Lacrime in collisione – Benedetta Cipriano

SINTESI DEL LIBRO:

Osservo la scatola di cereali prescelta. Non mangio più.
Mi limito a ingerire liquidi, concedendomi raramente un vero e
proprio pasto. Lo stomaco ha deciso di ribellarsi al tanto temuto
dolore. Il dolore mi sovrasta, mi tiene in pugno. Quando guardo il
cibo, la gola si secca e la salivazione si arresta. Non posso
continuare così.
Sull’ultimo ripiano dello scaffale sono riposti i miei tanto amati
Froot Loops, li guardo e li respingo allo stesso tempo. Vorrei
prenderli, scartarli in fretta, infilare una mano all’interno della scatola,
afferrarne una manciata e riempirmici la bocca, affondare ogni
incertezza nel mio cibo preferito e ingoiare anche il tormento. Sono
giorni che torno in questo supermercato, ma poi alla fine scappo via.
I miei piedi forse hanno una consapevolezza maggiore dei miei
pensieri, quando si dirigono al supermercato per arrestarsi di colpo
di fronte al solito scaffale a osservare il mio cibo preferito. Non
dipende da me.
Ogni giorno, è un giorno uguale a tutti gli altri. Provo a ingerire
cibo, non ci riesco. Non vomito, semplicemente non mangio. Difficile
spiegare la sensazione di disagio a chi mi scruta imbambolata di
fronte a una confezione di cereali.
Eppure, oggi desidero quei cerali. Oggi ci riesco.
Oggi mi dirigo di fronte allo scaffale e cerco di spostare prima un
piede e poi l’altro. Lentamente, procedo verso la tanto bramata
meta. È incredibile, fallisco. A un passo dalla vittoria, i piedi mi
tradiscono, mi tremano le gambe, i polmoni si svuotano e resto in
apnea, cado sul pavimento di un supermercato anonimo quanto me.
Non riesco ad alzarmi. Devo alzarmi. Cerco di calmare il respiro
accelerato, tengo a freno la lingua, mi viene voglia di urlare ad alta
voce i numeri che colleziono nella mente. Non lo faccio. Tenendo a
bada il mio disturbo ossessivo compulsivo, li trattengo in me,
reprimendo quel dannato conto alla rovescia.
Non voglio sembrare una pazza. Non posso collezionare numeri
al contrario e scoppiare in un pianto. Devo alzarmi.
Il supermercato è deserto, gioisco della solitudine di quel
momento per riafferrare parte delle mie emozioni. Raccogliendo un
respiro profondo, poggio una mano a terra e mi faccio forza. Barcollo
sulle mie ginocchia, ma mi reggo in piedi. La testa continua a girare,
ma perché? Le parole non si arrestano, ruotano alla ricerca di un
significato nascosto.
Vorrei godere di questa solitudine, però la triste realtà è che io
non sono mai sola. La mia ossessione mi perseguita, mille parti di
me entrano in conflitto, creando un legame indissolubile. Lotto contro
esse, cercando di rimettere insieme i pezzi per arrivare alla vera me.
Non riesco a gioire, non riesco a piangere. Ogni giorno è così.
Nella mia mente si affollano parole e numeri, nel mio stomaco si
apre un buco nero, sempre pronto a dilatarsi, i polmoni si
comprimono, inspiro sperando di riuscire a inglobare più aria
possibile.
Mi sistemo la gonna con le mani sudate. Con un gesto rapido mi
tolgo una ciocca bionda di capelli dal naso, la sistemo dietro
l’orecchio, mi gratto la fronte, lisciandomi la t-shirt. Mi avvicino allo
scaffale, guardo in alto, cercando di arrampicarmi verso la
confezione di cerali, decisamente troppo distante. Allungo le braccia
in avanti, saltellando come un canguro isterico in cerca dello slancio
giusto per arrivare alla meta. E, niente, non ci arrivo. Sono troppo
bassa. Il mio metro e sessantacinque non mi permette di
raggiungere la vetta.
