e bluastre.

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