La rete ombra – Giovanni Ziccardi 

SINTESI DEL LIBRO:

Metto in folle. Do un ultimo colpo di gas. Ruoto la chiave del
quadro, delicatamente, verso sinistra. La moto si spegne
borbottando, con il solito suono cupo dell’unico cilindro che, pian
piano, va a morire. Chiudo il rubinetto della benzina, scendo e la
parcheggio con molta calma ai margini di una stradina dietro al
tribunale. Proprio in prossimità dell’ingresso laterale del palazzo.
Rimango defilato, per ora, dal gruppo di giornalisti e di colleghi
che già si stanno accalcando davanti all’entrata del tempio della
giustizia milanese.
Lo osservo con un certo timore, come mi capita quasi ogni
mattina. Un gigantesco parallelepipedo esteso quanto piazza del
Duomo. Il regime fascista lo volle “grandioso” e “razionale” allo
stesso tempo. Che fosse degno sia dell’idea di Giustizia, sia della
città di Milano. L’impatto visivo è, ancora oggi, emozionante.
Arrivare fin qui da casa mia, nel quartiere Isola, è stata una
passeggiata. Ho impiegato meno di dieci minuti, nonostante il
traffico già abbastanza intenso del centro città.
Lo slalom tra le macchine e il procedere a zigzag con le ruote
tassellate sui binari del tram mi hanno messo di buon umore. Mi
hanno rigenerato, azzarderei. Mi è perfino passato il mal di testa.
A Milano bastano un casco integrale che ti isoli dal mondo,
come in una stanza senza rumori, e le vibrazioni di un vecchio
monocilindrico per entrare in una dimensione di quiete. La
maniera ideale, insomma, per iniziare la mattina di un giorno
speciale.
Mi guardo intorno e nei paraggi della mia Deus intravedo
soltanto degli scooter.
Dilettanti.
Una donna mora, slanciata, alta quasi quanto me, con
l’espressione accigliata, passa velocemente in mezzo a due
motorini parcheggiati e mi afferra sottobraccio mentre sto
assicurando il blocca-disco alla ruota anteriore. Inizia a parlare in
maniera concitata, ma con il casco fatico a sentire.
Per un attimo mi preoccupo, ma non appena i capelli le
scoprono il viso la riconosco.
È una collega milanese, Rebecca Lamberti Fontana. Avvocato
anche lei.
Le nostre vite si sono già incrociate lo scorso anno. Era stata
mia avversaria in udienza in un caso che mi ha tenuto impegnato
per molti mesi. Una professionista in gamba, senza dubbio.
La rammento timida, in aula, con le gote costantemente
chiazzate di rosso, assai cortese nei miei confronti. Stamattina la
ritrovo molto seria. Ha un leggero tic che le sta martoriando il
labbro superiore. Indossa un paio di occhiali da sole. Sta fumando.
Ha l’aria provata. Non sorride, e rimane in silenzio. La vedo
tremare.
Io, intanto, mi tolgo i guanti e sfilo il casco, che fisso a fianco
della sella.
Non ci siamo più incontrati da allora, nemmeno nei corridoi del
tribunale. Non ho mai chiamato neppure il numero di telefono che
mi aveva lasciato, scritto sul retro del biglietto da visita dopo
l’udienza, con la proposta di bere qualcosa insieme.
Probabilmente avrei dovuto farlo. Sicuramente sarebbe stata una
persona interessante da frequentare. Ma dopo quell’udienza sono
successe tante cose e sono stato distratto da ben altri problemi.
Me la ricordavo elegante, simpatica. Charmante. Ora sembra
un’altra persona. Non siamo in confidenza, ma cerco comunque di
essere cordiale e di non apparire seccato mentre mi parla.
«Ciao, Alessandro. Scusami tanto, non ti volevo spaventare. Ti
stavo aspettando di fronte all’ingresso principale del tribunale e
quando ho visto passare la tua moto ti ho seguito...»
«Tranquilla Rebecca, non preoccuparti.»
«Perdonami se mi presento in questo modo, senza preavviso,
ma ho un grosso problema. Ne possiamo parlare?»
La sua voce è poco più di un sussurro, e sembra sul punto di
piangere.
«Certo, ma ho solo un attimo. L’udienza inizierà tra pochi
minuti.»
Rebecca non mi segue, sembra catatonica, ma poi annuisce,
come se la mia risposta le fosse arrivata con un ritardo di cinque
secondi.
Verifico che il casco sia ben assicurato al fianco della moto e la
prendo sottobraccio con delicatezza, cercando di farle da guida.