Mantengo la calma. Devo riuscire a prendere quella maledetta
scatola di cerali. Immagino un modo che mi permetta di arrivare più
in alto, perciò provo di nuovo a saltellare, ma – quando mi sembra di
essere riuscita ad afferrare la scatola – mi scivola di mano e rischio
di cadere a mia volta.
In quel preciso istante, due mani mi afferrano la vita.
Alzo lo sguardo. Qualcuno mi ha toccata. Qualcuno mi ha toccata
e per la prima volta non ho avuto voglia di scappare. La nausea si è
arrestata, il respiro non è più affannoso. Con la paura di associare
uno sguardo a quelle mani possenti, con lentezza sposto il volto,
cercando di sbirciare l’espressione confusa di chi mi ha permesso di
rimanere in piedi, non ci riesco. Alzo di scatto il mento e i miei occhi
entrano in collisione con quelle iridi nere, intense e vuote allo stesso
tempo.
Mi concentro sulla scatola di cereali che mi viene delicatamente
posta tra le mani dallo sconosciuto. Ci guardiamo di nuovo. Nessuna
parola, nessun dettaglio, nessun gesto, solo silenzio.
Riesco a biascicare un “grazie”.
Con un cenno del capo l’uomo si dirige verso l’uscita. Non sorride,
ma ha uno sguardo carico di emozioni inespresse.
Intorno a me il deserto, eppure non mi sento sola. Due mani mi
hanno toccata e non mi hanno sconvolta. Uno sguardo intenso, ma
pieno di angoscia ha incrociato i miei occhi verdi, non di un verde
brillante, di un verde opaco, sbiadito, quasi assonnato e dolorante.
Anche il suo era uno sguardo carico di dolore.
Lo conosco quello sguardo, è il mio. È lo sguardo di chi fugge.
Nate
L’ho toccata. Ho ancora il potere di toccare qualcuno senza
distruggerlo.
Non sono consapevole del motivo per cui l’abbia fatto.
Corro. Con il cappuccio della felpa calato sulla testa.
Sono riuscito a toccare una ragazza, una persona, ma non sono
riuscito a reggere il peso celato dietro quegli occhi stanchi, spenti,
doloranti.
Con lo sguardo perso di chi combatte contro i fantasmi, vestita in
abiti decisamente troppo grandi, aveva cercato di camuffare anche
se stessa, proprio come se quegli indumenti potessero coprire anche
l’amarezza. Ho imparato che la sofferenza invece ti tradisce.
Puoi camuffarti indossando una t-shirt ingombrante, camminare a
testa bassa, ma non potrai mai nascondere ciò che sei.
In guerra, ho imparato a nascondermi.
Sono scattante, veloce, rapido, frenetico. Sono un respiro
spezzato, una parola pronunciata a mezza bocca, sono un
sentimento inesistente. Un sorriso malinconico, il ricordo di un
tramonto impresso nell’ombra.
Ebbene sì: il corpo può nascondersi, il cuore no.
Durante le notti fatte di incendi e nascondigli, cercavo di
camuffare la mia faccia, correndo con un fucile d’assalto stretto al
petto, vagando imperterrito alla ricerca di chi potesse farmi del male:
avevo sfidato la vita salvando altre vite, sapendo che in cambio un
giorno non molto lontano avrei potuto dare la mia.
Correvo, sfidavo il mondo, mi nascondevo, proteggevo la mia
patria.
Non c’erano mai nascondigli sicuri, ogni posto era pericoloso.
Ogni notte, dopo aver cenato, mi stendevo sulla terra arida
cogliendo il luccichio delle stelle. Non era facile perdersi osservando
il cielo.
Una volta però, durante una serata tranquilla, mi dedicai a
osservare tutta quella meraviglia: un tappeto nero tempestato di
diamanti. Un posto rassicurante, un piccolo grande infinito da
fissare, così gli occhi ricolmi di tanta bellezza avrebbero potuto
dimenticare anche la guerra.
