L’albergo dei poveri – Tahar Ben Jelloun

SINTESI DEL LIBRO:

Questa è la storia di un uomo contrariato. Sembra niente, ma un uomo
contrariato è qualcuno che soffre. Imprevedibile, incontrollabile, capace di
perdere la ragione, può diventare violento o vigliacco o scavare la sua galleria
per scomparire.
Ci sono due tipi di uomo contrariato: quello che ingoia rospi, protesta
rumorosamente e si fa del male (alla testa, alla schiena, alla pancia), incassa e
se la prende con se stesso perché non ha la forza di reagire e di mandare al
diavolo tutto quanto; e poi c'è quello che la sua contrarietà la sbatte in faccia
all'aggressore, se ne sbarazza, la espelle e tuttavia non rimane di umore meno
cattivo, pronto ad affrontare qualsiasi nuova aggressione.
Io sono del genere che incassa e soffre in silenzio. Mi lascio chiamare
Bidoun («Senza», in arabo), in ricordo di un orribile viaggio che ho fatto in
Kuwait nell'autunno del '75. Là ho scoperto, a una quindicina di chilometri
dalla capitale, un accampamento dove il governo kuwaitiano radunava gli
immigrati irregolari e di nazionalità non accertata, uomini che distruggevano
i loro documenti di identità per non farsi espellere. Li chiamavano «bidoun»,
i «senza», esseri senza terra, ombre di uomini, che lavoravano di giorno e
scomparivano di notte nelle baracche o sotto tende consunte.
Mi capita di reclamare e di lamentarmi invece di agire.
Cos'è che mi irrita e mi contraria? Il vento dell'est, quello che solleva la
sabbia e la getta negli occhi, il caffelatte tiepido e servito in una tazza
sbreccata, una parola non mantenuta, un ritardo eccessivo, un rinvio non
giustificato, la malafede, la stupidaggine solenne o sfrontata, il tradimento
sotto qualsiasi forma, nell'amicizia come nell'amore, il polistirolo, il nylon
sulla pelle sudata, il rumore del martello pneumatico, la meschinità, il
sospetto, le certezze trionfali, la crudeltà gratuita, la gelosia, la formica,
l'insonnia irriducibile, l'indifferenza alla poesia, l'odio per la musica, la
cicoria, le feste natalizie, il sudore mescolato a un cattivo profumo, le donne
troppo pelose, quelle con il seno floscio e appiattito (anche se so bene che
non è colpa loro), il femminismo militante, il maschilismo in tutte le sue
forme, lo sguardo torvo, il cielo plumbeo, e ancora e sempre la malafede, le
lettere dell'ufficiale giudiziario, le strette di mano flaccide, le mani sudaticce,
il calcolo e un certo numero di cose della vita intima che preferisco tacere e
tenere per le mie geremiadi personali...
Potrei dire: è la storia di un artista colpito dal fulmine della passione,
partito sulle ali di un sogno senza più ritornare, almeno non in una condizione
umanamente accettabile.
Oppure: è la storia di un uomo triste, così triste che è diventato depositario
titolare della grande tristezza di Marrakech. È una tristezza che ha preso i
colori della città imperiale, rosso ocra, rosso sangue, rosso mattone, rosso
crepuscolo, rosso papavero, rosso cremisi, rosso comunque rosso come una
veglia di fine Ramadan, rosso come una ferita aperta, come una notte opaca,
come un fiume dipinto dal sole al tramonto, come il silenzio di coloro che ci
hanno lasciato e continuano a parlarci lanciandoci segnali di luce rossa, come
il fuoco che si spegne quando non ha più niente da bruciare, rosso come le
parole che si consumano sulla soglia di una vecchia porta, parole giuste e
spietate che fanno male tanto di giorno quanto di notte, colore fuso
nell'isolamento del silenzio che sprofonda nella collera muta delle lacrime,
nell'usura della materia, colore della pietra dove il tempo si è perduto, traccia
del ferro che ha sopportato dure prove sopra le mura che vegliano sulla città
senza riuscire a impedire alla tristezza di avanzare e di rodere il corpo e lo
spirito dell'uomo triste, uomo dai segreti confusi, dallo sguardo spezzato e
che aspetta che in lui il fuoco si calmi, come se il fervore dell'attesa stesse per
svuotare lo specchio della luce che vi scintilla in una danza leggera.
