La vedova nera: Una missione per Gabriel Allon – Daniel Silva

SINTESI DEL LIBRO:

Tolosa si sarebbe rivelata la rovina di Hannah Weinberg. Quella sera telefonò
ad Alain Lambert, un suo contatto al Ministero dell'Interno, e gli disse che era
arrivato il momento di lanciare un segnale chiaro. Alain le promise una
reazione immediata. «Useremo la massima fermezza» aggiunse. La fermezza
è il paravento perfetto dei burocrati quando non intendono fare proprio nulla.
La mattina dopo, il ministro in persona visitò il luogo dell'aggressione e
rivolse un appello fumoso al dialogo e alla riconciliazione. Ai genitori delle
tre vittime offrì tutto il suo cordoglio. «Ci impegneremo di più» assicurò
prima di tornare a Parigi. «Dobbiamo impegnarci di più.»
Avevano solo dodici anni, le vittime, e si trattava di una ragazzina e due
ragazzini ebrei. All'inizio i media francesi evitarono di menzionarne le origini
e sorvolarono sul fatto che i sei aggressori erano tutti arabi; dissero solo che
provenivano da una banlieue a est del centro cittadino. La descrizione dei
fatti fu così vaga da sfiorare la reticenza. Secondo la radio francese, era
scoppiata una lite tra due gruppi di giovani fuori da una pâtisserie; c'erano
stati tre feriti, di cui uno grave. La polizia stava indagando, ma finora non
aveva effettuato alcun arresto.
In realtà si era trattato di un vero e proprio agguato teso da una banda di
ventenni a tre ragazzini ignari. Quel giorno gli aggressori si aggiravano nel
centro di Tolosa in cerca di ebrei su cui sfogarsi e il fatto che le vittime
fossero poco più che bambini non li aveva turbati affatto. I due ragazzi erano
stati schiaffeggiati, coperti di sputi e poi presi a calci e a pugni; la ragazzina
buttata a terra, immobilizzata e sfregiata con un coltello. Prima di fuggire, i
sei avevano gridato ai passanti attoniti: «Khaybar, khaybar, ya yahud!».
Nessuno ancora lo sapeva, ma quell'esclamazione in arabo era un richiamo
alla conquista musulmana di un'oasi ebraica vicino alla città santa di Medina,
avvenuta nel VII secolo. Il messaggio era chiaro: l'armata del Profeta,
secondo i giovani fanatici, stava per colpire gli ebrei di Francia.
Purtroppo l'aggressione di Tolosa non fu un fatto isolato. I precedenti non
mancavano, visto che la Francia stava vivendo il peggior rigurgito di violenza
antisemita dai tempi dell'Olocausto. Sinagoghe incendiate, cimiteri profanati,
negozi saccheggiati e case vandalizzate o deturpate con scritte oscene e
minacciose. Solo nell'ultimo anno si contavano più di quattromila episodi,
tutti documentati con attenzione da Hannah e dal suo team del Centro Isaac
Weinberg per lo studio dell'antisemitismo in Francia.
Chiamato così in onore del nonno paterno di Hannah, il Centro era nato
circa dieci anni prima e da subito era stato costretto a rigide misure di
sicurezza. Con il tempo era diventato un'istituzione molto rispettata in
Francia, e Hannah veniva considerata la cronista più autorevole della nuova
ondata di antisemitismo che stava scuotendo il Paese. I suoi sostenitori la
definivano "una militante della Memoria", una donna che non si fermava
davanti a nulla pur di costringere i politici di turno a proteggere e difendere la
vessata minoranza ebraica. I suoi detrattori, invece, erano molto meno
indulgenti e di conseguenza lei aveva smesso già da un po' di leggere certa
stampa o di perdersi sui siti più faziosi di Internet.
Il Centro Weinberg sorgeva in Rue des Rosiers, la strada principale del
quartiere più marcatamente ebraico della metropoli. Hannah viveva poco
lontano, in un appartamento di Rue Pavée. La targhetta sul citofono diceva
MME BERTRAND, una delle poche precauzioni che Hannah aveva preso per
tutelarsi. Abitava da sola, circondata dall'eredità di tre generazioni di
Weinberg che comprendeva una piccola collezione di quadri e diverse
centinaia di occhiali antichi, la sua passione segreta. A cinquantacinque anni
non era sposata e non aveva figli, ma ogni tanto, quando gli impegni lo
permettevano, si concedeva un amante. Alain Lambert era stato uno di loro,
una piacevole distrazione in un periodo particolarmente teso.
Alain la chiamò quella sera stessa, dopo la visita del ministro a Tolosa.
«Complimenti per la fermezza» commentò lei acida. «Dovreste
vergognarvi.»
«Stiamo facendo il possibile.»
«Ah sì? Be', non è abbastanza.»
«Meglio non gettare benzina sul fuoco in questo momento.»
«Suona pericolosamente simile a quello che si diceva nell'estate del '42.»
«Hannah, ti stai facendo prendere dalla rabbia.»
«Non mi lasciate altra scelta che scrivere un comunicato stampa.»
«Allora ti consiglio di scegliere con cura le parole. Noi siamo gli unici
che si frappongono tra voi e loro, e lo sai.»
Hannah chiuse la telefonata, poi aprì il primo cassetto della scrivania e
prese la chiave della porta in fondo al corridoio. C'erano giorni in cui solo la
vista della sua cameretta riusciva a confortarla: era stata il suo rifugio di
bambina ed era rimasta identica ad allora, con il letto a baldacchino dalle
