La nave d’oro – Katherine Rundell

SINTESI DEL LIBRO:
Era una volta, cento anni fa, una ragazza buia e tempestosa.
La ragazza era russa, e sebbene i suoi capelli, gli occhi e le unghie fossero
bui come la notte a ogni ora del giorno, il suo carattere diventava tempestoso
solo quando pensava che servisse davvero. Il che capitava abbastanza spesso.
Si chiamava Feodora.
Abitava in una casa costruita con il legname raccolto nella foresta che la
circondava. Le pareti erano foderate con lana di pecora per tenere lontano
l’inverno russo e all’interno era illuminata da lanterne antivento. Feo le aveva
dipinte usando tutti i colori che aveva a disposizione nella sua scatola degli
acquarelli e la casa proiettava nella foresta luci rosse, verdi e gialle. Sua
madre aveva tagliato e carteggiato la porta con le proprie mani e il legno era
spesso venti centimetri. Feo lo aveva dipinto di azzurro-neve. Nel corso degli
anni i lupi avevano aggiunto le loro zampate, che erano d’aiuto per
scoraggiare l’avvento di ospiti sgraditi.
Tutto ebbe inizio – tutto quanto – con qualcuno che bussava alla porta
azzurro-neve.
Anche se “bussare”, pensò Feo, non era la parola giusta per descrivere quel
rumore. Sembrava più qualcuno che cercava di scavare un buco nel legno con
le nocche.
Ma la cosa più strana era il gesto in sé. Nessuno bussava mai: c’erano solo
lei, sua madre e i lupi. I lupi non bussano. Se vogliono entrare, passano dalla
finestra, che sia aperta oppure no.
Feo posò gli sci su cui stava spalmando la sciolina e tese le orecchie. Era
presto, e indossava ancora la camicia da notte. Non possedeva una vestaglia,
così s’infilò il maglione fatto a mano da sua madre, che le scendeva fino alla
cicatrice del ginocchio, e corse alla porta d’ingresso.
Sua madre, con addosso una lunga vestaglia di pelle d’orso, alzò lo
sguardo dal fuoco che stava accendendo in salotto.
«Vado io!» Feo afferrò la maniglia della porta con tutte e due le mani. Era
dura: il ghiaccio doveva aver sigillato i cardini.
Sua madre cercò di fermarla. «Aspetta! Feo!»
Ma Feo aveva già aperto e prima ancora che riuscisse a scansarsi con un
balzo, la porta si spalancò del tutto, colpendola alla tempia.
«Ehi!» Feo incespicò e cadde seduta. Disse una parola che fece sollevare le
sopracciglia e storcere le labbra allo sconosciuto che in quel momento le
passò davanti.
Il volto dell’uomo era tutto squadrato: naso sporgente e rughe scolpite,
tanto profonde da gettare ombre nell’oscurità.
«Dov’è Marina Petrovna?» Attraversò il corridoio a passo di marcia,
lasciandosi alle spalle una scia di neve.
Feo si mise in ginocchio, ma dovette subito tirarsi indietro perché altri due
uomini in divisa grigia e stivali neri entrarono pestando i piedi. Le mancarono
le dita di pochi centimetri. «Spostati, ragazza.» Trasportavano un giovane
alce, che tenevano a testa in giù per le zampe. L’alce era morto e gocciolava
sangue.
«Fermi!» gridò Feo. I due indossavano l’alto copricapo di pelliccia
dell’esercito imperiale dello Zar, e sul volto avevano un’espressione
esageratamente formale.
Feo li rincorse. Preparò gomiti e ginocchia a dare battaglia.
I soldati lasciarono cadere l’alce sul tappeto. Il salotto era piccolo, e i due
giovani, grossi e baffuti. I baffi sembravano occupare quasi tutta la stanza.
A guardarli da vicino, non parevano avere più di sedici anni. L’uomo con il
pugno batti-porta, invece, era vecchio; vecchio soprattutto negli occhi. Feo
sentì lo stomaco che le si rattrappiva sotto la gola.
L’uomo disse a sua madre: «Marina Petrovna? Sono il generale Rakov».
«Che cosa vuole?» chiese Marina, con la schiena contro la parete.
«Sono il comandante dell’esercito imperiale dello Zar per i
millecinquecento chilometri a sud di San Pietroburgo. Sono qui perché i suoi
lupi hanno fatto questo» disse. Sferrò un calcio all’alce. Il sangue gli schizzò
sullo stivale lustro e splendente.