Mi domando come un uomo triste e contrariato come me abbia potuto
vivere una grande passione, una valanga di sentimenti contraddittori, tra
magia e disperazione, in un eccesso di luce e di follia. La passione è un
uragano, qualcosa di sublime che precipita il disastro. È una storia che finisce
sempre male. Me n'ero fatto una vaga idea quando mi ero preso cura di un
amico che, colpito dal fulmine della passione, rischiò di morire.
Irritabile, in preda all'angoscia della cinquantina suonata da un po', avrei
potuto continuare a tirare avanti la mia piccola vita più o meno tranquilla, a
insegnare alla facoltà di Lettere seguitando a scrivere piccoli libri senza
pretese, a dormire accanto a mia cugina, mia moglie, anche lei insegnante, di
storia e geografia al liceo Mohammed V di Marrakech, noi due mettiamo
insieme un mensile onorevole, niente di più, e la cosa ci autorizza ad
accumulare sogni in silenzio, sogni di piccolo-borghesi prudenti e giudiziosi,
persone tranquille che fanno attenzione alla spesa, domandano il prezzo delle
cose prima di decidere se comprarle o meno, facendo i loro calcoli per sapere
se accettare un credito a quindici piuttosto che a venti rate, persone chiuse nei
loro vestiti come nella loro testa, attente alla morale comune come alle
convenzioni sociali, e che si sforzano di restare nella norma, cioè di far parte
di quell'orribile maggioranza rassegnata che quando non ci sono troppi rischi
si può permettere di criticare il governo, di dire che la corruzione ha fatto
marcire il paese e gli uomini, che il re è un uomo intelligente, che ha
unificato il paese, ma quelli che gli stanno intorno non vanno bene, ah! quella
maggioranza che farfuglia un malcontento vano e sterile! che dice che i
marocchini sono brave persone, ma purtroppo sono presi alla gola dalle
difficoltà della vita quotidiana, dalla paura di trovarsi un giorno nel bisogno,
o di essere denunciati dal portinaio del condominio che arrotonda i suoi
mensili dando tutte le informazioni possibili alla polizia, ah! il terrore di
finire tra le grinfie di quella polizia, brutale con i poveri, conciliante con i
potenti, quell'ossessione di mantenere l'ordine. Ah! questo Marocco! come
diceva Mohammed Khai'r-Eddine, questo Marocco che amiamo e che ci fa
male, questo Marocco che manca di audacia e di follia, dove vivere
arrangiandosi è tradizione, salvo il fatto che io non ne potevo più di
compromessi e di quei piccoli equilibri realizzati in un tepore che mi
provocava l'emicrania e l'insonnia. Ah! questo Marocco! Avrei potuto
continuare a dormire vicino alla mia brava sposa dalla pelle troppo bianca e
dal corpo affaticato da due parti e un aborto, e aspettare il momento del
pensionamento dalla Pubblica Istruzione per consacrarmi interamente alla
scrittura e magari intraprendere la stesura del libro che sogno di scrivere da
quando ero ragazzo. Mi dico (potete ridere di me, ma quando uno sogna tanto
vale farlo alla grande!): sarà il mio Ulisse, il mio piccolo Ulisse, meno corposo
ma complicato e strano quanto quello di James Joyce, un piccolo Ulisse
marocchino, una cosa nuova e davvero niente male, una giornata di Larbi
Bennya, il Leopold Bloom marocchino, nel cuore di Fès, nella medina, città
labirintica dell'undicesimo secolo dove gli avvenimenti si succedono in un
movimento senza fine nell'intento di elaborare un'epopea del Maghreb,
occidente dell'Oriente, nulla di meno! Per fortuna nessuno mi sente, tutto ciò
resta fra noi, un progetto grande come tutte le mie insonnie messe una dietro
l'altra, cosa che fa qualche chilometro di stanchezza e di ostinazione, di fatica
e di nulla, sì, il nulla non deve essere trascurato, pesa con il suo peso
invisibile, con la sua presunta leggerezza, ma in effetti è il nulla che mina
l'esistenza di molte persone. Infine, la mia ambizione è immensa, ma per
scrivere un libro così grande ci vuole uno come Jean Genet, o che ci si metta
di mezzo una grande disgrazia, ma in verità, anche se apparentemente sono
disposto ad accogliere grandi disgrazie, faccio di tutto per evitarle, è normale,
è per il mio istinto di sopravvivenza, soffrire va bene, però non troppo, in
realtà sono come tutti gli altri, ed è questo che mi infastidisce, ma non posso
cambiare da un giorno all'altro semplicemente perché ho voglia di scrivere
l'Ulisse a Fès. Lo so, bisognerà che cambi qualcosa nel mio modo di vivere;