tendine in pizzo e le mensole piene di pupazzi e giocattoli. C'era la foto
sbiadita di un attore americano che le faceva battere forte il cuore e appeso
sopra la cassettiera in stile provenzale, quasi invisibile nella penombra, un
quadro di Van Gogh, Marguerite Gachet alla specchiera. Hannah passò
lentamente un dito sulle pennellate pensando all'uomo che si era occupato
dell'unico restauro del dipinto. Come avrebbe reagito a quella situazione? No,
si disse, meglio lasciar perdere.
Si sdraiò sul suo vecchio letto e quasi senza accorgersene sprofondò in un
sonno tranquillo e senza sogni. Quando si svegliò, aveva un piano.
Per gran parte della settimana successiva, Hannah e la sua squadra
lavorarono sodo in condizioni di massima allerta operativa. Contattarono i
possibili interessati, siglarono accordi con strette di mano e con discrezione
tastarono il polso ai benefattori. Due dei principali finanziatori del Centro si
tirarono indietro, concordando con il Ministero dell'Interno che era meglio ne
jeter pas de l'huile sur le feu, non gettare benzina sul fuoco. Hannah mise
quel che mancava di tasca propria, attingendo dal patrimonio personale.
Com'era prevedibile, anche il fatto che fosse benestante le veniva
puntualmente rinfacciato dai suoi nemici.
Infine, arrivò il momento di discutere come battezzare il progetto. Rachel
Lévy, responsabile delle relazioni pubbliche del Centro, propendeva per un
nome moderato che lasciasse trasparire qualcosa di più, ma Hannah pose il
veto. Quando le sinagoghe bruciano, disse, la cautela è un lusso che non ci si
può permettere. Voleva dare l'allarme, lanciare un vibrante appello affinché si
cominciasse ad agire. Scribacchiò alcune parole su un pezzo di carta e lo mise
sulla disordinata scrivania di Rachel.
«Questo dovrebbe attirare l'attenzione.»
Fino a quel momento nessun personaggio di rilievo aveva aderito
all'iniziativa, tranne un polemico blogger americano che faceva il
commentatore su una TV via cavo e che avrebbe accettato persino l'invito al
proprio funerale. Ma poi Arthur Goldman, l'eminente esperto di
antisemitismo di Cambridge, si dichiarò disposto a partire per Parigi –
ovviamente a condizione che Hannah gli pagasse il soggiorno nella suite più
lussuosa dell'Hôtel de Crillon. Reclutato Goldman, fu un gioco da ragazzi
coinvolgere Maxwell Strauss di Yale, che non perdeva occasione per apparire
sullo stesso palco del rivale. A quel punto gli altri relatori riempirono in fretta
le caselle mancanti. Il direttore dello US Holocaust Memorial Museum
garantì la propria presenza, lo stesso fecero due importanti storici della
deportazione e un esperto dell'Olocausto francese dello Yad Vashem.
Contattarono anche una scrittrice, più per la sua popolarità che per le
competenze storiche, e un politico dell'estrema destra francese che raramente
dimostrava un po' di comprensione per qualcuno. Infine invitarono diversi
leader politici e religiosi di fede musulmana: rifiutarono tutti, e lo stesso fece
il ministro degli Interni. Alain Lambert riferì personalmente la notizia ad
Hannah.
«Pensavi davvero che avrebbe accettato di partecipare a una conferenza
dal tema così provocatorio?»
«Mio Dio, che il cielo lo scampi dal fare qualcosa di provocatorio!»
«E per la sicurezza? Come farete?»
«Ci siamo sempre arrangiati da soli.»
«Niente israeliani, Hannah. Darebbero una pessima immagine a tutta la
faccenda.»
Rachel Lévy rilasciò il comunicato stampa il giorno successivo. I media
vennero invitati a seguire la conferenza e un certo numero di posti fu
riservato al pubblico. Poche ore dopo, in una strada affollata del ventesimo
arrondissement, un uomo armato d'accetta aggredì un religioso ebraico
ferendolo gravemente. Prima di fuggire, l'assalitore agitò l'arma insanguinata
gridando Khaybar, khaybar, ya-yahud! La polizia, riferirono i notiziari, stava
indagando.
Per ragioni di sicurezza, solo cinque frenetiche giornate separavano il
comunicato stampa dall'inizio della conferenza, e Hannah attese fino
all'ultimo per stendere il discorso di apertura. La sera prima
dell'inaugurazione, sedeva da sola in biblioteca con la penna che scorreva
furiosamente sui fogli color paglia del blocco degli appunti.
Non esisteva luogo più appropriato della biblioteca di suo nonno per
preparare quel discorso. Nato nel distretto di Lublino, in Polonia, era fuggito
a Parigi nel 1936, quattro anni prima che la Wehrmacht di Hitler invadesse la
Francia. Poi, la mattina del 16 luglio 1942 – il giorno diventato famoso come
Jeudi Noir, il giovedì nero – gli agenti della polizia collaborazionista francese
si erano presentati alla porta di Isaac Weinberg e della moglie mostrando loro
le famigerate schede azzurre che significavano la deportazione per circa
tredicimila ebrei stranieri. Ma prima dell'arresto, Isaac era riuscito a
nascondere due cose: il suo unico figlio, un bambino di nome Marc, e il
dipinto di Van Gogh.

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