«I miei lupi?» Il volto della madre di Feo era impassibile, ma i suoi occhi
non erano calmi né felici. «Non possiedo alcun lupo.»
«È stata lei a portarli qui» disse Rakov. I suoi occhi erano troppo freddi
perché appartenessero a una creatura vivente. «Quindi ne è responsabile.»
Aveva la lingua giallastra di tabacco.
«No. No, non c’è nulla di vero in quello che dice» disse la madre di Feo.
«Sono gli altri che mandano qui i lupi, quando si stancano di loro: gli
aristocratici, i ricchi. Noi li sdomiamo, tutto qui. I lupi non appartengono a
nessuno.»
«Mentire non le sarà d’aiuto, signora.»
«Non sto…»
«Ho visto sua figlia in compagnia di tre lupi. Non sono vostri, quelli?»
«No, certo che no!» cominciò a dire Feo. «Sono…» Ma sua madre scosse
il capo con decisione, facendo segno a Feo di tacere. Lei si morse i capelli e
si cacciò i pugni sotto le ascelle, pronta a scattare.
Sua madre disse: «Appartengono a Feo come le appartengo io, e come lei
appartiene a me. Sono compagni, non animali da compagnia. E quel morso
non è opera né di Nero, né di Bianca, né di Grigia».
«È vero» disse Feo. «Sono segni di zanne di un lupo molto più piccolo,
quelli.»
«Vi sbagliate se pensate che mi accontenterò di una scusa» replicò Rakov.
La sua voce era sempre meno formale, più alta e scomposta.
Feo cercò di calmare il respiro. I due soldati giovani, si accorse, stavano
guardando sua madre: uno di loro era a bocca aperta. Marina aveva spalle,
schiena e fianchi larghi; aveva muscoli da uomo, o forse, pensò Feo, da lupo.
Il suo viso, però, aveva detto una volta un ospite, pareva forgiato nello stesso
stampo dei leopardi delle nevi, o dei santi. “Sembra una dea, con qualche
piccola modifica.” Feo all’epoca aveva cercato di non far trapelare l’orgoglio
di cui l’avevano riempita quelle parole.
Rakov pareva immune alla bellezza di sua madre. «Sono qui per riscuotere
il risarcimento dello Zar ed è quello che farò, all’istante. Niente giochetti, con
me. Dovete cento rubli allo Zar.»
«Non ce li ho, cento rubli.»
Rakov colpì la parete con un pugno. Aveva una forza sorprendente, per un
uomo tanto vecchio e raggrinzito, e le pareti di legno tremarono. «Donna!
Non mi interessano né le proteste né le scuse. Sono stato mandato in
quest’angolo dimenticato da Dio per ottenere ordine e obbedienza.» Scoccò
un’occhiata allo stivale punteggiato di sangue. «E lo Zar ricompensa solo chi
raggiunge gli obiettivi.» Senza alcun preavviso, sferrò un calcio all’alce,
tanto forte da fargli dimenare le zampe, strappando a Feo un sibilo di orrore.
«Tu!» Il generale le si avvicinò, e chinandosi portò il proprio volto – la cui
pelle era venata di blu e sottile come carta – a pochi centimetri dal suo. «Se
avessi una figlia con uno sguardo insolente come il tuo, le avrebbe già prese.
Mettiti seduta e stammi alla larga: non ti voglio nemmeno vedere.» La spinse
indietro, e la croce che gli pendeva sul petto s’impigliò nei capelli di Feo.
Rakov la strappò con un gesto brusco e uscì di nuovo in corridoio. I soldati lo
seguirono. Marina fece segno a Feo di non muoversi – lo stesso gesto che
usava con i lupi – e corse dietro agli uomini.
Feo rimase sulla soglia, aspettando che il ronzio che sentiva nelle orecchie
si spegnesse; poi udì un grido e qualcosa che si rompeva, e scattò di corsa,
scivolando con le calze lungo il corridoio.
I soldati si erano radunati in camera sua, invadendo la stanza con il loro
odore. Feo si ritrasse: puzza di fumo, pensò, e almeno un anno di sudore e
barbe mai lavati. Un soldato aveva il mento tanto sporgente che avrebbe
potuto mordersi il naso con i denti di sotto. Dov’era la mamma?