non continuerò tuttavia a passare la vita a insegnare letteratura comparata a
studenti che si annoiano e che mi annoiano, e neppure continuerò a scrivere
storielle senza profondità sempre sperando di mettermi un giorno a comporre
grandi opere; non passerò l'esistenza con una donna di cui non sono più
innamorato, che si ingozza di cioccolata ogni volta che il mio sesso si
affloscia appena le sono dentro, una sposa all'inizio ben disposta ma diventata
poi talmente sciatta che il suo didietro ha assunto proporzioni allucinanti e la
sua pelle si è gonfiata di generosa cellulite, una donna che si lamenta e
mugola tutto il tempo, piange spesso, adora le ricette della felicità raccolte in
un libro americano che deve avere un titolo del genere Le sette vie della felicità
per una donna quarantenne, seguito dal Manuale di seduzione dopo la menopausa,
e poi letture che io trovo orripilanti, ma bisogna dire che non è sempre stata
così sciatta, è anche colpa mia che l'ho un po' trascurata, l'ho lasciata a
occuparsi dei figli che non ho visto crescere. Oggi sono ormai grandi e sono
partiti per studiare in Canada. Ci siamo ritrovati lei e io, faccia a faccia, soli,
ah, l'angoscia delle sere interminabili quando io leggo mentre lei guarda la
televisione o, qualche volta, lei corregge i compiti degli studenti e io guardo
la televisione marocchina dove i filmati egiziani in serie si susseguono alle
telenovelas messicane doppiate in arabo classico, mentre in cucina la
cameriera segue le peripezie di amori proibiti e, attraverso la porta socchiusa,
si possono vedere parte delle immagini, allora ho scoperto che siamo degli
estranei che non hanno granché da dirsi, gente che si conosce di vista ma non
ricorda più di aver condiviso qualcosa, persone qualsiasi, né buone né cattive,
salvo che io nutrivo una piccola ambizione, avevo almeno quel sogno dipinto
di colori joyciani, il sogno di una scrittura esigente, nuova e provocatoria,
brillante e sconvolgente, di uno stile che lascia il segno nel secolo, ecco, io
mi sarei accontentato di connotare una stagione letteraria, di allontanarmi da
questa casa dove non capitava più niente, prendere la fuga seguendo il
labirinto delle frasi lunghe e magiche, rivelare il cuore della medina di Fès,
marchiarlo e sorprenderlo, dargli un po' di quella follia contenuta nei miei
nervi, un po' di quell'audacia prigioniera delle mie inibizioni, sognare è una
cosa dolce, non costa niente e poi rassicura, ma io volevo davvero decollare,
lasciare questa vita stretta, andarmi a perdere negli spazi interiori dove Larbi
Bennya avrebbe rifatto il mondo, presentare in tal modo una replica al suo
omologo irlandese e dirgli che la vita è nella sostanza stessa della storia, è
quello che accade, ma tutto ciò è lontano dalle mie preoccupazioni attuali,
lontano da Fattouma, mia moglie, che io chiamo Touma («Aglio», in arabo),
il che esprime la mia repulsione e anche la mia mancanza di considerazione,
di rispetto e gentilezza... E lei non merita di essere trattata così. Vedete bene,
mi sforzo di non essere ingiusto, è un effetto classico della paura. Lo
riconosco, ma che fare quando tutto è arrugginito, quando ha preso una brutta
piega, che fare per rianimare una fiamma che è durata così poco? La nostra
coppia è diventata una «scarpa rugginosa, verde, blu argento, ruggine». Ah! il
senso di colpa! che miseria! Mi rode dentro e mi si attacca alla pelle. Mi
voglio male davvero per essere arrivato a tanto, all'autocritica e
contemporaneamente al rimorso. Cosa ho fatto per meritarmi questa fine? O
piuttosto, cosa non ho fatto che avrei dovuto fare per sottrarmi a questo senso
di decadenza personale? Dopotutto Fattouma è estranea al mio
disorientamento. È però presente per metterlo in luce, per erigerlo a
fallimento. Il nostro matrimonio è stato un malinteso, un incastro impossibile.
Avevo appena terminato gli studi, mia cugina era libera, mia madre e le mie
sorelle me lo fecero sapere. Fattouma aveva un certo fascino ed era assai
appetitosa. Non avevamo diritto ad amoreggiare prima di aver stipulato un
contratto di matrimonio. Era la regola in quegli anni. Non ho avuto il tempo
di riflettere. Mi è cascata tra le braccia come un frutto maturo. All'inizio
trovavo nel matrimonio vantaggi abbastanza piacevoli.

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