Quegli stessi occhi mi avrebbero, però, tradito.
Una lacrima si sarebbe impossessata della mia malinconia,
riversandosi sulle guance, trafiggendo la mia pelle, senza fermarsi.
Non si sarebbe fatta afferrare da una mano, ma colando verso il
basso si sarebbe persa all’angolo della bocca, bruciando una ferita.
Una sola lacrima amara mi avrebbe insegnato che il dolore ti tiene in
pugno.
Un soldato può lottare contro il mondo, può salvare una vita e
perderne cento, ma non può nascondere una debolezza di fronte a
un cielo stellato perché quasi accecato da tanta luce, mentre
abbraccia un’arma da fuoco, dimenticando chi è creando una
qualche identità che non gli appartiene.
Potevo essere un numero indefinito, un militare, uno dei tanti,
niente di speciale. Quando sei un marine impari a combattere,
consapevole di dover mettere in discussione anche la tua vita,
mentre – correndo e nascondendoti – ti difendi dagli attacchi e speri
di non finire su una mina antiuomo.
Tuttavia, ci sono bombe che possono esploderti nel petto.
Incendiano ogni pensiero, riducono il tuo stomaco in pezzi,
distruggono i valori nei quali credi, eliminano l’ideale di una
prospettiva felice spezzandoti il fiato: questa è la bomba che ha
lacerato il mio cuore.
Non ero riuscito a salvarlo…
Nascosti dietro un cumulo di terreno, sussurravamo una
filastrocca oscena, cercando di mettere fine alla noia, con gli occhi
sempre rivolti verso il nemico. Ogni parola fuoriusciva dalla nostra
bocca senza emozione, ma ci permetteva di avere serenità
apparente. Ci faceva immaginare in un posto lontano chilometri, su
una spiaggia in California con la tavola da surf tra le mani, pronti ad
affrontare la grande onda.
Invece, l’onda, James non riuscì a prenderla.
Su due piedi, in meno di venti secondi, mi abbandonò al destino,
mi lasciò sconfitto e solo in cerca di parole.
Quella notte, sarebbe stata l’ultima notte. Quella notte un proiettile,
dritto nel petto, avrebbe cancellato James per sempre, portando via
con sé parte della mia umanità. Da quella notte non osservo più le
stelle. Traditrici, fottute, maledette stelle. Lui era il mio migliore amico
e io sono rimasto inerme di fronte a tutto quel dolore. Non ho saputo
proteggerti, James, non sono riuscito a toccarti.
Avevo scosso la testa senza versare una lacrima, avevo gridato e
sparato, gridato e sparato, illudendomi che un colpo rapido mi
colpisse il petto.
Corro imperterrito, sfrego le mani sopra i pantaloncini neri,
asciugo il sudore con una manica della felpa, avvolgo i miei pensieri
tra le dita. Afferrandomi di scatto la fronte, arresto il ritmo di colpo.
Sbando, non cado, piego leggermente le ginocchia per restare in
equilibrio, la testa mi esplode, lotto premendo forte le tempie,
cercando di afferrare ogni singolo attimo.
Porto le braccia all’addome, cercando di alleviare quel nodo allo
stomaco, come se una carezza o una stretta energica potessero
cancellare il panico che divampa in un corpo ormai distrutto: il mio.
Penso allo sguardo vuoto con il quale sono entrato in collisione al
supermercato.
Occhi disillusi in cerca di certezze ormai lontane, talmente distanti
da sembrare inafferrabili. Gracile, nascosto tra gli indumenti, una
treccia lunga poggiata delicatamente su una spalla, un naso piccolo,
zigomi alti spruzzati di qualche beffarda lentiggine, un volto
disarmato che cerca di cadere nell’impersonalità.
Ma quegli occhi avrei potuto guardarli all’infinito, perché in quegli
occhi ho colto una parte di me. Ho affondato le mani su quei fianchi
spigolosi, ho temuto di farle male, la presa è stata energica, il
contatto devastante.

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