«Non c’è niente di valore, qui» disse uno dei soldati, facendo correre lo
sguardo sul copriletto di pelle di renna, sulla lanterna antivento e infine sugli
sci appoggiati al caminetto. Feo si precipitò davanti agli sci con fare
protettivo.
«Sono miei!» disse. «Non hanno nulla a che vedere con lo Zar. Li ho fatti
con le mie mani.» Le ci era voluto un mese intero per ogni sci: li aveva
intagliati, sera dopo sera, e poi sciolinati. Ne afferrò uno con tutte e due le
mani, come una lancia. Sperò che nessuno si accorgesse che le pizzicavano
gli occhi. «Statemi alla larga.»
Rakov sorrise, ma senza dolcezza. Afferrò la lanterna di Feo, rimirandola
alla luce del mattino. Feo cercò di strappargliela.
«Basta!» disse Marina. Era in piedi sulla soglia. Aveva un livido sulla
guancia che prima non c’era. «Non vedete che questa è la camera di mia
figlia?»
I due giovani risero. Rakov non si unì a loro: si limitò a fissarli finché non
divennero rossi e si zittirono. Si avvicinò alla madre di Feo per studiare il
segno che aveva sulla guancia. Si chinò finché la punta del suo naso non le
sfiorò la pelle, e poi la annusò. Marina rimase immobile, con le labbra
serrate. Poi Rakov grugnì e scagliò la lanterna contro il soffitto.
«Chyort!» gridò Feo, accucciandosi a terra. Le piovvero sulle spalle i
frammenti di vetro. Balzò verso il generale, brandendo alla cieca lo sci.
«Fuori di qui!» disse. «Fuori di qui!»
Il generale scoppiò a ridere, afferrò lo sci e glielo strappò di mano. «Siediti
e fa’ la brava, prima che mi arrabbi.»
«Fuori di qui» disse Feo.
«Seduta! O farai la fine dell’alce.»
Marina sembrò riprendere vita. «Cosa ha detto? Lei è pazzo se pensa di
poter trattare così mia figlia.»
«Mi disgustate, tutte e due.» Rakov scosse la testa. «È abominevole vivere
con quegli animali. I lupi sono parassiti con i denti.»
«Questo è…» Il volto della madre di Feo sembrò esprimere cento
imprecazioni diverse prima che la sua bocca dicesse: «… inesatto».
«Anche la ragazza, quando sta con i lupi, diventa un parassita. Ho sentito
tante storie su voi due: lei non è adatta a essere una madre.»
Marina si lasciò sfuggire un verso, a metà tra un rantolo e un sibilo, e Feo
sentì una fitta al cuore.
Lui insistette: «Ci sono scuole a Vladivostok che potrebbero trasmettere
alla ragazza i valori di una madre migliore: la Madre Russia. Forse farò in
modo che venga mandata laggiù».
«Feo» disse Marina, «vai ad aspettare in cucina. Subito, per favore.» Feo
sfrecciò fuori, si nascose dietro la porta e si mise a sbirciare dalle fessure tra i
cardini. Il volto di sua madre, quando si rivolse a Rakov, risplendeva di
rabbia e di tante altre emozioni più complicate.
«Feo è mia figlia. Per l’amor di Dio, capisce che cosa vuol dire?» Marina
scosse la testa, incredula. «Vale un esercito di uomini come lei. È un amore
che non dovrebbe sottovalutare, a meno che non voglia morire. L’amore di
un genitore per un figlio… è qualcosa che brucia.»
«Deve essere un bel fastidio.» Rakov si accarezzò il mento con la mano.
«Non capisco qual è il punto. Possiamo arrivarci in fretta?» Si pulì lo stivale
strofinandolo contro il letto. «Stiamo diventando un po’ troppo saccenti.»
«Il punto è che lei deve tenere le mani lontano da mia figlia, se vuole
continuare ad avere delle mani in fondo alle braccia.»
Rakov grugnì. «Davvero poco femminile, da parte sua.»
«Direi il contrario. Io lo trovo profondamente femminile.»
Rakov fissò le dita di Marina, i due pezzi che le mancavano e infine il suo
volto. L’espressione del generale era spaventosa: aveva qualcosa di…
incontrollato. Marina ricambiò lo sguardo. Rakov fu il primo a battere le
palpebre.
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