Ci dirigiamo verso i Giardini della Guastalla, l’unico luogo
verde a pochi passi dal tribunale ancora tranquillo a quell’ora.
Quello che è il più antico parco di Milano è diventato, da
qualche anno, il mio luogo di ritiro preferito. Un vero e proprio
paradiso per la meditazione a pochi minuti dal mio studio in via
Larga.
All’ombra di quelle piante, e su quelle panchine, ho avuto
discussioni feroci con clienti problematici, ho letto libri e risolto
casi, ho scritto codice e violato sistemi.
In quei prati e su quella ghiaia sottile ogni tanto porto
Bonanza, il mio beagle dal passato turbolento, quando viene con
me in studio. Lo lascio libero nel piccolo spazio recintato, che ha
cominciato a conoscere, e mi sembra felice, anche se non si
allontana mai troppo. Forse un giorno correrà senza timori, come
tutti gli altri cani. Quando riuscirà a rimuovere completamente i
ricordi di quel laboratorio per la vivisezione da cui lo abbiamo
strappato appena in tempo.
Ci vengo spesso anche da solo, in realtà, al parco. Passeggio in
circolo, e di solito mi siedo in fondo, al fresco, a godermi un po’ di
tranquillità.
Subito dopo il quartiere dove abito, quei luoghi sono diventati
la mia seconda casa.
Non appena varchiamo il grande cancello in ferro battuto che
individua l’ingresso dei giardini, Rebecca inizia a parlare a raffica,
cercando di mantenere un tono neutro e scandendo bene le parole
ma, al contempo, facendomi percepire fino in fondo l’ansia che la
sta dilaniando.
«So che stamattina hai l’ultima udienza del processo,
Alessandro. L’ho letto su tutti i giornali e in rete. Per quello sono
venuta qui. Non voglio rubarti tempo e concentrazione, ma è
un’emergenza.»
«Stai tranquilla, Rebecca, non preoccuparti. Anzi, ti ho pensata
in questi giorni, riguardando gli atti. Immaginavo di vederti in
aula come parte civile. Poi ho visto che non eri più il loro
avvocato.»
«No, no. La famiglia ha deciso di lasciar perdere tutto. Mi
hanno pagata per il lavoro svolto e poi, subito dopo, hanno
revocato il mandato. Non mi sono più occupata di quel caso, da
allora.»
Ci sediamo. Noto alcune scolaresche nei paraggi, gli allievi
carabinieri che corrono, qualche avvocato che attraversa il parco,
diretto verso il tribunale o l’ufficio del giudice di pace.
Si guarda attorno sospettosa, poi inizia a parlare con voce più
decisa.
«Vorrei affidarti un incarico. Vorrei che investigassi su un fatto
che mi sta generando enormi problemi. E pensieri. E ho bisogno
di un bravo penalista.»
«Di cosa si tratta? Un procedimento disciplinare? O sei
indagata?»
La noto, ora, in grande imbarazzo. Non sa da che parte iniziare,
e io aspetto. Ha le labbra che tremano. E le mani che imitano le
labbra.
Le passo un braccio attorno alle spalle per metterla a suo agio.
Lei sospira, si rilassa appoggiandosi a me, mi guarda fisso negli
occhi e decide di fidarsi. O, forse, semplicemente è esausta, e non
ce la fa più a custodire dei segreti. Va subito al punto.
«Ho un compagno da anni, Alessandro. Ma negli ultimi mesi ho
avuto una storia parallela con un uomo che si chiama Fabio. Una
storia, in realtà, che stava finendo. Anzi, che io avevo deciso di far
finire. Mi sono resa conto, pian piano, dell’assurdità della
situazione. Questa storia è precipitata nelle ultime quattro
settimane. Cinque giorni fa Fabio ha tentato il suicidio. Così.
Senza preavviso. Si è lanciato dal quinto piano del suo palazzo. Ha
avuto, per così dire, fortuna, ed è atterrato sul tettuccio di un’auto
decapottabile. La tela e i sedili morbidi lo hanno protetto. È
stabile. In condizioni critiche, e in coma indotto. Ma stabile.»
Taccio. Rimango impassibile.
Sono tutte persone che non conosco bene, in fondo, anche se la
storia sta prendendo una sfumatura tragica, e mi dispiace per lei.
Cerco di ricordare se la notizia del tentativo di suicidio fosse
circolata nei giorni scorsi, ma non mi sembra di rammentarla. E
poi a Milano ogni giorno ne succede una. Forse sono riusciti a
tenere la cosa riservata, oppure ero troppo coinvolto dal mio
processo e non ci ho fatto caso.

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