La nave d’oro – Marco Buticchi

SINTESI DEL LIBRO:
Un mare gonfio e scuro si frangeva contro le rocce sottostanti Fort An-toine,
poco lontano dall'imboccatura del porto. Giugno era iniziato, come sempre in
riviera, tra giornate calde e passeggiate lungo le banchine affol-late di yacht.
Poi era venuto lo scirocco, denso e appiccicoso, foriero di tristi presagi e di
pensieri cupi. E forse proprio uno di questi stava impadro-nendosi della
mente di quell'uomo. Stava seduto con lo sguardo perso tra le onde
imponenti, quelle stesse onde che gli avevano distrutto l'esistenza.
Poteva avere poco meno di quarant'anni, il fisico alto, slanciato. Il volto,
bruciato dal sole, era seminascosto da una barba incolta. Gli occhi erano verdi
e intensi.
I cavalloni si inseguivano alti. La sua mente vagava tra i ricordi, lo sguardo
sembrava rivedere nel mare in tempesta le sequenze del naufragio.
La voce che si levò dietro di lui, superando il fragore dei flutti, aveva un tono
forte e sicuro.
«Lei è Henry Vittard?» chiese lo sconosciuto, costringendo l'uomo a girarsi.
Henry si trovò di fronte a un signore distinto, avanti negli anni, forse vicino
ai sessantacinque. Aveva i capelli bianchi e occhi penetranti che non
tradivano alcuna timidezza. Le labbra, ombreggiate da un paio di baffi
candidi, erano atteggiate a un bonario sorriso.
Henry annuì. Provò una simpatia istintiva nei confronti di quell'anziano
sconosciuto, anche se temeva fosse uno dei tanti curiosi interessati alle tristi
vicende di uno tra i più blasonati lupi di mare di ogni tempo.
«Ho fatto molta strada per trovarla, Henry», disse ancora quel signore dai
baffi candidi, superando con discreta agilità gli scogli che li separavano. «Mi
chiamo Guglielmo Grandi, sono un ammiraglio in pensione della marina
militare italiana», si presentò, porgendogli la destra. Era una stretta di mano
forte, sincera, amica.
«In che cosa posso esserle utile, ammiraglio?» rispose Henry, con tono
schivo, quasi volesse cautelarsi da richieste indesiderate.
«In molte cose. Prima fra tutte: sono convinto che lei sia in grado di fare luce
su un episodio che mi ha segnato la vita. Se ha tempo e voglia di parlare con
me per qualche minuto...» spiegò l'ammiraglio, indicando un bistrot a poca
distanza dal molo.
Giappone, 1330
Le lotte di potere tra lo shogun Hojo e l'imperatore Go-Daigo si riflettevano
nello stato di incertezza e di pericolo che attraversava il paese. Dietro ogni
angolo di strada si poteva celare un agguato mortale.
Soltanto in apparenza l'imperatore e lo shogun avevano differenti compiti
istituzionali. Nella realtà, Go-Daigo e tutto il suo seguito erano mere
comparse, marionette prive di qualunque potere.
L'imperatore Go-Daigo, contrariamente a molti suoi predecessori, mal
sopportava il suo risicato ruolo: ciò che più desiderava era restaurare l'antico
potere imperiale.
Di fatto, tra le due principali autorità del paese regnava una tensione che
sempre più spesso si traduceva in sanguinari scontri tra i sostenitori delle
opposte fazioni.
Nessuno poteva considerarsi tranquillo sul suolo del Giappone, nemmeno gli
esperti samurai che componevano la scorta del generale Ashikaga nel corso
della sua visita all'imperatore. Quegli uomini senza paura, abituati al
combattimento, si erano schierati attorno a colui che avevano giurato di
difendere a costo della loro stessa vita: sembrava che un terribile pericolo
incombesse sul drappello che avanzava con circospezione verso la reggia.
E la minaccia si fece palese nel pieno centro della capitale, a pochi passi dalla
residenza dell'imperatore Go-Daigo: una ventina di uomini armati parve
sbucare dal nulla e assalì il generale e i suoi. Lo scontro, cruento e feroce,
durò solo lo spazio di pochi attimi: i samurai di Ashikaga ebbero in breve
ragione degli assalitori.
Il comandante della scorta, con il capo celato da una maschera guerriera
scolpita in legno di gelso, era stato tra i primi a lanciarsi contro gli assalitori.
Hito Humarawa si mosse con la rapidità di un gatto, estraendo la wakizashi,
la corta spada gemella della più lunga katana, che ogni samurai portava al
fianco. L'uomo che gli stava di fronte gli rispose con uno sguardo colmo di
paura. Invocò pietà con l'ultimo fiato che gli rimaneva in gola.
Implacabile, il fendente, portato dal basso verso l'alto, coprì la supplica con
un sibilo sinistro. La lama della spada, affilata come un rasoio, aprì uno
squarcio nel malcapitato, dall'ombelico allo sterno. Hito Humarawa riassunse
la posizione di guardia e rimase a osservare il suo avversario mentre moriva
fra atroci tormenti, cercando invano di trattenere le proprie viscere.
Solo quando fu certo che il destino dell'altro era segnato e che tutti gli
assalitori erano stati ridotti all'impotenza dal drappello di samurai, Hito
Humarawa ripose la wakizashi e si inchinò dinanzi al grande Ashikaga
Takauji.
«Mi felicito con te, mio giovane Hito. Ancora una volta mi hai salvato la vita.
Quell'uomo mi avrebbe di certo ucciso senza il tuo provvidenziale
intervento», disse Ashikaga. «Sei il più valoroso tra i miei samurai.»
Lo sguardo di Humarawa rimase impassibile. Con un movimento studiato
ripose la spada nel fodero e raccolse da terra il suo yumi, l'arco lungo oltre
due metri. Si guardò attorno, raggelando la piccola folla di curiosi che si era
radunata attorno a loro. Poi riprese il cammino lungo le vie della capitale al
fianco di quel giovane, quasi suo coetaneo, che ormai tutti chiamavano «il
Grande Generale.
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