La donna del ritratto – Kate Morton 

SINTESI DEL LIBRO:

CI eravamo trasferiti a Birchwood Manor perché, a detta di Edward, era
infestata dagli spettri. Non era vero, non ancora, ma solo gli sciocchi
permettono alla verità di guastare una bella storia, e Edward era tutt’altro che
sciocco. La sua passione, la fede cieca nelle sue convinzioni, era uno dei
motivi per cui mi ero innamorata di lui. Aveva il fervore di un predicatore:
qualunque opinione esprimesse diventava una verità assoluta. Attirava le
persone come una calamita, accendendo in loro entusiasmi che non sapevano
nemmeno di possedere e facendo sbiadire tutto sullo sfondo, tranne lui e le
sue certezze.
Ma Edward non era un predicatore.
Mi ricordo di lui. Ricordo ogni cosa.
L’atelier con il lucernario nel giardino londinese di sua madre, l’odore dei
pigmenti appena mescolati, il fruscio del pennello sulla tela, il suo sguardo
che mi accarezzava la pelle. Ero nervosa, quel giorno. Volevo fare buona
impressione, apparire diversa da ciò che ero, mentre i suoi occhi scorrevano
sul mio corpo e l’avvertimento della signora Mack mi risuonava nelle
orecchie: «Tua madre era una vera signora, non dimenticarlo mai, e tu
discendi da una famiglia altolocata. Gioca bene le tue carte e tutto andrà a
buon fine».
Così raddrizzai le spalle, sedendo composta sulla poltroncina di
palissandro nella stanza intonacata di bianco, dietro la siepe fiorita di
cicerchia odorosa.
* * *
La sorella più piccola mi portò il tè e un dolce per merenda, e dal sentiero del
giardino arrivò anche la madre di Edward, per guardarlo lavorare. Lo
adorava. In lui vedeva realizzate tutte le speranze della famiglia. Membro
illustre della Royal Academy, promesso sposo di una giovane facoltosa e
futuro padre di una frotta di eredi dagli occhi scuri.
Decisamente, non un uomo per me.
Sua madre si è considerata responsabile di quanto è poi accaduto, ma non
avrebbe potuto tenerci lontani, non più di quanto avrebbe potuto impedire al
giorno di seguire la notte. Lui mi chiamava la sua musa, il suo destino.
Diceva di averlo capito la prima volta in cui mi aveva vista, quando gli ero
comparsa davanti nel bagliore incerto delle lampade a gas, nel foyer del
teatro in Drury Lane.
Ero la sua musa, il suo destino. E lui era il mio.
È stato tanto tempo fa, è stato ieri.
Oh, ricordo bene l’amore.
Questo è il mio angolo preferito, a metà della scalinata principale.
È una casa strana, costruita apposta per disorientare. Scale che svoltano
all’improvviso, tutte spigoli e gradini irregolari; finestre mai allineate, da
qualunque prospettiva le si guardi; nicchie impensate sotto le assi del
pavimento e dietro i pannelli dei muri.
In quest’angolo c’è un tepore quasi innaturale. Lo notammo tutti, al nostro
primo arrivo, e nelle settimane d’estate ci ingegnammo a turno a indovinarne
la causa.
Ho impiegato parecchio, ma alla fine ho scoperto la verità. Ormai conosco
questo posto meglio di me stessa.
Per convincere gli altri, Edward non parlò della casa, ma della luce. Dagli
abbaini del solaio, nelle giornate limpide, si vede oltre il Tamigi fino ai rilievi
del Galles. Una distesa di malva e verde, bianche rupi di gesso che si ergono
verso le nubi e l’aria calda che sfuma i contorni del paesaggio e li rende
iridescenti.
Fu questa la sua proposta: un intero mese estivo dedicato alla pittura, alla
poesia e ai picnic, ai racconti, alla scienza, all’invenzione. Un mese di luce
donata dal cielo. Lontani da Londra e da ogni sguardo indiscreto. Ovvio che
gli altri non avessero esitato. Edward avrebbe potuto convincere anche il
diavolo a pregare.
Solo a me confessò il vero motivo di quel soggiorno. Perché, per quanto
reale il richiamo della luce, Edward custodiva un segreto.
Arrivammo a piedi dalla stazione.
Era luglio e il tempo era perfetto. Una brezza leggera faceva oscillare
l’orlo della mia gonna. Qualcuno aveva portato dei sandwich che
mangiammo lungo la strada. Dovevamo essere proprio un bello spettacolo:
gli uomini con le cravatte allentate, le donne con i capelli sciolti sulle spalle.
Le risate, le battute, gli scherzi.
Un inizio così promettente! Ricordo il gorgoglio di un ruscello poco
lontano e il tubare di una tortora appollaiata su un ramo. Un uomo a cavallo,
un carro con un ragazzino seduto sulle balle di fieno, l’odore dell’erba appena
falciata. Ah, quanto mi manca quel profumo! Un branco di grasse oche di
campagna ci guardò con sospetto quando raggiungemmo il fiume, poi
starnazzò impavido quando lo attraversammo.
La luce era ovunque, ma presto si sarebbe spenta.
Ma questo lo sapete già, perché se quella spensieratezza fosse durata non
ci sarebbe stato niente da raccontare. La storia di un’estate serena e felice,
finita così com’era cominciata, non interessa a nessuno. L’ho imparato da
Edward.
L’isolamento fece la sua parte: questa casa, arenata sulla sponda del fiume
come un vascello incagliato. E anche il clima: i tanti giorni caldi e afosi e poi
il violento temporale scoppiato quella notte, che ci costrinse tutti al riparo.
Gli alberi gemevano, sferzati dal vento, e il tuono ruggiva, superando il
fiume per afferrare la casa tra le sue grinfie. Al chiuso del salotto si cominciò
a parlare di spiriti e maledizioni. Il fuoco scoppiettava dietro la grata, le
fiamme delle candele vacillavano e nel buio, in quell’atmosfera di paura e
intimità, evocammo qualcosa di malevolo.
Non un fantasma, oh, no, non quello. Il delitto fu opera umana.
Due ospiti inattesi.
Due antichi segreti.
Uno sparo nel buio.
La luce si spense e tutto sprofondò nell’oscurità.
L’estate era avvizzita. Le prime foglie impazienti cominciarono a cadere, a
marcire nelle pozzanghere sotto le siepi, e Edward, che amava questa casa,
iniziò a percorrerne i corridoi come un animale in trappola.
Infine non ne poté più. Fece i bagagli e se ne andò, e io non potei
fermarlo.
Gli altri lo seguirono, come sempre.
E io? Io non avevo scelta. Restai indietro.

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